[Colloquio in Poisí]
Nel mese d'agosto furono i prelati
congregati in Poisí, dove trattarono di riformar la vita degl'ecclesiastici; ma
il tutto senza conclusione alcuna. Poi ridotti i ministri de' protestanti che
erano stati chiamati et assicurati in numero 14, tra' quali erano principali
Pietro Martire fiorentino, andato da Zurich, e Teodoro Beza da Geneva, questi
porsero una supplica al re con 4 capi: che i vescovi in quell'azzione non
fossero giudici; che il re co' suoi conseglieri vi presedesse; che le
controversie si decidessero per la parola di Dio; che quello che fosse
convenuto e decretato si scrivesse da notari eletti da ambedue le parti. La
regina volle che uno de' 4 secretarii regii facessero l'ufficio di scrivere,
concesse che il re presedesse, ma non che ciò fosse posto in scritto, allegando
che non era ispediente per loro, né utile per le cose del re, attesi i presenti
tempi. Il cardinale di Lorena desiderava la presenza del re al publico
congresso, aciò fosse piú numeroso e decorato, per ostentar il suo valore,
promettendosi certo il trionfo. Molti teologi persuadevano la regina che il re
non intervenisse al colloquio, acciò (dicevano) quelle tenere orecchie non
fossero avenenate di pestifera dottrina. Inanzi che le parti fossero chiamate
al congresso, i prelati fecero una processione e si communicarono tutti,
eccetto il cardinale Sciatiglione e 5 vescovi; gl'altri si protestarono l'un
all'altro che non intendevano trattar de' dogmi, né disputar delle cose della
fede.
A 9 settembre si diede principio: era presente
il re con la regina, i prencipi del sangue et i conseglieri regii; intervennero
6 cardinali e 40 vescovi. Il re, cosí instrutto, fece un'essortazione: che
essendo congregati per trovar modo di rimediare a' tumulti del regno e
corregger le cose degne d'emendazione, desiderava che non si partissero prima
che fossero composte tutte le differenze. Il cancelliero piú longamente parlò
per nome regio nella sentenza medesima; particolarmente disse ricercar il mal
urgente rimedio presto e vicino; quel che si potrebbe aspettar dal concilio
generale, oltra la tardità, venir anco da uomini, che, come forestieri, non
sanno i bisogni di Francia e sono tenuti seguir il voler del pontefice: li
prelati presenti, come periti de' bisogni del regno e congionti del sangue,
esser piú atti ad esseguir questa buona opera; e se ben il concilio intimato
dal pontefice si facesse, esser anco altre volte occorso, e non esser senza
essempio, e sotto Carlo Magno esser avvenuto che piú concilii in un tempo sono
stati celebrati; che molte volte l'error d'un concilio generale è stato
corretto da un nazionale: esserne essempio che l'arianismo, stabilito dal
concilio generale d'Arimini, fu dannato in Francia dal concilio congregato da
sant'Ilario. Essortò tutti ad aver il medesimo fine et i piú dotti a non
sprezzar gl'inferiori, né questi invidiar a quelli, tralasciar le dispute
curiose, non aver l'animo tanto alieno da' protestanti che sono fratelli
regenerati nel medesimo battesmo, cultori del medesimo Cristo. Essortò i
vescovi a trattar con loro con piacevolezza, cercando di ridurgli, ma senza
severità, considerando che ad essi vescovi s'attribuiva molto, lasciandogli
esser giudici nella causa propria; il che gli constringeva a trattar con
sincerità, e cosí facendo, serrerebbono la bocca agli avversarii; ma
trasgredendo l'ufficio de giudici giusti, il tutto sarebbe irrito e nullo. Si
levò il cardinale di Tornone e, dopo aver ringraziato il re, la regina et i
prencipi dell'assistenza che prestavano a quel consesso, disse le cose proposte
dal cancelliero esser molto importanti e da non trattar, né rispondergli alla
sprovista, e però ricchieder che fossero messe in scritto per deliberarvi
sopra; ricusando il cancelliero et instando anco il cardinale di Lorena che si
mettessero in scritto.
