[In Trento si passa il tempo in dispute]
I legati in Trento, liberati dalla
soldatesca, regolarono secondo lo stile di prima le congregazioni, ritornandole
a' giorni ordinarii e pensando tra loro come andar portando il tempo inanzi, secondo
l'intenzione del papa: non trovarono altro modo se non con mostrar che
l'importanza della materia ricercava essatta discussione, e con allongare le
dispute de' teologi, dando adito, et aggregando nuove materie, del che non era
da temer mancamento d'occasione, atteso che, o per la connessione, o per
intemperanza d'ingegno, sempre i dottori passano facilmente d'un ad altro
soggetto. Consegliarono anco di fomentar le differenze e varietà d'opinioni,
cosa di facil riuscita, cosí per la naturale inclinazione dell'uomo di vincere
nelle dispute, come perché nelle scole, massime de' frati, la sovverchia
fermezza nell'opinione della propria setta è molto accostumata. Il Monte, come
di natura ingenua, teneva il negozio per difficile, né si prometteva di poter servar
constanza in cosí longa dissimulazione, de quale si vedeva bisogno. Ma Santa
Croce, di natura melanconica et occolta, si offerí di pigliar in sé il carico
di guidar il negozio.
Adonque nella congregazione de' 20 agosto,
parendo che sopra i 25 articoli fosse tanto parlato che bastasse per formare
gli anatematismi, si propose di deputare padri a comporgli; e furono nominati 3
vescovi e 3 generali, e primo di tutti il Santa Croce, e fatta una modula de'
canoni e proposta per discutere nelle congregazioni seguenti, ritornarono le
medesime dispute della certezza della grazia, delle opere morali de' infedeli e
peccatori, del merito de congruo, dell'imputazione, della distinzion
della grazia e carità, e si parlò con maggior efficacia dalli interessati nelle
opinioni, aiutando il cardinale gli affetti con mostrare che le materie erano
importanti, che era necessario ben discuterle, e che senza la risoluzione di
quelle era impossibile far buona deliberazione. La sola controversia della
certezza della grazia essercitò molti giorni i disputanti, et ostinò e divise
in due parti non solo i teologi, ma anco i prelati. Non però fu resa la
questione chiara per le dispute, anzi piú oscurata.
Nel principio, come al suo luogo detto
abbiamo, una parte diceva che la certezza d'aver la grazia è presonzione,
l'altra che sí può averla meritoriamente. I fondamenti de' primi erano che san
Tomaso, san Bonaventura et il commune de' scolastici cosí hanno sentito, causa
perché la maggior parte de' dominicani era nell'istessa openione. Oltre
l'autorità de' dottori, aggiongevano per raggioni non aver Dio voluto che fosse
l'uomo certo, acciò non si levasse in superbia et estimazione di sé medesimo,
acciò non si preferisse agli altri, come farebbe a' manifesti peccatori chi si
conoscesse giusto; ancora si renderebbe il cristiano sonnolente e trascurato e
negligente ad operare bene. Per questi rispetti dicevano l'incertezza esser
utile, oltre che meritoria, perché è una passione d'animo che lo affligge, la
qual sopportata cede a merito. Adducevano anco luoghi della Scrittura: di
Salomone, che l'uomo non sa se sia degno d'odio o amore; della Sapienza, che
commanda non esser senza timore del peccato perdonato; di san Pietro, che
s'attendi alla salute con timore e tremore; di san Paolo, che disse di sé
medesimo: «Quantonque la mia conscienza non m'accusi, non però mi tengo
giustificato». Queste raggioni e testimonii, insieme con molti luoghi de'
padri, erano portati et amplificati, massime dal Seripando, dal Vega e dal
Soto.
