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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro sesto
    • [Decreto del rimetter la concessione del calice al papa]
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[Decreto del rimetter la concessione del calice al papa]

Fu poi letto il decreto sopra la concessione del calice di questo tenore: che avendosi la sinodo riservato l'essamine e definizioni de' 2 articoli sopra la communione del calice nella precedente sessione, ora ha determinato di riferir tutto 'l negozio al sommo pontefice, il qual faccia per sua singolar prudenza quello che giudicherà utile per la republica cristiana e salutifero a chi lo dimanda. Il qual decreto, come nelle congregazioni fu approvato solamente per la maggior parte, cosí avvenne nella sessione, dove, oltre quelli che contradissero, essendo d'opinione che il calice non si dovesse per causa alcuna concedere, vi fu anco un numero che dimandò che la materia fosse differita e reessaminata un'altra volta; a che fu risposto dal promotore per nome de' legati che s'averebbe avuto considerazione. E finalmente fu intimata la seguente sessione per gli 12 novembre, per determinare circa li sacramenti dell'ordine e del matrimonio. E fu la sinodo col modo solito licenziata, continuando fra li padri gran discorsi sopra questa materia del calice, circa la quale alcuno sarà forse curioso di saper per che causa il decreto recitato non sia posto dopo quello della messa, come pare che la materia ricercasse, ma in luogo dove non ha alcuna connessione, né similitudine con gli articoli anteriori. Questo doverà saper: che una massima andava attorno in quel concilio, che per stabilire un decreto di riforma bastasse la maggior parte de' voti, ma un decreto di fede non potesse esser fermato contradicendo una parte notabile; perilché li legati già certi che quello del calice con difficoltà averebbe superato la metà, deliberorno ponerlo per capo di riforma, e l'ultimo tra quelli, per ben decchiarare di tenerlo in quel numero. Furono anco, et allora e per qualche giorni dopo, tenuti raggionamenti per il punto deciso che Cristo offerisse se stesso nella cena, dicendo alcuni che per il numero di 23 contradittori non era legitimamente deciso, e rispondendo altri che un ottavo non si poteva dir parte notabile. Erano anco alcuni che sostentarono la massima aver luogo solo negl'anatematismi e nella sostanza della dottrina, non in ogni clausula che sia posta per maggior espressione, come questa, della quale ne' canoni non si parla.

Gl'ambasciatori imperiali furono molto allegri per il decreto del calice, tenendo per fermo che l'imperator l'ottenerebbe dal pontefice con maggior facilità e con piú favorevoli condizioni che non si sarebbe impetrato in concilio, dove, per la varietà delle openioni et interessi, è difficile ridur tanti in un parere, se ben buono e necessario: la maggior parte vince la megliore e chi s'oppone ha sempre maggior avantaggio che chi promove. E tanto piú speravano, quanto il papa aveva fatto ufficio favorevole alla loro petizione. Ma l'imperatore non ebbe l'istesso senso, non mirando egli ad ottener la communione del calice assolutamente, ma a quietare li popoli de' Stati proprii e di Germania, che mal inclinati verso l'autorità ponteficia per le cose passate, erano preoccupati a non ricever in ben cosa che di venisse; dove che, avendo la concessione dal concilio, con quella sodisfazzione e con la speranza d'ottener altre ricchieste da loro stimate giuste, fermato il moto in qual erano e licenziati i ministri infetti, sperava di tenergli nella communione catolica. Aveva già per isperienza veduto che la concessione di Paolo III non fu ricevuta in bene e fece piú danno che beneficio, e per questa causa non proseguí l'instanza sua piú oltre col pontefice. E se ne dicchiarò; perché quando ricevette la nuova del decreto conciliare, voltatosi ad alquanti prelati che presenti si ritrovavano, disse: «Io ho fatto tutto quello che poteva per salvar i miei popoli, ora abbiatene cura voi, a chi piú tocca».

Ma quei popoli, che desideravano et aspettavano la grazia o, come essi dicevano, la restituzione di quello che gli era debito, restarono tutti con nausea che, essendosi prima trattato per 6 mesi sopra una ricchiesta giusta, presentata con intercessioni di tanti e cosí gran prencipi, e dopo, per farci maggior essamine, differito doi altri mesi e disputato e discusso di nuovo con tanta contenzione, in fine si rimettesse al papa; cosa che si poteva, senza perder tanto tempo, tanti ufficii e fatiche, rimetter al bel principio. Esser la condizione de' cristiani secondo la profezia d'Isaia: «Manda, remanda, aspetta, reaspetta»; poiché il papa, ricchiesto prima, rimesse al concilio quello che allora il concilio rimetteva a lui, beffandosi ambidoi e de' prencipi e de' popoli. Alcuni piú sodamente discorrevano che la sinodo aveva riservato doi articoli a definire: se le cause che già mossero a levar il calice siano tali che convenga perseverare in quella proibizione, e se non, con che condizioni si debbia conceder. Il primo de' quali essendo non di fatto, ma indubitatamente di fede, per necessaria consequenza, rimettendo al papa la concessione, era costretto il concilio confessare d'aver conosciuto le cause per insufficienti, e per rispetti mondani non averne voluto far decchiarazione; imperoché, se le avesse giudicate sufficienti, conveniva perseverare nella proibizione; se rimaneva dubio, doveva proseguire l'essamine; solo poteva rimettere conosciuta l'insufficienza. Che se pur avesse fatto la decchiarazione negativa, cioè le cause non esser tali che convenga perseverare nella proibizione, e rimesso al papa quello che restava farci de fatto, prendendo le informazioni necessarie, si poteva iscusare. Né potersi dire che, col rimetter al papa, la decchiarazione sia presupposta: poiché, avendo nel decreto di questa sessione replicato li doi articoli, risolvé che il negozio tutto intiero sia al papa rimesso; adonque senza presupposta alcuna.

 

 




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