Accortasi la regina che ciò si faceva per
metter il negozio in longo, ordinò a Beza che parlasse; il qual ingenocchiato e
fatta orazione e recitata la professione della sua fede, e lamentatosi che
fossero riputati turbulenti e sediziosi e perturbatori della tranquillità
publica, non avendo altro fine che la gloria di Dio, né cercando libera facoltà
di congregarsi, se non per servir Dio con quiete di conscienza et ubedir a'
magistrati da Dio constituiti, passò ad esplicar le cose in che convengono con
la Chiesa romana et in che dissentono. Parlò della fede, delle buone opere,
dell'autorità de' concilii, de' peccati, della disciplina ecclesiastica,
dell'ubedienza debita a' magistrati, e de' sacramenti; et entrato nella materia
dell'eucaristia, parlò con tanto calore che era di mala sodisfazzione anco a'
suoi proprii, onde fu sforzato a fermarsi. E presentata la confessione delle
chiese sue, dimandò che i capi di quella fossero essaminati e fece fine. Il
cardinale di Turnone, levatosi pieno di sdegno, si voltò e disse che i vescovi,
avendo fatto forza alle sue conscienze, avevano consentito d'udir quei nuovi
evangelisti, prevedendo che dovevano dir molte cose ingiuriose contra Dio; e se
non avessero portato rispetto alla Maestà regia, si sarebbono levati e disturbato
il consesso. Però pregava la Maestà Sua non dar fede alle cose dette da loro,
perché da' prelati gli sarebbe mostrato tutto 'l contrario, sí che vederebbe la
differenza tra la verità e la bugia; e dimandò un giorno di tempo a risponder,
replicando tuttavia che sarebbe stata giusta cosa che si fossero levati tutti
di là per non udir quelle biasteme. Di questo la regina, parendogli esser
toccata, rispose non essersi fatto cosa se non deliberata da' prencipi, dal
conseglio regio e dal parlamento di Parigi, non per mutar o innovar alcuna cosa
nella religione, ma per componer la differenza e ridur al dritto camino li
sviati; il che era anco ufficio della prudenza de' vescovi di procurare con
ogni buono modo.
Licenziato il consesso, si trattò tra i
vescovi e teologi quello che si dovesse fare. Volevano alcuni di loro che si
scrivesse una formula della fede, la quale se li protestanti non volessero
sottoscrivere, fossero senza altra disputa condannati per eretici; il qual
parere essendo giudicato troppo arduo, dopo molte dispute si venne a
conclusione di risponder a 2 capi soli de' proposti da Beza, cioè della Chiesa
e dell'eucaristia. Congregato donque di nuovo il consesso a' 16 del mese, in
presenza del re, della regina e prencipi, il cardinale di Lorena fece una longa
orazione. Disse prima che il re era membro e non capo della Chiesa; che la sua
cura era ben difenderla, ma in quello che toccava la dottrina esser soggetto a'
ministri ecclesiastici; soggionse che la Chiesa non conteneva i soli eletti, e
con tutto ciò non poteva fallare; ma quando alcuno particolare fosse in errore,
conveniva aver ricorso alla romana, a' decreti di concilii generali et al
consenso degl'antichi padri, e sopra tutto alla Scrittura esposta nel senso
della Chiesa; per aver di ciò mancato esser incorsi tutti gl'eretici in errori
inestricabili, come i moderni nel capo pertinente all'eucaristia, dove, per
prurito insanabile di curiose questioni, quello che da Cristo era instituito
per vincolo d'unione, avevano adoperato per squarciare la Chiesa
irreconciliabilmente; e qui passò a trattar questa materia, concludendo che, se
i protestanti non vorranno mutar sentenza in questo, non vi era via alcuna di
composizione.
