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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro settimo
    • [I francesi, cesarei e spagnuoli chiedono riforma]
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[I francesi, cesarei e spagnuoli chiedono riforma]

Il giorno 18 marzo, che per l'essequie di Seripando non si tenne congregazione, gl'ambasciatori francesi fecero una solenne comparsa inanzi a' doi legati. Fecero indoglienza che in 11 mesi dopo l'arrivo loro in Trento, dal primo giorno sino allora, avessero fatto intender le desolazioni di Francia e li pericoli della cristianità per le differenze della religione, et esposto che il piú necessario e principal rimedio era una buona et intiera riforma de' costumi e qualche moderazione delle leggi positive, e sempre gli sia stata data buona speranza e graziose parole, senza che mai ne abbiano veduto alcun effetto; che si fugge quanto si può la riforma; che la piú parte de' padri e teologi sono piú che mai duri e severi a non condonar cosa alcuna alla necessità del tempo; concludendo che gli pregavano a considerare quanti uomini da bene muorono, prima di poter far qualche buona opera per il publico servizio; di che ne danno essempio li cardinali di Mantova e Seripando; però volessero essi far qualche cosa mentre hanno tempo per discarico delle loro conscienze. Risposero li legati dispiacer loro l'andar delle cose in longo, ma di questo esserne causa gl'accidenti sopravenuti della morte di Mantova e Seripando. Che essi soli non possono portar tanto peso; che gli pregavano d'aspettar Morone e Navaggero, che presto arriveranno. Alla qual risposta s'acquietarono, perché anco gl'ambasciatori imperiali fecero instanza che si andasse lentamente, aspettando la negoziazione degl'ambasciatori cesarei in Roma, congionti con Luigi d'Avila, li quali tutt'insieme avevano fatto instanza al pontefice che in concilio, e non a Roma, si facesse un'universal riforma di tutta la Chiesa nel capo e nelle membra, e per la rivocazione del decreto che li soli legati potessero proponer in concilio, come contrario alla libertà degl'ambasciatori e de' prelati di poter ricercar quello che giudicassero utile, questi per le sue chiese e quelli per li suoi stati. La qual instanza l'imperatore giudicò meglio che fosse prima fatta al papa e poi in concilio.

Non però questi prencipi erano in tutto concordi; imperoché, se ben don Luigi a parte fece le medesime dimande, nondimeno appresso di ciò ricercò il pontefice che persuadesse l'imperatore a rimoversi dalla dimanda del calice e matrimonio de' preti, dicendo ch'il re aveva dato commissione al suo ambasciatore che anderrebbe a Trento di far ufficio che se ne parlasse e che i prelati spagnuoli se vi opponessero. Essortò il pontefice a procurar d'acquistar gl'eretici con dolcezza, non mandando noncii, ma usando il mezo dell'imperatore e d'altri prencipi d'autorità, et ad accettar le dimande de' francesi, e lasciar libero il concilio, che tutti possino proporre, e che nel risolver non si faciano prattiche. La risposta del pontefice agl'ambasciatori fu che il decreto del «Proponentibus legatis» sarebbe interpretato in maniera che ogni uno potrà proponer quello che vorrà, e che egli a' legati ultimamente partiti aveva lasciato libertà di risolvere tutte le cose che occorressero in concilio, senza scriver cosa alcuna. Che la riforma era desiderata da lui, e ne aveva spesso fatto instanza, e se il mondo la volesse da Roma, già sarebbe fatta et anco esseguita; ma poiché la volevano da Trento, se non si effettuava, la causa non si doveva ascriver ad altri, se non alle difficoltà che si ritrovavano tra i padri. Che egli desiderava il fine del concilio e lo procurava e sollecitava, né di sospenderlo aveva pensiero alcuno. E che in conformità di questo, averebbe scritto a' legati, e scrisse anco con dire che il decreto «Proponentibus legatis» era fatto per levar la confusione, ma però esser volontà sua che non impedissero alcuno de' prelati a proponer quello che gli fosse parso, e che essi dovessero espedir le materie secondo li voti de' padri, senza aspettar altro ordine da Roma. Ma questa lettera fu per dar sodisfazzione e non produr effetti; perché il cardinal Morone, che era capo de' legati, aveva le instruzzioni a parte per dar regola anco agl'ordini che fossero andati da Roma.

A don Luigi rispose in particolare il pontefice che aveva aperto il concilio sotto la promessa fattagli da Sua Maestà che n'averebbe avuto la protezzione e che sarebbe conservata l'autorità della Sede apostolica, e si trovava ingannato, perché da' prelati suoi riceveva maggior incontri che da tutti gl'altri; li quali per la concessione del sussidio s'erano inimicati insieme con tutto 'l clero di Spagna. Che della buona volontà di Sua Maestà non dubitava, ma tutto 'l male nasceva perché, né in Roma, né al concilio, aveva mandato ambasciatori confidenti; che era giusto lasciar il concilio in libertà et egli piú di tutti cosí desiderava, non piacendogli però la licenzia, né meno che fosse in servitú di quei prencipi che predicavano la libertà, volendo essi commandare. Che da ogni uno gl'era fatta instanza di libertà nel concilio et egli non sapeva se tutti questi avessero ben pensato che importanza sarebbe quando a' prelati fosse lasciata la briglia sopra il collo. Che quantonque in quel numero vi fossero alcune persone eccellenti in bontà et in prudenza, vi erano nondimeno anco di quelli che mancavano o [dell'una o] dell'altra o d'ambedue insieme; li quali tutti erano pericolosi, quando non fossero tenuti in regola. Che a lui importava forse manco di tutti il pensarci: perché avendo il fondamento dell'autorità sua sopra le promesse di Dio, in quelle confidava; ma maggior bisogno avevano li prencipi d'avvertirci per li pregiudicii che ne potrebbono seguire, e che quando li prelati fossero posti in quella soverchia libertà, ne rincreserebbe forse molto a Sua Maestà catolica. Che quanto alla riforma, gl'impedimenti non venivano da lui, che egli sarebbe andato differendo le dimande de' prencipi sopra la communione del calice et altre tal novità, come Sua Maestà desiderava; ma che ella considerasse che, come la mente di Sua Maestà non è conforme a quella degl'altri ne' particolari del calice e matrimonio de' preti, cosí in ogni altra vi è chi fa instanza e chi s'oppone a quelli di lei. Concluse in fine che stava a Sua Maestà veder un fruttuoso e presto fine del concilio, dal quale, quando egli fosse stato libero, ella si poteva prometter ogni favore.

 

 




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