[Difficoltà a Roma sopra l'ambasciata
di Massimiliano, re de' Romani]
Ebbe il pontefice in questo tempo una
altra negoziazione assai dura; perché, dovendo il re de' Romani mandar
ambasciatori per dar conto dell'elezzione sua, non volle far come gl'altri
imperatori e re, quali, non essendovi alcuna difficoltà, promisero e giurarono
tutto quello che a' pontefici piacque; ma egli, avendo rispetto di non offender
li prencipi et altri protestanti di Germania, volse prima che si decchiarasse
che parole avesse da usare. Posta la cosa in consultazione de' cardinali,
quelli deliberarono che dovesse dimandar la conferma dell'elezzione e giurar
ubedienza, secondo l'essempio di tutti gl'altri imperatori. Al che egli rispose
che quelli furono ingannati et egli non era per acconsentir a cosa che dovesse
esser poi presa a pregiudicio de' suoi successori, come le azzioni de' suoi
precessori si adoperavano a pregiudicio suo, e che era un decchiararsi
vassallo; e propose che l'ambasciatore suo usasse queste parole: che la Maestà
Sua presterà ogni riverenza, divozione et ossequio alla Santità Sua et alla
Sede apostolica, con promessa non solo di conservare, ma di ampliar, quanto
potrà, la santa fede catolica. Non potendo concordar, durò il negoziato tutto
quest'anno, e credettero a Roma d'averli finalmente trovato buon temperamento,
proponendo che giurasse ubedienza non come imperatore, ma come re d'Ongaria e
di Boemia, poiché dicevano non potersi negare che il re Stefano, l'anno della
nostra salute 1000, non donasse il regno alla Sede apostolica, riconoscendolo
poi da lei col titolo regio e facendosi vassallo, e che Vladislao, duca di
Boemia, non ricevesse da Alessandro II la facoltà di portar la mitra,
obligandosi di pagar 100 marche d'argento ogni anno. Le qual cose consegliate
in Germania e veduto non essercene altri documenti che l'affermativa di papa
Gregorio VII, furono derise e rispostogli che si desideravano essempii piú
recenti e piú certi e titoli piú legitimi. Andarono inanzi et indietro messi
con varie proposte, risposte e repliche, delle quali, per non parlar piú, sarà
ben rifferir al presente l'essito, il qual fu che, 20 mesi dopo, arrivò in Roma
il conte d'Elfestain, ambasciatore di quel re, col quale si rinovarono le
medesime trattazioni di dimandar la conferma e giurar l'obedienza. Ma dicendo
egli d'aver in scritto l'orazione che aveva da recitar pontualmente, con
commissione di non alterarne un iota, il papa, fatta congregazione generale,
propose il negozio a' cardinali; li quali, dopo longa consultazione, vennero a
conclusione che, se ben la conferma non sarebbe addimandata, né l'obedienza
promessa, che nondimeno nella risposta all'ambasciatore si dovesse dire che la
Santità Sua confermava l'elezzione, supplendo tutti li deffetti de fatto
e de iure intervenuti in quella, e che riceveva l'obedienza del re,
senza dire che fosse dimandata o non dimandata, promessa o non promessa. E
riuscí quella ceremonia con poco gusto del pontefice e minor del collegio de'
cardinali.
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