Finito il parlar, tutti i vescovi si
levarono e dissero di voler viver e morir in quella fede; pregavano il re di
perseverar in essa, soggiongendo che se i protestanti vorranno sottoscrivere a
questo articolo, non ricusavano di disputar gl'altri; ma quando no, non se gli
doveva dar altra audienza, ma scacciargli di tutto 'l regno. Beza dimandò di
risponder allora; ma non parendo giusto di trattar del pari un ministro privato
ad un cosí gran prencipe cardinale, fu licenziato il congresso. Li prelati
averebbono voluto che con questo il colloquio fosse finito; ma il vescovo di
Valenza mostrò che non sarebbe stato con onore; perilché fu una altra volta
congregato a' 24 in presenza della regina e de' prencipi. Parlò Beza della
Chiesa e delle condizioni et autorità di quella, de' concilii, mostrando che
possono fallare e della dignità della Scrittura. Gli rispose Claudio Espenseo,
dicendo aver sempre desiderato che s'introducesse colloquio in materia della
religione et aborrito da' supplicii che per quella causa si davano a' miseri,
ma aversi ben maravigliato con che autorità e da chi chiamati, i protestanti si
fossero introdotti nel ministerio ecclesiastico, da chi gli fossero state
imposte le mani per esser fatti ordinarii ministri, e, se pretendevano
vocazione estraordinaria, dove erano i miracoli che sono necessarii a
demostrarla. Passò a trattar delle tradizioni. Mostrò che essendovi
controversia del senso della Scrittura, si debbe ricorrer a' padri; che molte
cose si credono per sola tradizione, come la consubstanzialità del Figlio, il
battesmo de' fanciulli, la virginità della madre di Dio dopo il parto.
Soggionse che nissun concilio generale, in quello che appartiene alla dottrina,
era stato corretto dall'altra. Passarono diverse repliche e dispute dall'una e
l'altra parte tra i teologi che erano presenti, e riducendosi la cosa a contenzione,
il cardinale di Lorena, fatto silenzio, propose la materia dell'eucaristia, con
dire che erano risoluti i vescovi di non andar piú inanzi se non si accordava
prima quell'articolo; et allora dimandò a ministri se erano preparati a
sottoscriver in quello articolo la confessione augustana. Al qual Beza rispose
dimandando se egli proponeva ciò per nome commune di tutti e se esso et altri
prelati erano per sottoscriver agl'altri capi di quella confessione: né
potendosi aver risposta né dall'una, né dall'altra parte, finalmente Beza disse
che gli fosse data in scritto per deliberar quello a che si proponeva che
sottoscrivesse, e fu rimesso il colloquio al giorno seguente.
Nel quale Beza comminciando a parlare,
irritò molto i vescovi, perché, come giustificando la vocazione sua al
ministerio, entrò a parlare della vocazione et ordinazione de' vescovi, e narrò
le mercanzie che vi intervengono, ricercando come quelle si possino aver per
legitime. Poi passato all'articolo dell'eucaristia et al capo della confessione
augustana propostogli, disse che fosse prima sottoscritta da quelli che la
proponevano; né potendosi accordare, un giesuita spagnuolo, che era col
cardinale di Ferrara, arrivato in quei medesimi giorni che il colloquio era in
piedi, levatosi e dette molte villanie a' protestanti, riprese la regina che
s'intromettesse in cose che non s'aspettavano a lei, ma al papa, a' cardinali
et a' vescovi. La qual arroganza fu impazientemente sentita dalla regina, ma
per rispetto del pontefice e del legato la dissimulò. Finalmente, non potendosi
concluder cosa alcuna in quel modo di trattar, fu ordinato che due vescovi, tre
teologi i piú moderati, con cinque ministri si riducessero insieme, per veder
se si poteva trovar modo di concordia. Fu tentato da loro di formar un articolo
dell'eucaristia con parole generali cavate da' padri, che potessero all'una
parte et all'altra satisfare; né potendo convenire, fu messo fine al colloquio:
del quale vi fu molto che parlare, dicendo alcuni esser un cattivo essempio
metter in trattazione gl'errori una volta condannati; che non si hanno da
ascoltare le persone che negano i fondamenti della religione, massime tanto
tempo durata e tanto confermata, specialmente in presenza di persone idiote; e
benché nel colloquio contra la vera religione alcuna cosa non sia risoluta,
nondimeno ha dato baldanza agl'eretici et ha attristato i buoni; dicendo altri
che publico servizio sarebbe spesso trattare quelle controversie, perché cosí
le parti si familia[rizza]rebbono insieme, cesserebbono gl'odii e gl'altri
cattivi affetti e s'aprirebbono molte congionture per trovar modo di concordia,
non vi essendo altra via di rimediare al mal radicato; perché, divisa la corte
et adoperata la religione per pretesto, non era possibile per altra via
rimediare che, deposte le ostinazioni, tolerando gl'uni gl'altri, levar di mano
agl'inquieti e turbatori quel mantello con che coprono le male operazioni.
