[Consulta de' rimedii a' detti abusi]
Per rimediare alla pluralità era
necessario levare l'uso di questi tre pretesti, il che era molto ben conosciuto
da' prelati prudenti, onde alla prima proposta fu uniforme il parer di tutti,
che fosse vietata e nissun, di qualonque condizione si voglia, potesse ottenere
numero maggiore che di tre beneficii. Alcuni anco aggionsero, quando doi di
quelli non ascendono alla somma di 400 ducati d'oro d'entrata, volendo che
qualonque persona, quantonque sublime e graduata, fosse soggetta alla regola di
non poter aver piú che uno, quando ascende a quella somma, o di doi, se quelli
vi giongono, in fine non piú di tre o arrivino, o non arrivino: sopra che vi fu
assai a disputare. Ma molto piú quando Alvise Lipomano, vescovo di Verona,
aggionse che questo decreto fosse [esteso] a quelli che di presente allora
possedevano numero maggiore, i quali, non eccettuato alcuno di qual si voglia
grado et eminenzia, fossero costretti, ritenendone tre, renonciare gli altri,
essendo in Italia fra 6 mesi, e fuori d'Italia fra 9 mesi; il che non facendo
fossero senza altra dicchiarazione privati, e questo non ostante che i
beneficii fossero uniti, overo commendati, o con qualonque altro titolo
possessi. Il vescovo di Feltre aderí all'istessa opinione, moderandola però con
distinguere le dispense, commende et unioni, altre fatte per utilità delle
chiese, et altre per favore del beneficiato; volendo che le prime, di quanti si
voglia beneficii, dovessero restar valide, ma le fatte per privata utilità de'
beneficiati fossero regolate. Non admesse questa distinzione il vescovo di
Lanciano, con dire che volendo fare legge durabile convien non dargli
eccezzioni in corpo, atteso che la malizia umana sempre è pronta a trovare
finti pretesti di mettersi nel caso dell'eccezzione e liberarsi dalla regola.
Il vescovo d'Albenga con longa orazione mostrò che le buone leggi danno forma a
futuri negozii solamente, e non risguardano i passati, e quelli che uscendo de'
raggionevoli termini vogliono emendare anco il preterito, eccitano sempre
tumulti, et in luogo di riformare, disformano maggiormente: esser una gran cosa
volere privare del suo quelli che l'hanno posseduto per molti anni e credete di
persuadergli a contentarsene. Soggionse che facendosi tal decreto, prevedeva
che non sarebbe ricevuto, e se pur lo fosse, da quello ne nascerebbono
resignazioni palliate e simoniache et altri mali peggiori che il ritener piú
beneficii. Quanto anco all'avvenire, parergli la provisione superflua, perché
non ricevendo alcuno piú beneficii se non con dispensa del papa, basta assai
che egli si risolva di non concederla.
In quella congregazione, tra le molte
esclamazioni tragiche che da diversi furono fatte, Bernardo Diaz, vescovo di
Calahora, disse che la chiesa di Vicenza, essendo trascorsa in molti disordini,
come era notissimo a tutti, ricercherebbe un apostolo per vescovo; tassando il
cardinal Ridolfi, che, oltra tanti altri beneficii, godeva quel vescovato, senza
averne alcun governo, senza l'ordine episcopale, senza vederlo mai, non
curando, né sapendo se non le rendite dell'affitto, e motteggiando ciascuno la
grand'inconvenienza che era, che nobilissime chiese non vedessero mai il suo
vescovo per esser occupato o in altri vescovati, o in degnità piú fruttuose.
Molti dicevano, che il solo pontefice potrebbe a questo provedere, et alcuni
comminciavano ad entrare nell'opinione di Albenga, che il pontefice facesse
quella riforma da sé; cosa che a' legati piaceva, cosí per degnità del papa,
come per liberarsi da gran travaglio di questa materia, che, dalle varie
opinioni et interessi, giudicavano di difficile digestione: sperando anco che
quando s'avesse fatto il passo di lasciare questa riforma al papa, facilmente si
ottenesse di lasciargli anco il capo della residenza, piú duro ancora a
smaltire per esser populare, e tirarsi appresso la ricuperazione dell'autorità
e giurisdizzione episcopale. Entrati adonque i legati in speranza che questo si
potesse ottenere, massime se si fosse proposto come cosa fatta e non come da
fare, diedero immediate conto al pontefice, a cui la nuova riuscí molto grata;
perché ormai tutta la corte et egli medesimo stava in pensiero dove avessero a
terminare i tentativi e dissegni de' prelati. E parendogli di non differir a
batter il ferro mentre era caldo, fece il passo piú longo della estesa
significatagli da' legati, e spedí una bolla per la quale avvocava a sé tutta
la materia della riforma. Ma, mentre in Trento s'aspettava la risposta da Roma,
non fu però intermessa l'incomminciata trattazione; si fece una minuta di
decreto che nissun potesse aver piú che un vescovato, e chi piú ne aveva, ne
ritenesse un solo; che all'avvenire chi ottenerà piú beneficii inferiori
incompatibili, sia privato senza altra dicchiarazione, e chi già ne possede piú
che uno, mostri le sue dispense all'ordinario, che proceda secondo la decretale
d'Innocenzio IV, Ordinarii. Nel dir i voti sopra questi capi, molti
fecero instanza che si aggiongesse che all'avvenire dispense non fossero
concesse. Et a pochi piacque il mostrare le già concedute e proceder secondo il
decreto d'Innocenzio, dicendo che era un farle approvare tutte e far il mal
maggiore, attese le condizioni poste da Innocenzio, dove dice che, trovate le dispense
buone, siano admesse e, se vi sarà dubio, s'abbia ricorso a Roma; non potendosi
dubitare che ogni negozio almeno non si risolvesse in dubio, il quale avesse a
Roma dicchiarazione conforme alla concessione. Che mentre passavano cosí, le
persone stavano con timor della provisione, quando fossero essaminate; et
approbate, che tutte sarebbono senza dubio, l'abuso sarebbe confermato. Molti
erano di parere che si vietassero afatto le dispense, repugnando altri con la
raggione che la dispensa è stata sempre nella Chiesa et è necessaria: il tutto
sta in ben usarla.
