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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro secondo
    • [Fede giustificante: openione del Soto, contradetta dal Catarino]
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[Fede giustificante: openione del Soto, contradetta dal Catarino]

Nell'essaminar gli articoli, i primi de' teologi, per facilitare l'intelligenza de' tre primi, si diedero a ricercare qual è quella fede che giustifica e quali opere escluda, distinguendole in tre sorti: precedenti la divina grazia, de' quali parlano i 7 seguenti sino al 10; concorrenti nel momento stesso con l'infusione di quella, e susseguenti dopo la grazia ricevuta, de' quali sono le altre 11. Che la fede giustifichi, convenne presupporlo per indubitato, come da san Paolo detto e replicato. Per risolvere qual fosse quella fede et in che modo rendesse l'uomo giusto, furono le openioni nel bel principio differenti; imperoché, attribuendo la Scrittura molte virtú alla fede, che alcuni non sapevano applicare ad una sola, ebbero la voce per equivoca, e la distinsero in molte significazioni, dicendo che ora è presa per la ubligazione a mantenere le promesse, nel qual senso san Paolo dice che l'incredulità degli ebrei non rese vana la fede de Dio; alle volte per la virtú di fare miracoli, come quando disse: se averò tanta fede che possi trasportar i monti; ancora è presa per la conscienza, nel qual senso disse: l'opera che alla fede non si conforma, è peccato; altre volte per una fiducia e confidenza in Dio, che la Maestà sua mantenerà le promesse: cosí san Giacomo volle che l'orazione sia fatta in fede senza dubitare; finalmente per una persuasione et assenso fermo, non però evidente alle cose da Dio rivelate. Alcuni aggiongevano altre significazioni, chi al numero di 9, chi sino 15.

Ma fra Domenico Soto, opponendosi a tutti, diceva che ciò è un lacerare la fede e dare vittoria a' luterani, e che non vi erano se non due significazioni: l'una la verità e realtà di chi asserisce o promette, l'altra l'assenso di chi l'ascolta, e la prima esser in Dio, la seconda esser sola la nostra; e di questa intendersi tutti i luoghi della Scrittura che della fede nostra parlano, et il pigliar la voce fede per una fiducia e confidenza essere modo non solo improprio, ma abusivo, né mai ricevuto da san Paolo: esser la fiducia niente o poco differente dalla speranza, e però doversi aver per indubitato errore, anzi eresia quella di Lutero: la fede giustificante esser una fiducia e certezza nella mente del cristiano che gli siano rimessi i peccati per Cristo. Aggiongeva il Soto, et era seguito dalla maggior parte, che quella tal fiducia non poteva giustificare, per esser una temerità e peccato, non potendo l'uomo senza presonzione tener per fermo d'esser in grazia, ma dovendosi sempre dubitare. Per l'altra parte teneva il Catarino, con assai buon seguito, che la giustificazione da quella fiducia non proveniva; che il giusto nondimeno poteva, anzi doveva tener per fede d'esser in grazia.

Una terza openione portò in campo Andrea Vega: che non fosse temerità, né meno fede certa, ma si poteva aver una persuasione congietturale senza peccato. E questa controversia non si poteva tralasciare, perché sopra ciò versava il ponto di censurare l'articolo secondo; perilché, prima leggiermente discussa, poi, riscaldatesi le parti, divise e tenne in disputa tutto 'l concilio longamente per le raggioni e cause che si narreranno. Ma essendo tutti concordi che la fede giustificante è l'assenso a tutte le cose da Dio rivelate o dalla Chiesa determinate per essere credute, la qual'ora essendo insieme con la carità, ora rimanendo senza lei, la distinsero in due sorti: una, che si ritrova ne' peccatori, la qual chiamano le scole fede informe, solitaria, ociosa, overo morta; l'altra, che è ne' soli buoni, operante per carità e per ciò chiamata formata, efficace e viva. E qui un'altra controversia fu, volendo alcuni che la fede a che ascrivono le Scritture la salute, la giustizia e la santificazione fosse la sola viva, come anco fu tenuto da' catolici di Germania ne' colloqui, et includesse in sé la cognizione delle cose rivelate, le preparazioni della volontà, la carità, nella qual s'include tutto l'adimpimento della legge; et in questo senso non potersi dire che la sola fede giustifica, perché non è sola, poiché è informata dalla carità. Tra questi il Marinaro non lodava il dire: la fede è informata dalla carità, perché da san Paolo non è usato tal modo di dire, ma solo: la fede opera per la carità.