Il pontefice, ricevuto aviso che il
colloquio era dissoluto senza effetto, sentí molto piacere e commendò il cardinale
di Lorena e maggiormente quello di Tornon. Gli piacque molto il zelo del
giesuita; diceva potersi comparare agli antichi santi, avendo senza rispetto
del re e prencipi sostenuto la causa di Dio e rinfaciato la regina in propria
presenza; per il contrario riprendeva l'arrenga del cancellario come eretica in
molte parti, minacciando anco di farlo citar nell'Inquisizione. La corte
ancora, appresso quale l'arrenga sudetta s'era divolgata, parlava molto mal di
quel soggetto e congetturava che tutto 'l governo di quel regno avesse
l'istessa disposizione versa Roma, e l'ambasciatore francese aveva che fare a
difendersi.
Non è da tralasciare quello che al
cardinale di Ferrara avvenne, come cosa molto connessa alla materia di che
scrivo. Quel prelato ne' primi congressi fu raccolto dal re e dalla regina con
molto onore, e presentate le lettere ponteficie di credenza, fu riconosciuto
per legato della Sede apostolica dalla Maestà regia e da' prelati e clero. Ma
il parlamento, avendo presentito che tra le commissioni dategli dal pontefice
una era di far instanza che fossero rivocati a moderati almanco i capitoli
accordati ne' stati d'Orliens il genaro precedente, spettanti alla
distribuzione de' beneficii, ma particolarmente quello dove era proibito di
pagar le annate a Roma, né mandar danari fuori del regno per impetrare
beneficii o altre grazie a Roma, il che penetrato dal parlamento, che fino a
quel tempo non aveva publicato i decreti sudetti, acciò il cardinale non
ottenesse quella che disegnava, gli publicò sotto il 13 settembre, e fece anco
risoluzione di non conceder al legato che potesse usare le facoltà dategli dal
pontefice: imperoché è costume di quel regno che un legato non può essercitare
l'ufficio, se le facoltà sue non sono prima presentate et essaminate in
parlamento, e per arresto di quello regolate e moderate, et in quella forma
confermate per un breve del re; laonde, quando la bolla delle facoltà della
legazione fu presentata, a fine d'esser, come dicono, approbata, fu negato
apertamente dal cancellario e dal parlamento che la potesse usare, allegando
che già era deliberato di non usare piú dispense contra le regole de' padri, né
collazioni de' beneficii contra i canoni. Sostenne anco il cardinale un maggior
affronto, che furono composte et affisse in publico e disseminate per tutta la
corte e la città di Parigi pasquinate sopra gl'amori di Lucrezia Borgia, sua
madre, e d'Allessandro VI pontefice, suo avo materno, con repetizioni delle
obscenità divolgate per tutta Italia ne' tempi di quel pontificato, che posero
il cardinale in deriso della plebe.
La prima impresa di negozio che il
cardinale tentò fu d'impedire le prediche de' riformati (datisi, dopo il
colloquio, a predicare piú liberamente) con ufficii e persuasioni e secrete
promesse a' ministri; e perché non aveva credito con loro per esser parente de'
Ghisi, per la qual causa anco era in sospetto appresso tutta la parte contraria
a quella casa, per rendersi confidente, pratticava anco co' nobili della
fazzione ugonotta e si trovava a' loro conviti, et alcuna volta in abito di
gentiluomo intervenne alle prediche, il che portò nocumento, stimando molti che
come legato lo facesse di volontà del pontefice; e la corte romana sentí molto
male le azzioni del cardinale.