Marco Vigerio, vescovo di Sinigaglia, uscí
con una opinione che, se fosse stata ricevuta e creduta, averebbe facilmente
riformato tutto l'ordine clericale. Diceva egli potersi ad ogni inconveniente rimediare
dalla sinodo con far una dicchiarazione che per la dispensa sia necessaria una
legitima causa, e chi senza quella la concede, pecca e non può esser assoluto
se non revocandola, e chi l'ottiene non è sicuro in conscienza, se ben ha la
dispensa, e sempre sta in peccato, sin che non depone i beneficii cosí
ottenuti. Ebbe l'opinione contradittori; perché si levarono alcuni con dire che
chi concede licenza di pluralità senza causa legitima, pecca, ma però la
dispensa vale, e chi l'ottiene è sicuro in conscienza, se ben conscio
dell'illegitimità della causa. E piú giorni si contese, dicendo questi che era
un levare tutta l'autorità al papa, e quelli che l'autorità ponteficia non
s'estendeva a fare che il male non fosse male. Da questo s'entrò in un altro
dubio: se la pluralità de beneficii fosse vietata per legge divina overo umana;
e da quei della residenza de iure divino era detto che per divina, e
però il papa non poteva dispensare; gli altri dicevano che per legge canonica
solamente: e con difficoltà fu la contradizzione sopita da' legati, essendo da
loro tenuta per pericolosa, cosí per metter in campo la residenza, come perché
toccava l'autorità del papa, se ben non era nominato, e maggiormente perché
quella sottile discussione del valor delle dispense le metteva tutte in
compromesso. Essendo molta confusione, Diego di Alano, vescovo di Astorga,
disse che, non potendo convenire sopra le dispense, proibissero le commende e
le unioni, quali sono i pretesti per palliare l'abuso; e contra l'un e l'altro parlò
assai. Disse le unioni e le commende ad vitam esser piene d'assordità,
perché apertamente si confessava con quelle di non aver risguardo al beneficio
della chiesa, ma alla persona; che erano di gravissimo scandalo al mondo,
inventate già poco tempo per saziare l'avarizia e l'ambizione; che era una
grand'indegnità il mantenere un abuso cosí pernizioso e tanto notorio. Però i
vescovi italiani, che in gran parte erano interessati in uno di questi, non
sentivano volontieri proposizioni cosí assolute, lodando che si facesse qualche
provisione, ma non tale che le togliesse via a fatto.
In principio di febraro arrivò da Roma la
risposta e la bolla ponteficia, che fu da' legati stimata troppo ampla; pur
tuttavia, per tentare di valersene, proposero di nuovo la materia, facendo
replicare da' suoi la medesima sentenzia che, attese le difficoltà e diverse
opinioni, era bene liberarsi e rimetter il tutto al pontefice. Gli imperiali,
anco quelli medesimi che per il passato non si erano mostrati alieni,
replicarono gagliardamente, dicendo che non sarebbe stato onor del concilio; et
a questo parere s'accostò la maggior parte, ritornando su le medesime cose
dette, anzi confondendo le cose sempre piú; sí che viddero i legati non esser
occasione di valersi della bolla mandata e scrissero non potersi sperare che
fosse rimessa tutta la riforma a Sua Santità, ma ben avevano per fattibile
dividerla, sí che il pontefice facesse quella parte, che è piú propria a lui,
come sarebbe la moderazione delle dispense e de' privilegi, aggiongendovi la
riformazione de' cardinali; il che quando Sua Santità si risolvesse di fare,
sarebbe ben valersi della prevenzione, publicando in Roma una bolla sotto nome
di riformazione della corte. Perché nissun potrebbe dire che il papa non
potesse riformare da sé la corte sua e quello che tocca a lui: la qual bolla
non sarebbe necessaria publicare in concilio, et alla sinodo si potrebbe,
avendo da trattar il rimanente che alla corte non tocca, dare ogni
sodisfazione; avertendo però la Santità Sua che il concilio non si quietarà mai
per sola provisione all'avvenire, ma ricercherà sempre che si proveda alle
concessioni scandalose anco presenti.
|