Altri intendevano che la fede giustificante fosse la fede in genere, senza descender a viva o morta, perché l'una e l'altra giustifica in diversi modi: o compitamente, e questa è la viva, overo come principio e fondamento, e questa è la fede istorica, e di questa parlare sempre san Paolo quando gli attribuisce la giustizia, non altrimenti, che come si dice che nell'alfabeto è tutta la filosofia, cioè come in una base, che è quasi niente, restando il molto, cioè riporvi sopra la statua. Era sostenuta questa seconda openione da' dominicani e francescani insieme; l'altra era difesa dal Marinari con altri aderenti. Non però fu toccato il punto dove versa il cardine della difficoltà: cioè se l'uomo prima è giusto e poi opera le cose giuste, overo operandole divien giusto. In un parere erano tutti concordi, cioè il dire: la fede sola giustifica, essere proposizione di molti sensi, tutti assordi; imperoché Dio anco giustifica et i sacramenti giustificano nel genere di causa a sé conveniente; onde la proposizione patisce quella et altre eccezzioni; cosí la preparazione dell'anima a ricevere la grazia è essa ancora causa nel suo genere, onde la fede non può escludere quella sorte di opere. Però quanto s'aspetta agli articoli che parlano delle opere precedenti la grazia, che Lutero dannò tutte di peccato, i teologi, piú in forma d'invettiva che in altra maniera, gli censurarono per eretici tutti, dannando parimente d'eresia la sentenzia presa in generale, che tutte le opere umane senza la fede sono peccati; avendo per cosa chiara esservi molte azzioni umane indifferenti, né buonecattive, et essendo anco altre, quali, quantonque non siano grate a Dio, sono però moralmente buone, e queste sono le opere oneste degli infedeli e cristiani peccatori, le quali è repugnanza grandissima chiamar insieme oneste e peccati, massime che in questo numero sono incluse le opere eroiche, tanto lodate dall'antichità.

Ma il Catarino sostenne che, senza aiuto speciale di Dio, l'uomo non può far alcuna opera, quale si possi chiamare veramente buona, eziandio moralmente, ma solo peccato. Perilché tutte le opere degli infedeli, che da Dio non sono eccitati a venir alla fede, e tutte quelle de fedeli peccatori, inanzi che Dio ecciti alla conversione, se ben paressero agli uomini oneste, anzi eroiche, sono veri peccati, e chi le loda, le considera in genere e nell'esterna apparenza; ma chi essaminerà le circonstanzie di ciascuna, vi troverà la perversità, e quanto a questo non era da condannare Lutero; ma ben dovevano essere censurati gli articoli, in quanto parlano delle opere seguenti la grazia preveniente, che sono preparazione alla giustificazione, quale sono l'abominazione del peccato, il timor dell'inferno e gli altri terrori della conscienza. Per confermare la sentenzia sua portava la dottrina di san Tomaso, che per far un'opera buona è necessario il concorso di tutte le circonstanze, e per farla cattiva basta il mancamento d'una sola; onde se ben considerate le opere in genere, alcune sono indifferenti, in individuo però non è mezo tra l'aver tutte le circonstanze o mancare di alcuna: perilché ciascuna particolar azzione overo è buona, overo è cattiva, né la indifferente si ritrova; e perché tra le circostanze uno è il fine, tutte le opere riferite a fine cattivo restano infette; ma gli infedeli riferiscono tutto quello che fanno nel fine della loro setta, che è cattivo; perilché, se ben paiono eroiche a chi non vede l'intenzione, sono nondimeno peccati; né esservi differenza che la relazione al fine cattivo sia attuale o abituale, poiché anco il giusto merita, se ben non riferisce l'opera sua attualmente a Dio, ma solo abitualmente. Diceva di piú, portando l'autorità di sant'Agostino, che è peccato non solamente riferir al mal fine, ma anco il solo non riferir al buono dove si doverebbe, e perché difendeva che, senza special aiuto di Dio preveniente, l'uomo non può riferir in Dio cosa alcuna, concludeva che non vi potesse esser opera buona morale inanzi. Allegava per ciò molti luoghi di sant'Agostino, mostrando, che fu di questa opinione. Allegava ancora luoghi di sant'Ambrosio, di san Prospero, di sant'Anselmo e d'altri padri; adduceva Gregorio d'Arimini et il cardinal Roffense, che nel libro suo contra Lutero sentí apertamente l'istesso; diceva esser meglio seguir i padri che i scolastici, contrarii l'un all'altro, e che conveniva caminare col fondamento delle Scritture, dalle quali s'ha la vera teologia, e non per le arguzie della filosofia, per quale le scole hanno caminato; che esso ancora era stato di quella opinione, ma, studiate le Scritture et i padri, aveva trovato la verità. Si valeva del passo dell'Evangelio: l'arbore cattivo non può far frutti buoni, con l'amplificazione che soggionse nostro Signore dicendo: overo fate l'arbore buono et i frutti buoni, o l'arbore cattivo et i frutti cattivi. Si valeva sopra gli altri argumenti con grand'efficacia del luogo di san Paolo che a gl'infedeli nissuna cosa può esser monda, perché è macchiata la mente e la conscienza loro.