La regina di Francia, intendendo che il re
di Spagna sentiva male del colloquio, mandò espresso Giacomo Momberone a quel
re, il qual con longo raggionamento scusò che il tutto era stato fatto per
necessità e non per favorire i protestanti, e che il re e la regina, senza piú
parlare del concilio nazionale, erano risoluti di mandar quanto prima i vescovi
a Trento. Il re gli rispose parole generali e lo rimise al duca d'Alva; il
qual, udita l'ambasciata, rispose dolersi il re che in un regno cosí vicino e
congionto seco in tanta strettezza di parentado, la religione fosse cosí mal
trattata; esservi bisogno di quella severità che usò Enrico nella congregazione
mercuriale, e poco fa Francesco in Ambuasa; pregava la regina di provederci,
perché toccando il pericolo di Francia anco lui, aveva per consultazione del
suo conseglio deliberato di mettervi tutto 'l suo potere e la vita medesima per
estinguere la commune peste, al che era sollecitato da' grandi e da' popoli di
Francia. L'accortezza spagnuola dissegnava con medicina della Francia guarrire
le infermità di Fiandra, le quali non erano minori, se non per esser meno
apparenti e tumultuose. Non aveva ancora il re di Spagna potuto mai far
radunare li stati per ottenere una contribuzione o donativo. In questi medesimi
tempi in Cambrai e Valenzia si facevano scopertamente adunanze, et in Tornai,
avendogli il magistrato proibito et esseguendo con l'incarcerazione d'alcuni,
si scoperse contradizzione armata con gravissimo pericolo di ribellione, e
pareva che il prencipe d'Orange et [il] conte di Egmont si mostrassero
apertamente fautori loro, e massime dopo che il prencipe pigliò in matrimonio
Anna, figlia del già Mauricio, duca di Sassonia, con molto dispiacere del re,
che vedeva dove fosse per terminare un matrimonio contratto da un suo suddito
con protestante di tanta aderenza. Parlavano nondimeno i spagnuoli in maniera
come se la Fiandra fosse stata sana e temessero infezzione dalla Francia, e
volevano purgarla con la guerra. Et oltre la risposta data alla regina, avendo
anco l'ambasciatore avuto carico di trattar il negozio del re di Navarra, gli
fu risposto che non meritava, per la poca cura che aveva della religione, e
volendo esser favorita nella dimanda sua, dovesse prima mover la guerra contra
gl'ugonotti in Francia.
Fece anco la regina scusare per mezo
dell'ambasciatore regio al pontefice con la Santità Sua il medesimo colloquio,
facendogli considerare che, per far tacere gl'ugonotti, quali dicevano esser
perseguitati senza esser uditi, e per ritardare i moti loro, il re era stato
costretto a concedergli publica audienza alla presenza de' prencipi et
ufficiali del regno, con deliberazione che, se non potevano esser convinti con
raggione, si potesse, avendo avuto tempo di mettersi in ordine, vincergli con
le forze. Fece di piú trattar col cardinale Farnese, legato d'Avignone, che
cedesse quella legazione al cardinale di Borbone, promettendogli ricompensa, et
avendo Farnese consentito, l'ambasciatore ne parlò al papa per nome di lui e
del re di Navarra, proponendo che questo averebbe liberata Sua Santità dalla
spesa et assicurata quella città dagl'ugonotti, quali l'averebbono rispettato,
quando fosse nella protezzione d'un prencipe del sangue regio. Ogni persona di
mediocre giudicio, non che uno versato ne' maneggi, si sarebbe avveduto che
quella era un'apertura per levare con facilità da Roma il dominio di quella
città et unirla alla Francia. Però il papa negò assolutamente d'acconsentirvi e
riferí questo tentativo in concistoro, come che avesse sotto coperta qualche
gran pregiudicio che non appariva alla prima vista, e fece grand'indoglienza
contra la regina e contra il re di Navarra, che avendogli promesso piú fiate
che in Francia non si sarebbe fatto cosa di pregiudicio all'autorità
ponteficia, nondimeno favorivano l'eresia, erano autori di congregazioni de'
prelati, di colloquii et altre cose pregiudiciali; che egli, procedendo con
mansuetudine, era mal corrisposto: però subito dato principio al concilio,
voleva con quel mezo far conoscer la riverenza che i prencipi secolari debbono
portare alla Chiesa. Fece l'istessa indoglienza e minaccia all'ambasciatore, il
quale dopoi d'aver esplicato che la dimanda della legazione era a buon fine e
che tutte le opere della regina erano fatte con maturità e giustizia, soggionse
che il concilio era piú desiderato dal re che da Sua Santità, con speranza che
averebbe proceduto con la medesima equità e rispetto verso tutti i prencipi
senza differenziargli. Questo disse, motteggiando il papa, che aveva poco
inanzi concesso un gravissimo sussidio da esser pagato dal clero al re di
Spagna, dopo aver ottenuto le semplici annate al suo re. Ma il papa,
insospettito per la petizione d'Avignone e considerando che i vassalli di
quella città erano tutti protestanti, temendo che la terra non fosse occupata
dal re di Navarra, spedí immediate Fabricio Sorbellone con 2000 fanti et
alquanti cavalli per custodia della città, e diede il governo a Lorenzo Lenci,
vescovo di Fermo, come vicelegato.
