[Decreto del rimetter la concessione
del calice al papa]
Fu poi letto il decreto sopra la
concessione del calice di questo tenore: che avendosi la sinodo riservato
l'essamine e definizioni de' 2 articoli sopra la communione del calice nella
precedente sessione, ora ha determinato di riferir tutto 'l negozio al sommo
pontefice, il qual faccia per sua singolar prudenza quello che giudicherà utile
per la republica cristiana e salutifero a chi lo dimanda. Il qual decreto, sí
come nelle congregazioni fu approvato solamente per la maggior parte, cosí
avvenne nella sessione, dove, oltre quelli che contradissero, essendo
d'opinione che il calice non si dovesse per causa alcuna concedere, vi fu anco
un numero che dimandò che la materia fosse differita e reessaminata un'altra
volta; a che fu risposto dal promotore per nome de' legati che s'averebbe avuto
considerazione. E finalmente fu intimata la seguente sessione per gli 12
novembre, per determinare circa li sacramenti dell'ordine e del matrimonio. E
fu la sinodo col modo solito licenziata, continuando fra li padri gran discorsi
sopra questa materia del calice, circa la quale alcuno sarà forse curioso di
saper per che causa il decreto recitato non sia posto dopo quello della messa,
come pare che la materia ricercasse, ma in luogo dove non ha alcuna
connessione, né similitudine con gli articoli anteriori. Questo doverà saper:
che una massima andava attorno in quel concilio, che per stabilire un decreto
di riforma bastasse la maggior parte de' voti, ma un decreto di fede non
potesse esser fermato contradicendo una parte notabile; perilché li legati già
certi che quello del calice con difficoltà averebbe superato la metà,
deliberorno ponerlo per capo di riforma, e l'ultimo tra quelli, per ben
decchiarare di tenerlo in quel numero. Furono anco, et allora e per qualche
giorni dopo, tenuti raggionamenti per il punto deciso che Cristo offerisse se
stesso nella cena, dicendo alcuni che per il numero di 23 contradittori non era
legitimamente deciso, e rispondendo altri che un ottavo non si poteva dir parte
notabile. Erano anco alcuni che sostentarono la massima aver luogo solo
negl'anatematismi e nella sostanza della dottrina, non in ogni clausula che sia
posta per maggior espressione, come questa, della quale ne' canoni non si
parla.
Gl'ambasciatori imperiali furono molto
allegri per il decreto del calice, tenendo per fermo che l'imperator
l'ottenerebbe dal pontefice con maggior facilità e con piú favorevoli
condizioni che non si sarebbe impetrato in concilio, dove, per la varietà delle
openioni et interessi, è difficile ridur tanti in un parere, se ben buono e necessario:
la maggior parte vince la megliore e chi s'oppone ha sempre maggior avantaggio
che chi promove. E tanto piú speravano, quanto il papa aveva fatto ufficio
favorevole alla loro petizione. Ma l'imperatore non ebbe l'istesso senso, non
mirando egli ad ottener la communione del calice assolutamente, ma a quietare
li popoli de' Stati proprii e di Germania, che mal inclinati verso l'autorità
ponteficia per le cose passate, erano preoccupati a non ricever in ben cosa che
di là venisse; dove che, avendo la concessione dal concilio, con quella
sodisfazzione e con la speranza d'ottener altre ricchieste da loro stimate
giuste, fermato il moto in qual erano e licenziati i ministri infetti, sperava
di tenergli nella communione catolica. Aveva già per isperienza veduto che la
concessione di Paolo III non fu ricevuta in bene e fece piú danno che
beneficio, e per questa causa non proseguí l'instanza sua piú oltre col
pontefice. E se ne dicchiarò; perché quando ricevette la nuova del decreto
conciliare, voltatosi ad alquanti prelati che presenti si ritrovavano, disse:
«Io ho fatto tutto quello che poteva per salvar i miei popoli, ora abbiatene
cura voi, a chi piú tocca».
Ma quei popoli, che desideravano et
aspettavano la grazia o, come essi dicevano, la restituzione di quello che gli
era debito, restarono tutti con nausea che, essendosi prima trattato per 6 mesi
sopra una ricchiesta giusta, presentata con intercessioni di tanti e cosí gran
prencipi, e dopo, per farci maggior essamine, differito doi altri mesi e disputato
e discusso di nuovo con tanta contenzione, in fine si rimettesse al papa; cosa
che si poteva, senza perder tanto tempo, tanti ufficii e fatiche, rimetter al
bel principio. Esser la condizione de' cristiani secondo la profezia d'Isaia:
«Manda, remanda, aspetta, reaspetta»; poiché il papa, ricchiesto prima, rimesse
al concilio quello che allora il concilio rimetteva a lui, beffandosi ambidoi e
de' prencipi e de' popoli. Alcuni piú sodamente discorrevano che la sinodo
aveva riservato doi articoli a definire: se le cause che già mossero a levar il
calice siano tali che convenga perseverare in quella proibizione, e se non, con
che condizioni si debbia conceder. Il primo de' quali essendo non di fatto, ma
indubitatamente di fede, per necessaria consequenza, rimettendo al papa la
concessione, era costretto il concilio confessare d'aver conosciuto le cause
per insufficienti, e per rispetti mondani non averne voluto far decchiarazione;
imperoché, se le avesse giudicate sufficienti, conveniva perseverare nella proibizione;
se rimaneva dubio, doveva proseguire l'essamine; solo poteva rimettere
conosciuta l'insufficienza. Che se pur avesse fatto la decchiarazione negativa,
cioè le cause non esser tali che convenga perseverare nella proibizione, e
rimesso al papa quello che restava farci de fatto, prendendo le informazioni
necessarie, si poteva iscusare. Né potersi dire che, col rimetter al papa, la
decchiarazione sia presupposta: poiché, avendo nel decreto di questa sessione
replicato li doi articoli, risolvé che il negozio tutto intiero sia al papa
rimesso; adonque senza presupposta alcuna.
|