Ma il Catarino col Marinaro avevano altri
luoghi de' medesimi padri in contrario, il che ben mostrava che in questo
particolare avessero parlato per accidente, come le occasioni facevano piú a
proposito, ora per sollevar i scrupolosi, ora per reprimer gl'audaci; però si
restringevano all'autorità della Scrittura. Dicevano che a quanti si legge
nell'Evangelio Cristo aver rimesso i peccati, a tutti disse: «Confidati che i
peccati sono perdonati», e sarebbe assordità che Cristo avesse voluto porger
occasione di temerità e superbia; e se fosse utile o merito, che egli avesse
voluto privar tutti di quello. Che la Scrittura ci obliga a render a Dio grazie
della nostra giustificazione, le quali non si possono rendere se non sapiamo
d'averla ottenuta, e sarebbe inettissimo et udito come impertinente chi
ringraziasse di quello che non sa se gli sia donato o no. Che san Paolo
apertamente asserisce la certezza, quando raccorda a' corinti di sentire che
Cristo è in loro se non sono reprobi; e quando dice che abbiamo ricevuto da Dio
un spirito per saper quello che da Sua Divina Maestà ci è stato donato; e piú
chiaramente che lo Spirito Santo rende testimonianza allo spirito nostro che
siamo figli di Dio; et è gran cosa d'accusar di temerità quelli che credono
allo Spirito Santo che parla con loro, dicendo sant'Ambrosio che lo Spirito
Santo mai parla a noi, che non ci faccia insieme saper che egli è desso che
parla. Appresso questo aggionse le parole di Cristo in san Giovanni: «Che il
mondo non può ricever lo Spirito Santo, perché non lo vede, né conosce, ma che
i discepoli lo conosceranno, perché abitarà in loro et in loro sarà». Si
fortificava il Catarino alla gagliarda con dire esser un'azzione da sognatore
il defendere che la grazia sia ricevuta volontariamente, non sapendo d'averla,
quasi che a ricever una cosa volontariamente non sia necessario che il
ricevitor spontaneo sappia che gli è data, che realmente la riceve e, dopo
ricevuta, che la possede. La forza di queste raggioni fece prima retirar
alquanto quelli che la censuravano di temerità e condescender a conceder che si
potesse aver qualche congettura, se ben non certezza per ordinario;
condescendendo anco a dar certezza ne' martiri, ne' nuovamente battezati et a
certi per special rivelazione, e da congiettura si lasciarono anco condur a
chiamarla fede morale; et il Vega, che nel principio admetteva sola
probabilità, vinto dalle raggioni et entrato poi a favorire la certezza, per
non parer che alla sentenzia luterana si conformasse, diceva esservi tanta
certezza che escludi ogni dubio e non può ingannare; quella però non essere
fede cristiana, ma umana et esperimentale; e sí come chi ha caldo è certo
d'averlo e senza senso sarebbe quando ne dubitasse, cosí chi ha la grazia in
sé, la sente e non può dubitarne per il senso dell'anima, non per rivelazione
divina. Ma gli altri defensori della certezza, costretti dagli avversarii a
parlar chiaro se tenevano che l'uomo potesse averla o pur anco se fosse a ciò
tenuto e se era fede divina o pur umana, si ridussero a dire che essendo una
fede prestata al testimonio dello Spirito Santo, non si poteva dire che fosse
in libertà, essendo tenuto ciascuno a credere alle rivelazioni divine, né si
poteva chiamare fede se non divina.
