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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro secondo
    • [I cesarei vogliono che si venga al trattato della riforma, altri a' dogmi]
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[I cesarei vogliono che si venga al trattato della riforma, altri a' dogmi]

Nella seguente congregazione, ridotta a' 18 per sentire li pareri di tutti sopra le proposte della precedente, le sentenze furono 4. Gli imperiali dissero che il capo de' dogmi non si poteva toccare con speranza di frutto, essendo di bisogno prima, con una buona riforma, levare le transgressioni d'onde sono nate l'eresie, allargandosi assai in questo campo e concludendo che, sin a tanto che non cessa lo scandalo che piglia il mondo per la deformazione dell'ordine ecclesiastico, non sarà mai creduta cosa che predicheranno o affermeranno nella dottrina, essendo tutti persuasi che si debbia guardare li fatti, non le parole; né doversi pigliar essempio dalli concilii vecchi, perché in quei o non vi era corrottela de' costumi, o quella non era causa dell'eresia; et in fine il mettere dilazione al trattare della riforma esser un mostrarsi incorrigibili.

Alcuni altri pochi giudicavano d'incomminciare da' dogmi e successivamente passar alla riforma; allegando che la fede è il fondamento e la base del viver cristiano; che non si commincia mai ad edificare dal tetto, ma da' fondamenti; che maggior peccato era errare nella fede che nelle altre azzioni umane; e che il capo dell'estirpare l'eresie era posto per primo nelle bolle ponteficie. Una terza opinione fu che malamente si potevano disgiongere i doi capi della riformazione e della fede, non essendovi dogma che non abbia aggionto il suo abuso, né abuso che non tiri appresso la mala interpretazione et il mal senso di qualche dogma: onde era necessario di trattargli in un medesimo tempo, aggiongendo che avendo tutto 'l mondo gli occhi a questo concilio et aspettando il rimedio non meno alle cose della fede che a quelle de' costumi, si satifaria meglio col trattarli ambidoi insieme, che l'uno dopo l'altro; massime che, secondo la proposta del cardinale del Monte, si farebbono diverse deputazioni, trattando una parte questa materia e l'altra quell'altra: il che si doveva accelerare di fare, considerando il presente tempo, quando la cristianità è in pace, essere precioso e da non perdere, non sapendo che impedimenti potesse apportar il futuro; dovendosi anco studiare ad abbreviare il concilio quanto si poteva, accioché le chiese restassero manco tempo private de' loro pastori, e per molti altri rispetti; accennando quello che poteva nascere a longo andare, con poco gusto del pontefice e della corte romana.

Alcuni altri ancora, tra quali furono i francesi, dimandavano che si mettesse per principale il capo della pace; che si scrivesse all'imperatore, al re Cristianissimo et agli altri precipi, rendendo grazie per la convocazione del concilio, per continuare il quale volessero stabilire la pace e coadiuvare l'opera con mandare loro oratori e prelati; e parimente si scrivesse amicabilmente alli luterani, invitandogli con carità a venire al concilio e congiongersi col rimanente della cristianità. I legati, uditi i pareri di tutti e lodata la loro prudenzia, dissero che per essere l'ora tarda e la deliberazione gravissima e le sentenzie varie, averebbono pensato sopra quanto era stato raccordato da ciascuno, e nella prima congregazione averebbono proposto i ponti per determinare.

Fu preso ordine che le congregazioni si facessero due volte alla settimana, il lune et il venere, senza intimarle; et in fine l'arcivescovo d'Ais, avendo ricevuto lettere dal re Cristianissimo, salutò per suo nome la sinodo e promise che Sua Maestà presto mandaria un ambasciatore e molti prelati del suo regno; e qui la congregazione finí.

I legati avisarono del tutto Roma, scrivendo che avevano portato inanzi la risoluzione delle cose trattate sotto li pretesti narrati, ma in verità per mettere tempo di piú in mezo, aspettando che potessero venir le instruzzioni et ordini come reggersi; supplicando Sua Santità di novo di far intendere la sua volontà, ponderando sopra tutte le altre considerazioni che l'allongare il concilio e tenerlo aperto, potendo abbreviarlo, non fa per la Sede apostolica; aggiongendo essere stati necessitati a stabilire due congregazioni alla settimana per tener i prelati in essercizio e levargli l'occasione di farne da loro stessi. Ma che questo farà comminciare le cose a stringersi, e però sarà necessario che in Roma si pigli maniera di risolvere le proposte presto e non tardare a rispondergli, come sin allora si era fatto, ma tenergli avisati di quanto doveranno fare di mano in mano, con preveder anco li casi quanto sarà possibile; e poiché per molte lettere avevano scritto esservi molti poveri vescovi andati al concilio sotto la speranza e le buone promesse di Sua Santità e del cardinale Farnese, lo replicarono anco allora, aggiongendo che non si pensasse di trattargli cosí alla domestica in Trento come in Roma, dove, non avendo alcuna autorità, stanno umili e soggetti; perché, quando sono al concilio, pare loro dover essere tutti stimati e mantenuti; il che quando non si pensi di fare, sarà meglio pensare di non avergli in quel luogo, che avergli mal sodisfatti e disgustati; concludendo che quella impresa non si poteva condurre a buon fine senza diligenzia e senza spendere.

Parerebbe maraviglia ad ognuno che il pontefice, persona prudentissima e versata ne' maneggi, in tanto tempo, a tante instanze de' suoi ministri, non avesse dato risposta a doi particolari cosí importanti e necessarii. Ma la Santità Sua si fondava poco sopra il concilio: tutti i suoi pensieri erano volti alla guerra che il cardinale Farnese aveva trattato coll'imperatore l'anno inanzi, e non si poteva contenere che non ne facesse dimostrazione, né l'imperatore richiedeva progresso di concilio, per li fini del quale allora bastava che restasse aperto.

 

 




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