Questa openione era impugnata dal Soto con molta acrimonia, passando anco al sgridarla per eretica, perché inferiva che l'uomo non fosse in libertà di far ben e che non potesse conseguir il suo fine naturale, che era negar il libero arbitrio co' luterani. Sosteneva egli poter l'uomo con le forze della natura osservare ogni precetto della legge quanto alla sustanza dell'opera, se ben non quanto al fine, e questo tanto esser a bastanza per evitar il peccato; diceva essere tre sorti d'opere umane, una la transgressione della legge, che è peccato; l'altra l'osservazione d'essa per fine di carità, e questa essere meritoria et a Dio grata; la terza intermedia, quando la legge è ubedita quanto alla sostanza del precetto, e questa è opera buona morale e nel suo genere perfetta e che accomplisce la legge e fa ogni opera moralmente buona cosí schivando ogni peccato. Moderava però quella tanta perfezzione della nostra natura con aggiongere che altro fosse guardarsi da qualonque peccato, che da tutti i peccati insieme, dicendo che può l'uomo da qualonque guardarsi, ma non da tutti, con l'essempio di chi avesse un vaso con tre forami, che avendo due mani solo non può otturargli tutti, ma ben qualonque d'essi vorrà, restandone per necessità uno aperto. Questa dottrina ad alcuni de' padri non sodisfaceva; perché, quantonque demostrasse chiaro che tutte le opere non sono peccati, non salvava però intieramente il libero arbitrio, seguendo per consequenza necessaria che non sarà libero al schivare tutti i peccati. Ma dando titolo di buone a queste opere, il Soto si vedeva angustiato a determinare se erano preparatorie alla giustificazione; gli pareva il , considerando la bontà d'esse; gli pareva di no, attendendo la dottrina d'Agostino, approvata da san Tomaso e da' buoni teologi, che il primo principio della salute è dalla vocazione divina. Da queste angustie sfuggí con una distinzione: che erano preparatorie di lontanissimo, non di vicino, quasi che, dando una preparazione di lontano alle forze della natura, non si levi il primo principio alla grazia di Dio.

I francescani non solo tal sorte d'opere volevano che fossero buone e che preparassero alla giustificazione veramente e propriamente, ma ancora che fossero in modo proprio meritorie appresso la Maestà divina, perché Scoto, autore della loro dottrina, inventò una sorte di merito, che attribuí alle opere fatte per forza della sola natura, dicendo che de congruo meritano la grazia per certa legge et infallibilmente, e che per sola virtú naturale l'uomo può aver un dolor del peccato, che sia disposizione e merito de congruo per scancellarlo; approvando un volgato detto de' tempi suoi, che Dio non manca mai a chi fa quello dove le sue forze s'estendono. Et alcuni di quell'ordine, passando questi termini, aggiongevano che se Dio non dasse la grazia a chi fa quello che può secondo le sue forze, sarebbe ingiusto, iniquo, parziale et accettator di persone. Con molto stomaco et indignazione esclamavano che sarebbe grand'assordità se Dio non facesse differenza da uno che vive naturalmente con onestà ad uno immerso in ogni vizio, e non vi sarebbe raggione perché dasse la grazia piú ad uno che all'altro. Adducevano che san Tomaso anco fosse stato di questa opinione, e che altrimente dicendo, si metteva l'uomo in disperazione e si faceva negligente a ben operare, e si dava a' perversi modo di scusar le loro male opere et attribuirle al mancamento dell'aiuto divino.

Ma i dominicani confessavano che san Tomaso giovane ebbe quell'opinione, e vecchio la retrattò; la riprendevano, perché nel concilio di Oranges, detto arausicano, è determinato che nissuna sorte di merito preceda la grazia e che a Dio si debbe dar il principio; che per quel merito congruo i luterani hanno fatto tante esclamazioni contra la Chiesa; era necessario abolirlo totalmente, come non era mai stato udito negli antichi tempi della Chiesa in tante controversie co' pelagiani; che la Scrittura divina attribuisce la nostra conversione a Dio, dalla forma del parlar della quale non conveniva dipartirsi.

 

 




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