[Ritorno di Lorena e sospetti del suo
negoziato con Cesare]
Ritornò il cardinale di Lorena a Trento il
penultimo di febraro, dopo essersi fermato 5 giorni in Ispruc, ne' quali fu in
continua negoziazione con Cesare, col re de' Romani e co' ministri imperiali,
et arrivato trovò lettere del papa, dove gli diceva voler la riforma e che non
si differisse piú, e per attenderci, si dovessero levar via le parole de'
decreti dell'ordine, che erano in difficoltà; le quali lettere il cardinale a
studio publicò per Trento, dove era noto appresso tutti che li legati avevano
commissione contraria. Immediate da' ponteficii in Trento fu usata ogni
diligenza per investigar da' prelati et altri, che furono in sua compagnia, il
negozio del cardinale et in particolare procuravano d'intender qualche
risoluzione presa sopra li 17 articoli, avendo il conte Federico Maffei, venuto
da Ispruc il giorno inanzi, riferito che quel cardinale era stato ogni giorno
retirato a parlamento coll'imperatore e re de' Romani soli almeno 2 ore
intiere. Ma li francesi, quanto agl'articoli, si mostrarono nuovi e di non
saperne niente; dissero che nissuno de' teologi germani aveva trattato col
cardinale se non il Staffilo, che gli presentò un libro fatto da lui in materia
di residenza, et il Canisio, quando andò a veder il collegio de giesuiti; che
li teologi non avevano parlato all'imperatore, se non che, andati a veder la
biblioteca, sopragionsero insieme Cesare col re suo figlio, e l'imperatore
dimandò loro quello che sentissero circa la concessione del calice; a cui
rispose l'abbate di Chiaraval, primo di loro, che non sentiva potersi
concedere, e l'imperatore, voltato al re de' Romani, disse in latino quel verso
del salmo: «40 anni ho trattato con questa generazione, e gli ho sempre trovati
star in errore per volontà».
Ma Lorena, nel visitar li legati, non
disse altro, salvo che mostrò l'imperatore aver buona mente e caldo zelo verso
le cose del concilio e desiderare che segua qualche frutto, e che, bisognando,
v'interveniria in persona et anderebbe anco a Roma a pregar il papa che avesse
compassione alla cristianità e si contentasse della riforma senza diminuzione
della sua autorità, alla quale portava somma riverenzia, non volendo che si
parlasse cosa alcuna toccante la Santità Sua e la corte romana. Ma
privatamente, ad altri parlando, il Lorena aggiongeva che, quando il concilio
fosse stato governato con quella prudenza che conveniva, averebbe avuto presto
e felice successo; che l'imperatore era d'animo che onninamente si facesse una
buona e galiarda riforma, la quale se il papa seguirà d'attraversare, come sin
allora era avvenuto, riuscirà qualche gravissimo scandalo; che Sua Maestà aveva
pensiero, se il pontefice fosse andato a Bologna, d'andar a trovarlo, con
dissegno di ricever la corona dell'Imperio, et altre cose tali.
Non è da metter in dubio che il cardinal
parlasse delle cose del concilio et informasse Cesare de' disordini che
passavano, e dicesse il parer suo intorno a' rimedii per opporre alla corte di
Roma et a prelati italiani di Trento, per ottener in concilio la communione del
calice, il matrimonio de' preti, l'uso della lingua volgare nelle cose sacre e
relassazione d'altri precetti de iure positivo, e la riforma nel capo e
ne' membri, et il modo di fare che li decreti del concilio fossero
indispensabili; et in qual maniera, non potendola ottenere, si potesse pigliar
colorata occasione di giustificare le azzioni loro e pretender causa di
proveder da se medesimi a' bisogni de suoi popoli con far qualche concilio
nazionale, tentando anco d'unir li germani e francesi nelle cose della
religione. Ma non fu questa sola la negoziazione sua: egli trattò anco il
matrimonio tra la regina di Scozia e l'arciduca Ferdinando, figlio
dell'imperatore, e quello d'una figliuola di Sua Maestà col duca di Ferrara, e
di trovar modo di componer le differenze di precedenza di Francia e di Spagna,
che, come cose domestiche, toccano li prencipi piú intrinsecamente che le publiche.
Ma dopo il ritorno di Lorena, seguendosi
le congregazioni, Giacomo Alano, teologo francese, entrò parimente nella
materia delle dispense. Disse che l'autorità di dispensare era data alla Chiesa
immediate da Cristo e che dalla Chiesa era distribuita a' prelati, come faceva
bisogno, secondo li tempi, luoghi et occasioni. Inalzò in sommo l'autorità del
concilio generale, che rapresenta la Chiesa, e sminuí quella del pontefice,
aggiongendo che al concilio generale partiene allargarla o restringerla.
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