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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro settimo
    • [Lettere di Cesare per lo progresso et emendazione del concilio]
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[Lettere di Cesare per lo progresso et emendazione del concilio]

In queste varietà de negozii e perplessità d'animi ritornò il vescovo di Cinquechiese a Trento; con gl'ambasciatori cesarei andò all'audienza de' legati e presentò una lettera dell'imperatore da lui portata, con la copia d'un'altra di quella Maestà, scritta al pontefice. Fecero tutti ufficio che fosse proposta la riforma, ma con parole generali et assai rimesse. La lettera dell'imperatore a' legati significava loro il desiderio che aveva di veder qualche progresso fruttuoso del concilio, per ottener il quale era necessario che fossero levati alcuni impedimenti, de' quali avendo scritto al pontefice, aveva voluto pregargli essi ancora ad adoperarsi, e con l'opera propria in concilio, et appresso il pontefice con le preghiere, acciò si caminasse inanzi per servizio di Dio e beneficio del cristianesmo. Conteneva la lettera dell'imperatore al papa che, come avvocato della Chiesa, dopo ispediti gravissimi negozii con gl'elettori et altri prencipi e stati di Germania, nissun altro pensiero gli fu piú a cuore che di promover le cose del concilio; per la qual causa anco s'era ridotto in Ispruc, dove con suo dolore aveva inteso le cose non caminare come sperava e la publica tranquillità ricerca, e temeva che, se non se gli rimediava, il concilio fosse per aver fine con scandalo del mondo e riso di quelli che hanno lasciato l'obedienza della Chiesa romana, et incitamento a ritener le loro opinioni con maggior ostinazione; che già molto tempo non s'era celebrata sessione; che mentre li prencipi s'affaticano d'unir gl'avversarii differenti in opinioni, li padri sono passati a contese indegne di loro; che andava anco attorno fama che Sua Santità trattasse di discioglier o sospender il concilio, mossa forse dall'intricato stato di quello che si vede; ma il giudicio suo esser in contrario. Perché meglio sarebbe non fosse mai stato comminciato, che esser lasciato imperfetto con scandalo del mondo, vilipendio di Sua Santità e di tutto l'ordine ecclesiastico, e pregiudicio a questo et a' futuri concilii generali, con giattura delle poche reliquie del popolo catolico, e con lasciar opinione nel mondo che il fine della dissoluzione o sospensione fosse impedir la riforma; che nell'intimarlo la Santità Sua aveva ricchiesto il consenso di lui e degl'altri re e prencipi, il che da lei era stato fatto ad imitazione de' pontefici precessori, li quali l'hanno giudicato necessario per diversi rispetti: la medesima raggione concludere che non possi esser disciolto, né sospeso senza il medesimo consenso, essortandola a non dar orrecchie a quel conseglio, come vergonoso e dannoso, il qual senza dubio tirerebbe in consequenza concilii nazionali, sempre aborriti dalla Santità Sua come contrarii all'unità della Chiesa; li quali, come sono stati impediti da' prencipi per conservar l'autorità ponteficia, cosí non si potranno negare, né differir piú longamente. E l'essortava ad esser contenta d'aiutar la libertà del concilio, la qual veniva impedita principalmente per tre cause: l'una, perché ogni cosa si consultava prima a Roma; l'altra, perché non era libero il proporre, avendo li legati soli assontosi questa libertà, che doveva esser commune; la terza causa, per le prattiche che facevano alcuni prelati interressati nella grandezza della corte romana. Che essendo necessaria una riformazione della Chiesa et essendo commune opinione che gl'abusi abbiano origine e fomento in Roma, era necessario, per satisfazzion commune, che la riforma si facesse in concilio e non in quella città. Che però Sua Santità si contentasse che fossero proposte le dimande essibite da' suoi ambasciatori e quelle degl'altri prencipi. In fine esponeva l'animo suo d'intervenir al concilio et essortava la Santità Sua a volersi ritrovar ella ancora.

 

 




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