[Congregazione in Trento. Libri
proibiti]
Ma ritornando a Trento, il dí 27 genaro si
fece congregazione, dove da' legati furono fatte 3 proposizioni: la prima,
d'essaminar li libri scritti da diversi autori dopo nate le eresie, insieme con
le censure de' catolici contra di quelli, a fine di determinare quello che la
sinodo debbia decretare sopra di essi; la seconda, che fossero citati per
decreto della sinodo tutti gl'interessati in quella materia, acciò non possino
dolersi di non esser stati uditi; la terza, se si dovevano invitar a penitenza
con salvocondotto et ampla concessione e promessa di grande e singolar clemenza
i caduti in eresia, purché vogliano pentirsi e riconoscer la potestà della
Chiesa catolica, con ordine che i padri, considerate le proposte, nella
congregazione seguente dicessero il loro parere, cosí sopra il modo d'espedirsi
facilmente nell'essamine de' libri e censure, come sopra il rimanente. E si
deputorno prelati a ricever et essaminar i mandati et essecuzioni di quelli che
pretendevano impedimenti per non andar al concilio.
Questo luogo ricerca che dell'origine del
proibir libri si raggioni, e con che progresso sia gionto allo stato in che si
trovava in questo tempo, e che nuovo ordine fosse allora preso. Nella Chiesa
de' martiri non fu proibizione ecclesiastica; benché alcune persone pie si
facevano conscienza del legger libri cattivi, per non contravenire ad uno di 3
capi della legge divina: di fuggire la contagione del male, di non esporsi a'
tentativi senza necessità et utilità, e di non occupar il tempo in cosa vana.
Queste leggi, come naturali, restano sempre et obligherebbono noi a guardarsi
dal legger libri non buoni, quantonque nissuna legge ecclesiastica vi fosse. Ma
cessando questi rispetti, succedé l'essempio di Dionisio, vescovo alessandrino,
celebre dottore, quale, circa l'anno del Signore 240, per queste cause essendo
da' preti suoi ripreso, e per gli stessi rispetti titubando, ebbe visione che
leggesse ogni libro, perché era capace di discernergli. Maggior pericolo
nondimeno stimavano esser ne' libri de' gentili che d'eretici, quali piú erano
aborriti e tanto piú ripresa la lezzione loro, quanto era frequentata da molti
dottori cristiani per vanità d'imparare l'eloquenza; per questa causa san
Girolamo, o in visione o in sogno, fu battuto dal diavolo, onde in quei
medesimi tempi, circa il 400, un concilio in Cartagine vietò a' vescovi di
poter legger libri de' gentili, ma concesse loro legger quelli degl'eretici; il
decreto del quale è posto tra i canoni raccolti da Graziano. E questa è la
prima proibizione per forma di canone. Ché per conseglio altre ve ne sono ne'
padri, da regolare secondo la legge divina di sopra citata. I libri
degl'eretici, di dottrina da' concilii dannata, erano spesso per causa di buon
governo dagli imperatori proibiti. Cosí Constantino proibí i libri d'Ario,
Arcadio quelli di eunomiani e di manichei; Teodosio quelli di Nestorio, e
Marziano gli scritti degl'eutichiani, et in Spagna il re Ricaredo quei
degl'ariani. A' concilii e vescovi bastava mostrare quali libri erano di dannata
o di apocrifa dottrina: cosí fece Gelasio del 494, e non piú oltre passavano,
lasciando alla conscienza di ciascuno il schifargli o leggergli per bene. Dopo
l'anno 800 i romani pontefici, sí come assonsero molta parte del governo
politico, cosí anco fecero abbruggiare e proibirono il legger libri, gl'autori
de' quali dannavano; con tutto ciò sino a questo secolo si troverà pochissimo
numero de libri cosí fattamente proibiti. Il divieto universale in pena di
scommunica e senza altra sentenza a chi leggesse libri continenti la dottrina
degl'eretici o per sospizzione d'eresia non si costumava. Martino V nella sua
bolla scommunica tutte le sette d'eretici, viglefisti, massime, et ussiti, né
fa altra menzione di quelli che leggessero i libri loro, se ben molti ne
andavano attorno. Leone X, condannando Lutero, insieme proibí, sotto pena di
scommunica, tutti i libri suoi. Gl'altri pontefici seguenti, nella bolla
chiamata In coena [Domini] dannati et escommunicati tutti gl'eretici,
insieme escommunicarono anco quelli che leggessero i libri loro, et in altre
bolle contra eretici in generale folminarono l'istesse censure contra li
lettori de' libri. Questo partoriva piú tosto confusione; perché non essendo
gl'eretici dannati nominatamente, conveniva conoscer i libri piú tosto dalla
qualità della dottrina, che dal nome degl'autori; e parendo a diversi
diversamente, nascevano scrupuli di conscienza innumerabili. Gl'inquisitori piú
diligenti si facevano cataloghi di quelli che a loro notizia pervenivano, i
quali non confrontando, non bastavano a levar la difficoltà. Il re Filippo di
Spagna fu primo dar forma piú conveniente, facendo del 1558 una legge che il
catalogo de' libri proibiti dall'Inquisizione di Spagna si stampasse.
