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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro sesto
    • [Giudicii sopra questa sessione]
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[Giudicii sopra questa sessione]

Il decreto del sacrificio non ritrovo nelle memorie che porgesse materia a' raggionamenti, e forse causa ne fu perché la lezzione delle parole non rapresenta cosí facilmente il senso, essendo la congettura piena di molti et inculcati iperbati, quali, se attentamente non sono separati dalle parti proprie dell'orazione, distraono l'un dopo l'altro la mente del lettore a diverse considerazioni, che quando è ridotto al fine, non sa che cosa abbia letto. Della sola proibizione della lingua volgare nella messa da' protestanti era detto qualche cosa. E pareva loro contradizzione dall'un canto dire che la messa contiene molta erudizione del popolo fedele, e lodare che una parte sia detta sotto voce e proibir in tutto la lingua volgare, ma poi commandar a' pastori di decchiarare qualche cosa al popolo. A che altri ben rispondevano nella messa esser alcune cose recondite, che debbono sempre restar coperte al popolo incapace, per causa del quale sono sommessamente dette e tenute in lingua litterale, altre di buona edificazione et erudizione, che è commandato di decchiarare al popolo. Ma a questo veniva replicato con due opposizioni: l'una, che adonque questa seconda sorte conveniva metterla in volgare; l'altra, che bisognava distinguere quali sono e queste e quelle, perché coll'aver commesso a pastori che spesso decchiarino qualche cosa di quello che si legge e non distinto che, soprastà pericolo che, per defetto di saper, alcuno de' pastori decchiari quello che debbe esser conservato in arcano e tralasci quello che merita decchiarazione. I studiosi dell'antichità si ridevano di tali discorsi, essendo cosa notissima che ogni lingua litterale et al presente ridotta in arte fu al suo tempo, nel proprio paese, volgare, e che la latina, quando in Roma, in Italia tutta e nelle colonie romane, in diverse provincie fu introdotta nella Chiesa, piú centenara d'anni anco dopo fu in quei luoghi la lingua del volgo; e che resta ancora nel pontificale romano la forma dell'ordinazione de' lettori nella Chiesa, dove si dice che studiano a legger distinta e chiaramente, acciò il popolo possa intender. Ma per saper in che lingua debbiano esser trattate le cose sacre, non esser bisogno di gran discorsi: bastar solamente leggere il capo XIV di san Paolo nella prima A Corinzii, che, non ostante ogni preoccupazione contraria della mente, qual si voglia persona resterà ben informata, e chi vorrà saper qual fosse già il senso della Chiesa romana e quando e perché la corte mutasse pensiero, potrà osservare che Gioanni papa VIII, dopo aver per l'inanzi fatto una severissima riprensione a moravi del celebrar la messa in lingua slava, con precetto d'astenersene, nondimeno, meglio informato, dell'880 scrisse a Sfentopulcro, loro prencipe, overo conte, una longa lettera, dove non per concessione, ma per decchiarazione afferma che non è contrario alla fede e sana dottrina il dire la messa e le altre ore in lingua slava, perché chi ha fatto la lingua ebrea, greca e latina, ha fatto anco le altre a sua gloria, allegando per questo diversi passi della Scrittura et in particolar l'ammonizione di san Paolo a' corinzii; solo commandò quel papa che, per maggior decoro, in tutta chiesa l'Evangelio si leggesse in latino e poi in slavo, come in alcune già era introdotto; concedendo però al conte et a' suoi giudici di sentire la messa latina, se piacerà piú quella. Alle qual cose ben considerate, doverà esser aggionto quello che 200 anni aponto dopo scrisse Gregorio VII a Vratislao di Boemia: che non poteva permettergli la celebrazione de' divini ufficii in lingua slava e che non era buona scusa allegare che per il passato [non] sia stato proibito, perché la primitiva Chiesa ha dissimulato molte cose, che se ben longamente tolerate, fermata poi la cristianità, sono state per essamine sottile corrette; commandando a quel prencipe che con tutte le sue forze s'opponga alla volontà del popolo: le qual cose chi ben osserverà, vederà chiaro quali fossero le antiche instituzioni incorrotte e come, duranti ancora quelle, è stato aperto l'adito, per rispetti mondani, alle corrottele, e per quali interessi parimente, poiché indebolito il buon uso, l'abuso ha preso piedi, voltato l'ordine e posto il cielo sotto terra: le buone instituzioni sono publicate per corrottele e dall'antichità solo tolerate, e gl'abusi introdotti dopo, sono canonizati per correzzioni perfette.

