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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro settimo
    • [Gli ambasciatori francesi e cesarei dimandan riforma]
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[Gli ambasciatori francesi e cesarei dimandan riforma]

Gl'ambasciatori di Francia, usciti della sessione, ebbero un dispacio dal loro re, che gli commetteva di far instanza perché la sessione fosse differita; di che essendo il tempo passato, nondimeno comparvero inanzi i legati, a' quali esposero la nuova commissione avuta dal re di far instanza che s'attendesse alla riforma e che i suoi prelati fossero aspettati: soggionsero che, quando si facessero disputare da' teologi e trattare da' prelati le materie proposte dell'ordine e del matrimonio immediate, niente resterebbe piú della dottrina, e li francesi invano venirebbono; però si contentassero di differirle sino al fine d'ottobre, attendendo tra tanto alla riforma, overo si parlasse alternativamente uno di sopra la dottrina et uno sopra la riformazione, non differendo, come per il passato, tutta la riforma sino a' giorni ultimi prossimi alla sessione, che non resta tempo bastante pur per veder gl'articoli, non che per deliberarvi sopra. Ebbero risposta che le proposte meritavano d'esser ponderate, che vi averebbono considerazione per sodisfargli in tutto 'l possibile; chiesero copia dell'instruzzione mandata dal re per poter meglio deliberare.

Gl'ambasciatori diedero una scrittura, il tenore della quale era: che avendo il re visto i decreti de' 16 luglio della communione sub utraque e di differire 2 articoli di quella medesima materia, et insieme quelli che erano proposti nelle congregazioni sopra il sacrificio della messa, se ben loda tutto quello che è fatto, reputa non poter tacer quello che viene universalmente detto, cioè che si tralascia o legiermente si tratta quello che tocca i costumi o la disciplina e si precipita la determinazione de' dogmi della religione controversi, in quali tutti li padri sono d'accordo. Le qual cose se ben egli reputa false, nondimeno ricerca che le proposte de' suoi ambasciatori, siano interpretate come necessarie per proveder a tutto 'l cristianismo et alle calamità del suo regno; et avendo esperimentato non aver giovato né la severità, né la mediocrità delle pene per far ritornar li departiti della Chiesa, ha stimato ben ricorrer al concilio generale, impetrandolo dal sommo pontefice; dispiacergli di non aver potuto, per i tumulti di Francia, mandar piú presto li suoi prelati, ma ben veder che, per venir alla pace et unità della Chiesa, la constanza e rigidezza nel continuare la formula già principiata da' legati e vescovi, non esser a proposito; però desiderare che nel principio del concilio non si faccia cosa che alieni gl'animi degl'avversarii, ma siano invitati e, venendo, ricevuti come figliuoli con ogni umanità, con speranza che, cosí facendo, si lascieranno insegnare e ridur al grembo della Chiesa. E perché tutti quelli che sono ridotti in Trento professano l'istessa religione e non possono, né vogliono dubitare d'alcuna parte di quella, parer a Sua Maestà che quella disputa e censura delle cose della religione non solo sia soverchia, ma impertinente a' catolici e causa che gl'avversarii si separino maggiormente, e chi crede che debbino ricever li decreti del concilio nel quale non sono intervenuti, non gli conosce ben, e s'inganna chi non pensa che con tal maniera non si fa altro che parecchiar argomenti di scriver libri. Perilché il re stima meglio il tralasciar questa disputa di religione, sin che sia statuito tutto quello che s'aspetta all'emenda della disciplina. Esser questo lo scopo dove convien che ognun risguardi, acciò il concilio, che è numeroso, e maggiore sarà con l'arrivo de' francesi, possi far frutto. Dimanda appresso il re che per l'assenza de' suoi vescovi la prossima sessione sia prolongata sino in fine d'ottobre, o differita la publicazione de' decreti, o aspettato nuovo ordine dal papa, al quale ha scritto, e tra tanto s'attendi alla riforma. E perché s'intende che qualche cosa è mutata dell'antica libertà de' concilii ne' quali fu sempre lecito a' re e prencipi et a' loro ambasciatori esponere i bisogni de' loro regni, dimanda la Maestà Sua che sia salva questa autorità de' re e prencipi, e sia rivocato quello che in contrario è fatto.

L'istesso giorno li cesarei comparvero a' legati, ricchiedendo che fossero proposti gli articoli mandati dall'imperatore e da loro già presentati, e ricercarono con instanza che si differisse di trattar de' dogmi sino alla venuta de' francesi; et acciò che la trattazione della riforma fosse non solo per servizio generale di tutta la Chiesa, ma particolare anco d'ogni regno, fossero deputati doi per nazione, i quali avessero a raccordare quello che meritasse esser proposto e discusso nel concilio. E li legati, cosí a questi, come a quelli di Francia, fecero una commune risposta: che la sinodo non può senza gravissimo pregiudizio alterare l'ordine instituito di trattare li dogmi insieme con la riforma; e quando volesse ben farlo, altri prencipi s'opponerebbono; ma in grazia loro s'ordinerebbe che i teologi e prelati essaminassero la materia dell'ordine sola, et appresso si trattassero alcuni capi di riforma, osservando tuttavia il modo consueto che ogni uno, di che condizione si voglia, può raccordare ad essi legati quello che giudica necessario, utile o conveniente, cosa di maggior libertà che il deputare doi per nazione; dopoi s'attenderebbe al matrimonio. Di che non restando gl'ambasciatori ponto contenti, li legati mandarono al pontefice tutte le sudette dimande.

Ma li francesi mal sodisfatti si dolevano appresso tutti, cosí di tanta durezza, come perché novamente il papa aveva commandato ad altri prelati d'andar al concilio; il che chiaramente appariva farsi per esser superiore di numero, cosa che da' ponteficii medesimi non era lodata che si facesse cosí all'aperta e nel tempo che correvano le nuove della venuta de' francesi; piacendogli però che il numero crescesse per assicurarsi, ma con tal destrezza che non si potesse dir esser fatto per tal causa. Ma il pontefice non operava cosí alla scoperta per imprudenza, anzi a bello studio, acciò il cardinale di Lorena conoscesse che li tentativi non sarebbono riusciti e si risolvesse di non venire, overo li francesi pigliassero qualche occasione di far dissolvere il concilio. Né il papa solo era di questo pensiero, ma la corte tutta, temendo qualche pregiudicio per li dissegni che portava quel cardinale, li quali quando anco non fossero riusciti, cosa non cosí facile da sperare, la venuta sua nondimeno sarebbe di grand'impedimento, allongazione e disturbo al concilio. Certo è che il cardinale di Ferrara fece ufficio col cardinale di Lorena, come parente, dicendo che la sua andata sarebbe di nissun momento e con poca sua riputazione, poiché arriverebbe dopo spedite tutte le determinazioni; et il Biancheto, familiarissimo del cardinale Armignaco et anco di credito con Lorena, scrisse l'istesso ad ambidue, e dal secretario del Seripando, come amico del presidente Ferriero, fu fatto l'istesso ufficio con esso lui; li quali ufficii mostravano il fine cosí scopertamente che apparivano, se non fatti per commissione del pontefice, almeno conformi alla sua volontà.

 

 




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