Al qual essempio anco Paolo IV in Roma
ordinò che da quell'officio fosse composto e stampato un Indice, come fu
esseguito del 1559, nel quale furono fatti molti passi piú inanzi che per lo
passato, e gettati fondamenti per mantener et aggrandir l'autorità della corte
romana molto maggiormente, col privar gl'uomini di quella cognizione che è
necessaria per difendergli dalle usurpazioni. Sino a quel tempo si stava tra i
termini de' libri de eretici, né era libro vietato, se non di autore dannato.
Questo indice fu diviso in tre parti: la prima contiene i nomi di quelli,
l'opere de' quali tutte, di qualonque argomento siano (eziandio profano), sono
vietate; et in questo numero sono riposti non solo quelli che hanno professato
dottrina contraria alla romana, ma molti ancora sempre vissuti e morti nella communione
di quella. Nella seconda parte si contengono nomi de' libri che particolarmente
sono dannati, non proibiti gl'altri degli stessi autori. Nella terza, alcuni
scritti senza nome, oltra che, con una regola generale, sono vietati tutti
quelli che non portano il nome degli autori scritti dopo il 1519 e sono dannati
molti autori e libri che per 300, 200 e 100 anni erano stati per mano di tutti
i letterati della romana Chiesa, sapendo e non contradicendo i pontefici romani
per tanto tempo, e de' moderni ancora furono proibiti di quelli che erano
stampati in Italia, eziandio in Roma con approbazione dell'Inquisizione, et
anco approbati dal papa medesimo per i suoi brevi, come le annotazioni d'Erasmo
sopra il Testamento Nuovo, che da Leon X, dopo averle lette, furono approbate
con uno suo breve, sotto il dato in Roma 1518, 10 settembre. Soprattutto cosa
considerabile è che, sotto colore di fede e religione, sono vietati con la
medesima severità e dannati gl'autori de' libri, da' quali l'autorità del
prencipe e magistrati temporali è difesa dalle usurpazioni ecclesiastiche, dove
l'autorità de' concilii e de' vescovi è difesa dalle usurpazioni della corte
romana, dove le ipocrisie o tirannidi, con quali, sotto pretesto di religione,
il popolo è ingannato o violentato, sono manifestate. In somma non fu mai
trovato il piú bell'arcano per adoperare la religione a far gl'uomini
insensati. Passò anco quell'Inquisizione tanto oltra, che fece un catalogo di
62 stampatori, e proibí tutti i libri da quelli stampati di qualonque autore,
arte o idioma fossero, con un'aggionta piú ponderosa, cioè e li stampati da
altri simili stampatori che abbiano stampato libri de eretici; in maniera che
non restava piú libro da legger. E per colmo di rigore, la proibizione di
qualonque libro contenuto in quel catalogo era in pena di scommunica latæ
sententiæ, riservata al papa, privazione et inabilità ad officii e
beneficii, infamia perpetua et altre pene arbitrarie. Di questa severità fu
fatto ricchiamo a questo papa Pio, che successe, il quale rimise l'Indice e
tutta questa materia al concilio, come s'è detto.
Furono sopra i proposti articoli varii
pareri. Ludovico Becatelli, arcivescovo di Ragusi, e fra Agostino Selvago,
arcivescovo di Genova, ebbero opinione che nissun buon effetto può nascere dal
trattar in concilio materia de libri, anzi che potesse piú tosto nascer
impedimento alla conclusione di quello per che il concilio è congregato
principalmente. Poiché, avendo Paolo IV, con conseglio di tutti gl'inquisitori
e de molti principali, da' quali ebbe avisi da tutte le parti, fatto un
catalogo compitissimo, non vi può esser altro d'aggiongervi, se non qualche
libro uscito ne' 2 anni seguenti, cosa che non merita l'opera della sinodo: ma
chi volesse conceder de' proibiti in quella raccolta, sarebbe un dicchiarar che
in Roma sia stato imprudentemente operato, e cosí levare la riputazione et
all'Indice già publicato et a quel decreto che si facesse, essendo vulgata
massima che le nuove leggi levano la stima piú a se stesse che alle vecchie; senza
che (diceva il Becatelli) nissun bisogno vi è de libri: pur troppo il mondo ne
ha, massime dopo trovate le stampe, e meglio è che mille libri siano proibiti
senza demerito, che permesso uno, meritevole di proibizione. Neanco sarrebbe
utile che la sinodo s'affaticasse per render le cause delle proibizioni,
facendo censure o approbando le già fatte in diversi luoghi da catolici, perché
questo sarebbe un chiamarsi contradizzione. È cosa da dottore render raggione
del suo detto; il legislatore che lo fa, diminuisce l'autorità sua, perché il
suddito s'attacca alla raggione addotta e quando crede averla risoluta, pensa
d'aver anco levato la virtú al precetto. Né meno esser ben corregger et
espurgar alcun libro, per le stesse cause di non eccitar gl'umori delle persone
a dire che sia tralasciata cosa che meritasse, o mutata quella che non
meritasse correzzione. Poi la sinodo conciterebbe contra sé la mala
disposizione di tutti gl'affezzionati a' libri che si vietassero, che
gl'indurrebbe a non ricever gl'altri decreti necessarii che si faranno.