Ma tornando a' decreti conciliari, quello della riforma mosse stomaco a molti, quali consideravano che ne' passati tempi il dominio de' beni ecclesiastici era della Chiesa tutta, cioè di tutti i cristiani che convenivano ad una convocazione, l'amministrazione de' quali era commessa a' diaconi, suddiaconi et altri economi, con la sopraintendenza de' vescovi e preti, per distribuirgli nel vitto de' ministri, de' vedove, infermi et altri poveri, in educazione de' fanciulli e giovani, in ospitalità, riscatto de' pregioni et altre opere pie; e con tutto ciò il clero prima, se ben indebitamente, nondimeno tolerabilmente, volse separare e conoscere la parte sua et usarla secondo la propria volontà. Ma dopo, passatosi al colmo dell'abuso, è stato escluso in tutto e per tutto non solo il popolo dal dominio de' beni e li chierici di amministratori decchiaratisi padroni, ma convertito in uso proprio tutto quello che era destinato per poveri, per ospitalità, per scole e per altre pie opere; di che per molti secoli avendosi il mondo sempre doluto e dimandato rimedio vanamente, li laici per pietà in alcuni luoghi hanno eretto altri ospitali, altre scole, altri monti per somministrare alle pie opere con laici amministratori. Ora che in questo secolo il mondo ha dimandato con maggior instanza il rimedio, che gl'ospitali e le scole antiche et usurpate da' preti in particolare siano restituiti, il concilio, in luogo d'essaudire cosí giusta dimanda, come s'aspettava, e restituire i collegii, scole, ospitali et altri luoghi pii, ha aperto la porta nel capo VIII e IX ad usurpar anco quelli che dopo sono instituiti con introdurvi la sopraintendenza de' vescovi: la qual chi vuol dubitare che, come è stata il mezo con che sono stati occupati i beni di già dedicati alle stesse opere et appropriati ad altri non pii usi, cosí non sia per partorire l'istesso effetto in brevissimo tempo?

I parlamenti di Francia tra gl'altri ebbero molto l'occhio a questo particolare et apertamente dicevano che il concilio aveva eccesso l'autorità sua, mettendo mano in beni de' secolari, essendo cosa chiara che il titolo d'opera pia non raggione alcuna al prete; che ogni cristiano a suo arbitrio può applicare la robba sua a quella pia opera che gli piace, senza che l'ecclesiastico gli possi impor legge alcuna, altrimenti sarebbe ben una estrema servitú del povero laico, se non potesse fare se non quel bene che al prete pare. Dannavano anco alcuni, per questo medesimo rispetto, il capo dove obliquamente è attribuita al clero la commutazione delle ultime volontà con prescriver come e quando si possino commutare: dicevano esser abuso intolerabile, essendo chiaro, che i testamenti hanno il loro vigore dalla legge civile e da quella sola possono esser mutati, e se alcun dicesse che il vigore venisse dalla legge naturale, tanto meno li preti possono averci sopra autorità, perché di quella legge ancora, dove è dispensabile, non può esser dispensatore se non chi tiene maestà nella republica, overo li ministri di quella; ma li ministri di Cristo doversi raccordare che san Paolo non gli ha dato amministrazione se non de' ministerii di Dio. E se qualche republica ha dato la cura de' testamenti a' suoi prelati, in questo sono giudici non spirituali, ma temporali, e debbono ricever le leggi da governarsi in ciò non da' concilii, ma dalla maestà che regge la republica, non operando qui come ministri di Cristo, ma come stati, membra o bracia della republica mondana, secondo che con diversi nomi sono chiamati et intervengono ne' publici governi. Ma non era meno notato il quinto capo in materia delle dispense, imperoché essendo cosa certa che ne' vecchi tempi ogni dispensa era amministrata da' pastori nelle proprie chiese e poi in successo li pontefici romani hanno riservato a loro medesimi alcune cose piú principali (potrebbe alcun dire con buon fondamento, acciò le cose importanti non fossero maneggiate da qualche persona inetta, se ben veramente è molto forte la raggione in contrario dal vescovo di Cinquechiese detta di sopra), nondimeno, poiché il concilio decreta che le dispense siano commesse agl'ordinarii, a' quali appartenerebbono, cessando le riserve, a che può servire il restringere la facoltà ad uno per commetterla al medesimo? Apparir ben chiaro che a Roma con le riserve delle dispense non si vuol altro se non che le sue bolle siano levate, poiché, questo fatto, giudicano esser il meglio che l'opera sia, piú tosto che da altri, esseguita da chi potrebbe esseguirla, se non fosse vietato. Diverse altre opposizioni erano fatte da quei che volontieri giudicano le azzioni altrui tanto piú prontamente, quanto vengono da piú eminenti persone; le qual, per non esser di gran momento, non sono degne d'istoria.

 

 




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