[Cesare trattien Morone. I francesi si
straccano del concilio]
I francesi in Trento ebbero per superfluo
far instanza a' padri, conforme al commandamento regio, inanzi il ritorno di
Morone, essendo cosa appontata con tutti che le azzioni conciliari si
differissero sin allora. Ma l'imperatore non aveva ancora spedito quel
cardinale, anzi pur in quel medesimo tempo fece intender a Lorena che, per
diversi accidenti e per esser le materie proposte di tal peso et importanza che
meritavano matura deliberazione e consultazione, non aveva ancora potuto dargli
risposta risoluta, ma ben sperava di farla tale in tempo e luogo, che ognuno
potesse conoscer le sue azzioni corrispondere al desiderio suo di veder
ridrizzati gl'affari del concilio a commun beneficio; perilché anco, non
ostanti le occupazioni e vigenti bisogni delle altre provincie, dissegnava di
fermarsi in Ispruc, per favorir con la presenza sua la libertà del concilio,
sin tanto che averà speranza di veder qualche buon profitto. A Morone non era
grata cosí longa dimora e che l'imperatore rimettesse, come faceva, tutte le
negoziazioni sue a teologi e conseglieri, e dubitava cosí egli, come il
pontefice che si differisse il risolverlo sin tanto che avesse udito Birago,
del quale già avevano inteso che era per proponer traslazione del concilio in
Germania, per dar sodisfazzione agl'ugonotti, cosa alla quale il pontefice era
risoluto di non assentire, cosí per propria inclinazione, come perché glie
n'era fatta instanza da tutto 'l collegio de cardinali e da tutta la corte. E
si maravegliava dell'umor de' francesi, che da una parte dimandavano riforma, e
dall'altra parte traslazione del concilio, e da una parte trattavano d'aver
sovvenzione dalle chiese per estinzione de' debiti regii, e dall'altro canto si
mostravano tanto fautori di quelle.
Ma la verità era che li francesi,
certificati in se medesimi di non poter ottener dal concilio, mentre che
gl'italiani facevano la parte maggiore, cosa che fosse per loro servizio, incomminciavano
a non sperar piú, né tener conto alcuno del concilio, mentre stasse in Trento;
levarono la provisione a' teologi mandati dal re e concessero licenza di
partire a chi voleva; lasciandogli però in libertà di restare. Perilché l'uno
dopo l'altro partirono quasi tutti. Restarono sino in fine li doi benedittini,
a' quali erano somministrate le provisioni da' monasterii loro; e l'Ugonio, per
il commodo che gli era dato da' ponteficii di trattenersi, al quale fecero aver
luogo e spese nel monasterio, oltre la provisione di 50 scudi che gl'avevano
assegnato ogni tre mesi.
Il cardinale di Lorena, avendo essaminato
e fatto essaminar le allegazioni mandate dal papa all'imperatore e fattaci
sopra una censura, la mandò a quella Maestà. Egli credette d'aver fatto il
tutto secretamente, ma dal sudetto teologo, non solo fu scoperto, ma ancora
fattane copia a' legati, li quali, aspettando di breve il Morone, scrissero a'
vescovi partiti da Trento, di ordine del papa, che dovessero ritornar per
repigliar le azzioni conciliari. Tra tanto il 10 di maggio fu fatta
congregazione per leggere le lettere della regina di Scozia, presentate dal
cardinal di Lorena, nelle quali ella dicchiarava che si sottometteva al
concilio, e commemorata la successione sua, ch'aspettava nel regno
d'Inghilterra, prometteva che, come fusse seguita, averebbe sottomesso l'un e
l'altro di quei regni all'obedienza della Sede apostolica. Dopo lette le
lettere, il cardinal con una elegante orazione iscusò quella regina se non
poteva mandar né prelati, né ambasciatori al concilio, per essere tutti
eretici, e promesse ch'ella mai averebbe deviato dalla vera religione. Gli fu
risposto per nome del sinodo con ringraziamento, ridendo però alcuni che
l'officio di quella regina fusse di persona privata e non di prencipe, poiché
non si ritrovava pur un suddito catolico di mandare. Ma li piú intelligenti
giudicorono che quest'officio fusse stato mendicato et estorto, perché bene lo
poteva ella fare da prencipe, avendo sempre avuto appresso di sé non pochi catolici.
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