Concluse che, bastando l'Indice di Paolo, non lodava l'occuparsi vanamente per
far di nuovo cosa fatta, o per disfar cosa ben fatta. Molte altre raggioni
furono allegate in confermazione di questo parere da piú vescovi, creature di
Paolo IV et admiratori della sua prudenza nel maneggio della disciplina
ecclesiastica, li quali tenevano che fosse necessario conservare, anzi
aummentare il rigore da lui instituito, volendo conservar la purità della
religione.
Giovanni Tomaso San Felicio fu d'opinione
al tutto contraria, che in concilio si dovesse trattar de' libri tutto di
nuovo, come se non vi fosse precedente proibizione; perché quella, come fatta
dall'Inquisizione di Roma, per il nome è odiosa ad oltramontani, e del resto è anco
tanto rigida, che è inosservabile, e nissuna cosa manda piú facilmente una
legge in desuetudine, quanto l'impossibilità o gran difficoltà in osservarla et
il gran rigore nel punir le transgressioni; esser ben necessario conservar la
riputazione di quell'officio, ma questo potersi far assai appositamente con non
farne menzione; del rimanente facendo le sole provisioni necessarie e con pene
moderate. E per tanto parergli che il tutto stia nel consultar il modo: e disse
egli quello che giudicava ottimo, cioè che i libri sin allora non censurati
fossero compartiti a' padri e teologi presenti in concilio, et anco
agl'assenti; quali, essaminatigli, facessero la censura, e dalla sinodo fosse
deputata una congregazione non molto numerosa, che fosse come giudice tra la
censura et il libro; il che parimente fosse servato con i già censurati, e
questo fatto, si proponesse in congregazione generale per decretare in
universale quello che paresse beneficio publico. Quanto al citare o no
gl'interessati, disse che 2 sorti d'autori erano: altri separati dalla Chiesa
et altri incorporati in essa; de' primi non esser di tener conto, poiché con la
sola alienazione dalla Chiesa hanno essi medesimi, come san Paolo dice,
condannato se stessi e le opere proprie, sí che non è bisogno piú udir altro;
ma degl'incorporati con la Chiesa esserne de morti e de vivi; questi esser
necessario citare et ascoltare, né, trattandosi della loro fama et onore,
potersi contra le opere loro procedere, se non ascoltate le raggioni loro; de'
morti, poiché non vi è l'interesse privato, potersi far quello che ricerca il
publico ben, senza pericolo d'offender alcuno. A questa opinione fu aggionto da
un altro vescovo che l'istessa forma di giustizia si dovesse usare verso
gl'autori catolici defonti, perché restano li parenti e discepoli, che come
posteri participano la fama o infamia del morto, e però restano interessati, e
quando ben alcun tale non vi fosse, la sola memoria del defonto non può esser
giudicata se non è difesa.
Fu anco chi ebbe opinione non esser giusta
cosa condannar le opere de' protestanti senza udirgli, perché, quantonque le
persone siano da se stesse dannate, non si può per le leggi far la declaratoria
senza citazione, quantonque in fatto notorio; adonque né meno si può far contra
il libro, se ben notoriamente contenga eresia. Fra Gregorio, general
degl'eremitani, disse non parergli necessario osservare tante sottilità; la
proibizione de' libri esser precisamente come la proibizione medicinale d'un
cibo, che non è una sentenzia contra di esso, né contra chi l'ha preparato, che
però convenga ascoltarlo, ma un precetto verso di chi l'ha da usare, fatto da
chi ha cura di regger la sanità di quello; però non trattarsi del pregiudicio
del vivandiero, ma del solo beneficio dell'indisposto; e con ottima raggione un
cibo, se ben in sé buono, si vieta per non esser utile all'indiposto usarlo:
cosí la sinodo, che è il medico, debbe guardar quello solo che è utile a'
fedeli legger o no, et il dannoso e pericoloso vietarlo, che non farà torto ad
alcuno, se ben il libro in se stesso fosse buono, quando all'infermità delle
menti di questo secolo non convenga. Altre varie considerazioni passarono, che
si risolvevano finalmente in una di queste.
|