Dopo il colloquio, licenziati i
protestanti, restavano i prelati per trattar de' sussidii da dar al re; della
qual dimora giudicando la regina che il papa dovesse prender sospezzione per le
frequenti indoglienze fatte, assicurò a Roma che non rimanevano se non per
trattar de' debiti del regno, con aggiongere che, finita la congregazione,
ordinerà a' vescovi che immediate si mettino in punto per andar al concilio.
Con tutto ciò fu trattato ancora della communione del calice, proponendo il
vescovo di Valenza, con participazione del cardinale di Lorena, che quando
quella si concedesse, interromperebbe il corso cosí felice d'aummento a'
protestanti, atteso che gran parte di quelli che gl'aderiscono, incomminciano a
credergli da questo capo; perilché, quando avessero la communione intiera dalla
Chiesa, non gli porgerebbono orecchie. E gl'intendenti de' maneggi
consideravano che per quella via sarebbe posta dissensione tra i medesimi
professori di riformata religione. Alcuni pochi de' vescovi erano di parer che
ciò fosse statuito per editto regio et esseguito immediate, dicendo che
l'intiera comunione non fu levata per decreto alcuno della Chiesa, ma per sola
consuetudine; né esservi alcun decreto ecclesiastico che proibisca a' vescovi
di ritornare l'antico uso. Ma la maggior parte non consentí che si facesse se
non per concessione, o almeno con buona grazia del papa. Furono alcuni pochi a'
quali non piaceva che si facesse novità, ma furono costretti ceder alla maggior
e piú potente parte, facendo grand'ufficii Lorena, il qual per ottener il
consenso del papa, giudicando necessario aver il favore del cardinale Ferrara e
per tirarlo nell'opinione medesima, fu autore alla regina che desse orecchie
alle proposizioni sue, e concedendogli qualche cosa, l'acquistasse per questa
et altre occasioni. Aveva il cardinale proceduto con ciascuno anco della
contraria religione con tanta dolcezza e placidezza, che s'era acquistata la
benevolenza de molti che gli facevano da principio opposizione; onde essaminati
i negozii e col parer de' piú intimi del conseglio, fu concesso per un brevetto
del re che i capitoli d'Orliens, spettanti alle cose beneficiali, restassero
sospesi et il legato potesse essercitare la facoltà, avendo però egli a parte
per scrittura di sua mano promessa ch'egli non l'userebbe e che il papa
averebbe proveduto a tutti gli abusi e disordini che si commettono nella
collazione de beneficii e nell'espedizione delle bolle in Roma. Con tutto ciò
ricusò il cancelliero di sottoscriver e sigillar il breve secondo la stile del
regno; né essendo possibile di rimoverlo dalla sua risoluzione, convenne che
fosse sottoscritto della mano della regina, del Navarra e de' principali
ufficiali della corona in supplimento, e restò contentissimo il legato, piú
intento alla conservazione dell'onor suo che al vero servizio di chi lo mandò;
e per questo favore ottenuto si lasciò condur a lodar il conseglio della
communione, e scriverne a Roma. Il che però fece con tal temperamento, che né
il papa, né la corte potessero restar di lui disgustati. Il fine della
radunanza di Poisí fu che i prelati concessero al re di valersi de' stabili
delle chiese, vendendone per 100000 scudi, purché v'intervenisse il consenso
del papa.
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