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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro secondo
    • [Giudicii sopra questi decreti]
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[Giudicii sopra questi decreti]

In Roma il decreto della fede non diede materia alcuna di parlare, non riuscendo nuovo, cosí perché era stata veduto et essaminato publicamente, come si è detto, e poiché già a tutti era noto che s'avevano a dannare tutte le openioni tedesche, era stato prima veduto et approvato. Ma i vescovi dimoranti in corte, che erano stati molto tempo sospesi per l'articolo della residenza che si trattava, restarono contenti, tenendo fermo che il decreto del concilio non potesse far maggior effetto di quello che le decretali de' pontefici facevano prima. Ben i cortegiani minuti furono ripieni di malcontentezza, vedendo rimessa al vescovo di potergli costringere; si dolevano della miseria propria, che per acquistare da vivere gli convenisse servire tutta sua vita e, dopo tanta fatica, ricevere per premio d'esser confinati in una villa overo con un vil canonicato, sottoposti ad un'altra servitú de' vescovi, maggiore e piú abietta; quali non solo gli teneranno ligati come ad un palo, ma con le visite e col pretesto de correzzioni, gli condurranno overo ad una soggezzione misera, a gli teneranno in perpetue vessazioni e spese.

Ma altrove, e per la Germania massime, quando i decreti furono visti, piú diede da dire quello della fede, qual conveniva leggere e releggere molto attentamente, e specolarci anco sopra, non potendosi intender senza una perfetta cognizione de' moti interiori dell'anima e senza saper in quali egli sia attivo et in quali passivo, cose sottilissime e, per la diversa apparenza che fanno, stimati sempre disputabili, versando tutta la dottrina del concilio sopra questo cardine: se il primo oggetto della volontà operi in lei, o ella in lui, o pur ambidoi siano attivi e passivi. Fu da alcuni faceti detto che se gli astrologi, non sapendo le vere cause de' moti celesti, per salvare le apparenze, hanno dato in eccentrici et epicicli, non era maraviglia se, volendo salvare le apparenze de' moti sopracelesti, si dava in eccentricità d'openioni. I grammatici non cessavano d'ammirare e ridere l'artificio di quella proposizione che è nel quinto capo: «Neque homo ipse nihil omnino agat», quale dicevano non esser intelligibile e non aver essempio. Che se valeva la sinodo significare: «Etiam homo ipse aliquid agat», lo poteva pur dire chiaramente, come conviene in materia di fede, dove la miglior espressione è la piú semplice, e se pure volevano usare un eleganzia, potevano dire: «Etiam homo ipse nihil agat». Ma interponendosi la voce «omnino», quella orazione esser incongrua e senza senso, come sono tutte le orazioni de due negazioni, che non si passono risolvere in un'affermativa; perché volendo risolvere quella, converrebbe dire: «Etiam homo ipse aliquid omnino agat», che è incongrua, essendo inintelligibile quello che possi significare «Aliquid omnino» in questo proposito; poiché direbbe che l'uomo abbia azzione in un certo modo, la qual negli altri modi non sia azzione.

Erano difesi i padri con dire che non conveniva essaminare la forma del parlare al rigido, che non è altro che cavillare. A che replicavano che la benigna interpretazione è debita alle forme di parlar usate, ma di chi, tralasciate le chiare et usate, ne inventa d'incongrue e che coprono in sé la contradizzione per cavillare e sdrucciolare da ambe le parti, è publica utilità che l'arteficio sia scoperto.

