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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro quarto
    • [Quarta sessione. Giudicii sopra i decreti d'essa]
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[Quarta sessione. Giudicii sopra i decreti d'essa]

Essendo le cose in questi termini, venne il 25 novembre, giorno destinato per la sessione. In quello si congregarono i padri e col solito ordine s'incaminarono alla chiesa, dove, compite le ceremonie, dal vescovo celebrante fu letta la dottrina della fede, gli anatematismi et il decreto della riforma, de' quali, avendo già recitato il tenore, altro non resta dire. E finalmente fu letto l'ultimo decreto per dar ordine alla sessione futura; nel quale si diceva che essendo quella già stabilita per il 25 genaro, in essa si doverà insieme con la materia del sacrificio della messa, trattar ancora del sacramento dell'ordine; cosí volle che fosse pronunciato il legato, seguendo il parer del papa, che fosse ben metter in tavola assai materie de dogmi. Finita la sessione, usò diligenza il legato che i decreti d'essa non fossero stampati e fu osservato il suo ordine a Ripa, dove era la stampa e gl'altri si solevano stampare; ma non si poté tenere che molte copie non uscissero di Trento, onde furono stampati in Germania, e la difficoltà e la dilazione di uscir in luce eccitò maggiormente la curiosità e la diligenza de critici di far essamine piú essatto per indagar la causa della procurata secretezza.

Gran materia di discorso diede quello che nel primo capo della dottrina e nel sesto canone era deciso, cioè che Cristo, quando soffiò verso i discepoli e diede loro lo Spirito Santo, dicendo che saranno rimessi i peccati a quelli a chi essi gli rimetteranno e ritenuti a quelli a chi gli riteneranno. Era considerato che il battesmo prima era usato da' giudei per mondizia legale, poi da san Giovanni applicato per preparazione d'andar al messia venturo, e finalmente da Cristo con espresse parole e chiare instituito sacramento per remissione de' peccati et ingresso nella Chiesa, ma ordinando che si ministrasse in nome del Padre, Figlio e Spirito Santo. Parimente esser stato un postcenio instituito dagl'ebrei nella cattività babilonica con pane e vino per ringraziamento e memoria dell'uscita d'Egitto, mentre che per esser fuori della terra di promissione non potevano mangiare l'agnello della Pasca: il qual rito imitando Cristo, nostro Signore, instituí una eucaristia per render a Dio grazie della universale liberazione del genere umano et in memoria di lui che ne fu l'autore con lo spargimento del sangue. E con tutto che fossero simili riti già in uso, se ben per altri fini, come è detto, nondimeno la Scrittura esprime tutte le singularità di quelli; ora che Cristo volesse introdur un rito di confessar ad un uomo i peccati suoi in singolare con tanta essattezza, di che non era uso alcuno simile, e volesse esser inteso con parole, da' quali per sola molto inconnessa consequenza si potesse cavare, anzi non senza molte lontanissime consequenze, come si faceva dal concilio, pareva cosa maravigliosa. Et era anco in maraviglia perché, stante l'instituzione per il verbo di «rimetter», non fosse usata per forma: «ti rimetto i peccati», piú tosto che «ti assolvo». Aggiongevano altri che, se per quelle parole è instituito un sacramento dell'assoluzione, con la forma «absolvo te» per chi viene assoluto, per necessità inevitabile convien dire che sia instituito o un altro, o quello stesso per chi è ligato, nel quale sia parimente questa forma: «ligo te», non potendosi capire come la medesima autorità d'assolvere e ligare, fondata sopra le parole di Cristo in tutto simili, ricerca nell'assolvere la prononcia delle parole: «absolvo te», e quella di ligare non ricchieda la prononcia delle parole «ligo te». E con che raggione per esseguir quello che Cristo ha detto: «Quorum retinueritis», etc. e «quaecunque ligaveritis» etc. non è necessario dir «ligo te», ma per esseguir «Quorum remiseritis» e «quaecumque solveritis» è necessario dire: «absolvo te».