Et angustiati dall'obiezzione che, se
quella è fede non ugual alla catolica, non esclude ogni dubio; se uguale,
adonque tanto debbe il giusto credere d'essere giustificato, quanto gli
articoli della fede, rispondeva il Catarino che quella era fede divina di ugual
certezza et escludente ogni dubio, cosí ben come la catolica, ma non essere
catolica essa; asseriva esser fede divina et escludere ogni dubitazione quella
che ciascuno presta alle divine rivelazioni fatte a sé proprio; ma quando
quelle sono dalla Chiesa ricevute, allora è fatta fede universale, cioè
catolica, e che sola questa risguarda gli articoli della fede, la quale però
nella certezza e nella esclusione del dubio non è superiore alla privata, ma la
eccede solo nell'universalità; cosí tutti i profeti, delle cose da Dio
rivelategli, aver prima avuta fede privata, delle quali medesime, dopo ricevute
dalla Chiesa, hanno avuto fede catolica. Questa sentenzia alla prima udita
parve ardua, et i medesimi aderenti al Catarino, che erano tutti i carmelitani,
perché Giovanni Bacon, loro dottore, fu di quell'opinione, et i vescovi di
Sinigaglia, Vorcestre e Salpi, al principio mal volontieri passavano tanto
inanzi; ma poi, pensata e discussa la ragione, è maraviglia come da parte
notabile de' prelati fu ricevuta, sgridando il Soto che fosse troppo a favore
de' luterani, e defendendo gli altri che non sarebbe da censurare Lutero, se
avesse detto che dopo la giustificazione segue quella fede, ma ben perché dice
che quella è la fede che giustifica.
Alle raggioni dell'altra parte
rispondevano che non si debbi attendere li scolastici, quali hanno parlato
fondati sopra la ragione filosofica, che non può dar giudicio de' moti divini;
che l'autorità di Salomone non era in quel proposito, poiché dicendo: «Nissun
potere saper se è degno d'amore o d'odio», applicandola qui, concluderebbe che
il sceleratissimo peccatore con perservanza non sa d'esser in disgrazia di Dio;
che il detto della Sapienza meno si può applicare e la tradozzione rende
inganno, perché la voce greca ilasmòs non significa peccato perdonato,
come è stata tradotta, ma espiazione o perdono, e le parole del Savio sono
un'admonizione al peccatore di non aggiongere peccato sopra peccato per troppo
confidenza del perdono futuro, non del passato; che non bisognava sopra un
errore dell'interprete fondar un articolo della fede (cosí in quel tempo li
medesimi che avevano fatto autentica l'edizione volgata parlavano di quella; il
che anco potrà ogni uno osservare da' libri stampati da quelli che intervennero
al decreto dell'approbazione); dicevano che l'operare con timore e tremore è
frase ebrea che non significa ambiguità, ma riverenza, perché timor e tremor
usano i servi verso i patroni, eziandio quando da essi sono commendati e sanno
esser in grazia loro; che il luogo di san Paolo faceva a favore, quando avesse
parlato della giustificazione, perché dicendo: non sono conscio di mancamento,
né per ciò son giustificato, inferirebbe: «ma son giustificato per altro», e
cosí proverebbe la certezza; nondimeno il vero senso essere che san Paolo parla
del mancamento nell'ufficio del predicare e dice: «la mia conscienza non
m'accusa d'aver in cosa alcuna mancato, non però ardisco dire d'aver
intieramente sodisfatto, ma tutto riservo al divino giudicio».
Chi non avesse veduto le memorie scritte
da quei che ebbero parte in queste dispute e quello che mandarono alla stampa,
non crederebbe quanto fosse sopra questo articolo disputato e con quanto
ardore, non solo da' teologi, ma anco da' vescovi, parendo a tutti intenderla
et aver per sé la verità; in modo che Santa Croce si vidde avere piú bisogno di
freno che di sproni, e con frequente procurare di passar ad altro e divertire
quella controversia, desiderava metterci fine. Due volte fu proposto in
congregazione de' prelati di tralasciare quella questione, come ambigua, longa
e molesta; con tutto ciò vi tornavano, attratti dall'affetto. Pur finalmente il
cardinale, col mostrar che si era parlato assai e che conveniva ripensare le
cose dette per risolversene piú maturamente, ottenne che si parlasse delle
opere preparatorie e della osservanza della legge; con qual occasione fu
introdotta da molti la materia del libero arbitrio, e dal cardinale non fu
trascurata, ma propose se pareva ben trattare insieme anco quel particolare,
poiché tanto connesso appariva, che non si sapeva come trattarlo separatamente.
Adonque furono deputati prelati e teologi a raccogliere gli articoli dalle
opere de luterani per sottoporli alla censura.
|