Gli intendenti di teologia dicevano che la dottrina di poter l'uomo sempre rifiutare le divine inspirazioni era molto contraria alla publica et antica orazione della Chiesa: «Et ad te nostras etiam rebelles compelle propitius voluntates», la qual non convien dire che sia un desiderio vano e frustratorio, ma sia fatto «ex fide», come san Giacomo dice, e sia da Dio verso i suoi eletti essaudito. Aggiongevano che non si poteva piú dire con santo Paolo che non venga dall'uomo quello che separa i vasi dell'ira da quei della misericordia divina, essendo il separante quell'umano: «non nihil omnino». Molte sorti di persone considerarono quel luogo del settimo capo, dove si dice la giustizia essere donata a misura, secondo il beneplacito divino e la disposizione del recipiente, non potendo ambedue queste cose verificarsi: perché se piacesse a Dio darne piú al manco disposto, non sarebbe a misura della disposizione, e se si alla misura di quella, vi è sempre il motivo per quale Dio opera e non usa mai il beneplacito. Si maravigliavano come avessero dannato chi dicesse non essere possibile servare i precetti divini, poiché il medesimo concilio, nel decreto della seconda sessione, essortò i fedeli congregati in Trento che pentiti, confessati e communicati osservassero i precetti divini, «quantum quisque poterit». La qual modificazione sarebbe empia, se il giustificato potesse servargli assolutamente, e notavano esservi la medesima voce «precepta» per levare ogni forza a' cavilli.

Gli intendenti dell'ecclesiastica istoria dicevano che in tutti i concilii tenuti nella Chiesa, dal tempo degli apostoli sino a quell'ora, posti tutti insieme, mai erano stati decisi tanti articoli quanti in quella sola sessione; in che aveva una gran parte Aristotele coll'aver distinto essattamente tutti i generi de cause, a che se egli non si fosse adoperato, noi mancavamo di molti articoli di fede.

I politici ancora, se ben non debbono essaminar le cose della religione, ma seguirle semplicemente, trovarono che dire in questo decreto: vedendo nel capo 10 posta l'obligazione d'obedir a' precetti di Dio e della Chiesa, e l'istesso replicato nel canone 20, restavano con scandalo, perché non fossero anco poste l'obligazioni a' precetti de prencipi e magistrati; esser piú chiara assai nella Scrittura divina l'obedienza debita a questi: la legge vecchia esserne piena; nel Testamento Nuovo esser dottrina chiara, da Cristo proprio e da san Pietro e da san Paolo espressa e trattata al longo. Che quanto alla Chiesa, si trova obligo espresso di udirla, ma di ubedirla non è cosí chiaro: si obedisce chi commanda di suo, si ode chi promolga l'alieno. Né si sodisfacevano queste sorti d'uomini d'una scusa che era allegata, cioè i precetti de' prencipi esser inclusi in quelli di Dio, che per ciò si debbe a loro obedienza, per aver Dio commandato che siano obediti; perché replicavano per tal raggione maggiormente doversi tralasciare la Chiesa, ma che questa era espressa, e quelli trappassati con silenzio per l'antico scopo degli ecclesiastici d'introdur nel popolo quella perniziosa opinione che a loro si sia tenuto obedire per conscienza, ma a' prencipi e magistrati solo per evitare le pene temporali, e del rimanente potersi senza altro rispetto trasgredire li loro commandamenti, e per questa via metter in odio, representare per tirannico e sovvertir ogni governo, e depingendo la soggezzione a' preti per via unica e principale d'acquistar il cielo, tirar in sé prima tutta la giurisdizzione, e finalmente in consequenza tutto l'imperio.

Del decreto della riforma si diceva esser una pura e mera illusione, perché il confidar in Dio e nel papa che sarebbe provisto di persone degne al governo delle chiese è opera piú tosto di chi facesse orazione che di riformazione. L'innovare gli antichi canoni con una parola sola e cosí generale era confermargli nella introdotta dissuetudine maggiormente; ché volendo restituirgli da dovero, bisognava levare le cause che gl'hanno posti in oblivione e dargli vigore con pene e deputazione d'essecutori et altre maniere che introducono e conservano le leggi. In fine non aversi altro operato, se non stabilito che, col perder la metà delle entrate, si possi star assente tutto l'anno, anzi insegnato a starvi per undici mesi e piú senza pena alcuna, interponendo quei 30 o meno giorni nel mezo dell'altro tempo dell'anno, e destrutto anco a fatto il decreto con l'eccezzione delle giuste e raggionevoli cause; quali chi sarà cosí semplice che non sappia fare nascere, dovendo aver per giudici persone a chi mette conto che la residenza non si ponga in uso?

 

 




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