Similmente era criticata la dottrina inferita nel quinto capo, dove si dice che Cristo con le medesime parole constituí i sacerdoti giudici de' peccati, e però sia necessario confessargli tutti intieramente in specie e singolarmente, insieme con le circonstanze che mutano specie; imperoché chiaramente appar dalle parole di nostro Signore che egli non ha distinto due sorti di peccati, una da rimetter e l'altra da ritenere, che per ciò convenga saper de' quali il delinquente sia reo, ma una sola che gli comprende tutti; e però non è detto se non «peccata» in genere; ma ben ha distinto due sorti de peccatori, dicendo: «quorum» e «quorum»: una de' penitenti, a quali si concede la remissione, l'altra de' impenitenti, a quali si nega. Però piú tosto hanno da conoscere lo stato del delinquente, che la natura et il numero de' peccati. Ma poi quello che s'aggionge delle circonstanze che mutano specie, si diceva che ogni uomo da ben poteva con buona conscienza giurare che i santi apostoli e loro discepoli dottissimi delle cose celesti, non curando le sottilità umane, mai seppero che vi fossero circonstanze mutanti specie, e forse, se Aristotele non avesse introdotta questa speculazione, il mondo a quest'ora ne sarebbe ignaro; e tuttavia se n'è fatto un articolo di fede, necessario alla salute. Ma come veniva approbato che «absolvo» è verbo giudiciale e riputata buona consequenza che, se i sacerdoti assolvono, sono giudici, cosí pareva un'inconstanza il condannar quelli che dicevano esser un ministerio nudo di prononciare, essendo cosa chiara che l'officio del giudice non è se non pronunciar innocente quello che è tale, e colpevole il trasgressore. Ma il far di delinquente giusto, come s'ascrive al sacerdote, non sostiene la metafora del giudice. Fa il prencipe grazia a' delinquenti della pena, restituisce alla fama: a questo è piú simile chi fa de empio giusto, e non al giudice, che trasgredisce il suo officio sempre che altro prononcia, salvo che quello che ritrova esser prima vero. Ma piú stupivano che d'ogni altra cosa nel legger il capo dove si prova la specifica e singolare confessione de' peccati con le circonstanze, perché il giudicio non si può essercitar senza cognizione della causa, né servar l'equità nell'imponer le pene, sapendogli solo in genere; e piú sotto, che Cristo ha commandato questa confessione, acciò potessero imponer la condegna pena. Dicevano che questo era ben un ridersi palesamente del mondo e stimare tutti per sciocchi e persuadersi dover esser creduta loro ogni assordità senza pensar piú oltra. Imperoché chi è quello che non sa e non vede quotidianamente che i confessori danno le penitenze non solo senza ponderare il merito delle colpe, ma anco senza averci sopra alcuna minima considerazione. Parerebbe, ben considerato il parlare del concilio, che i confessori avessero una bilancia che trasse sino agl'atomi; e pure con tutto ciò ben spesso il recitar 5 Pater sarà dato in penitenza per molti omicidii, adulterii e furti: et i piú letterati tra i confessori, anzi l'universale d'essi, nel dar la penitenza, dicono a tutti che impongono solo parte della penitenza. Adonque non è necessario impor quella essatta penitenza che le colpe meritano: onde né meno la specifica numerazione de' peccati e circonstanze. Ma a che andar tanto lontano, se l'istesso concilio, nel nono capo della dottrina e nel decimoterzo anatematismo statuisce che si sodisfa anco per le pene volontarie e per le toleranze delle aversità? Adonque non fa bisogno, anzi non è cosa giusta impor in confessione la corrispondente pena; perilché né meno farla specifica numerazione che per questa causa si dice ordinata. Et aggiongevano che senza considerar ad alcuna delle cose sudette il confessore, quantonque dottissimo, attentissimo e prudentissimo, avendo ascoltata la confessione d'un anno di persona mediocre, non che di piú anni d'un gran peccatore, è impossibile che dia giudicio della pena, eziandio che avesse canoni di ciascuna debita a qual si voglia peccato, senza pericolo di fallare della metà per dir poco. Poiché né anco un tal confessore, vedendo in scritto e considerando piú giorni, potrebbe far un bilancio che dasse nel segno, non che ascoltando e risolvendosi immediate, come si fa. Sarebbe pur giusto, dicevano, che non fossimo cosí disprezzati, con tenerci tanto insensati che dovessimo creder tante assordità. Della riservazione de' casi fu troppo detto quello che da' teologi di Lovanio e Colonia era stato predetto, et era attribuita a dominazione et avarizia.

 

 




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