[Disputa di precedenza tra Francia e
Spagna in concilio]
Dopo che il papa disgustò li spagnuoli,
non avendo dato luogo all'ambasciator in Roma, per aquietarli ascoltò la
ricchiesta di Vargas, che per piú giorni assiduamente l'aveva molestato con
instanzia che, sí come s'era trovato modo come il conte ambasciator del suo re
in Trento potesse intervenire nelle congregazioni, cosí, approssimandosi il
tempo di celebrare la sessione, la Santità Sua trovasse via come potesse
intervenirvi. Sopra la qual cosa avendo molto pensato e consultato co'
cardinali, finalmente venne in risoluzione che anco nella sessione fosse dato
al conte di Luna luogo separato dagli altri ambasciatori, e per rimediar alla
competenza, che sarebbe stata nel dar l'incenso e la pace, si usassero doi
turibuli e fossero incensati li francesi e lo spagnuolo tutti in una volta, e
parimente fossero portate due paci a basciar a questi et a quello tutt'in un
instante; e cosí scrisse a' legati che esseguissero, ordinando loro che il
tutto tenessero secretissimo sino al tempo dell'essecuzione, acciò, risaputo,
non fossero preparate qualche inconvenienze. Il cardinale Morone, seguendo il
commandamento del papa, tenne secreto l'ordine, che li francesi mai lo
penetrarono.
Il dí 29 giugno, giorno di san Pietro,
congregati nella capella del domo i cardinali, ambasciatori e padri et
incomminciata la messa, qual celebrò il vescovo d'Avosta, ambasciator del duca
di Savoia, alla sprovista uscí di segrestia una sedia di veluto morello e fu
posta tra l'ultimo cardinale et il primo de' patriarchi, e quasi immediate
comparve il conte di Luna, ambasciator spagnuolo, e sedette in quella sedia.
S'eccitò per questo gran mormorazione di ciascuno de' padri co' vicini. Il
cardinale di Lorena si lamentò co' legati dell'atto improviso e celato a lui;
gl'ambasciatori francesi mandarono il maestro delle ceremonie a far l'istesse
indoglienze, mettendo in considerazione le ceremonie dell'incenso e della pace.
A che rispondendo li legati che si sarebbe rimediato con doi turibuli e due
paci, li francesi non si contentarono, ma apertamente dissero voler esser
conservati non in parità, ma in precedenza, e che d'ogni novità averiano
protestato e partitisi dal concilio. Si continuò in queste andate e ritorni
sino al fine dell'Evangelio, in maniera che per li grandi susurri l'Epistola e
l'Evangelio non furono uditi. Andato il teologo in pulpito per far il sermone,
si ritirarono li legati co' cardinali, ambasciatori dell'imperatore e col
Ferrier, uno de francesi, in segrestia, dove si trattò questa materia, et il
sermone finí prima che cosa alcuna fu conclusa. Nel cantar del Credo,
nel mezo di quello fu inditto silenzio et il cardinale Madruccio col
Cinquechiese e l'ambasciator di Polonia uscirono a parlar co' conte di Luna e
pregarlo per nome de' legati che si contentasse che per allora non fosse dato
né incenso né pace ad alcuno, a fine d'impedir il sprovisto tumulto che
potrebbe causar qualche gran male, promettendogli che ad ogni altra sua
ricchiesta esseguirebbono l'ordine di Sua Santità de' doi turibuli e due paci
in un tempo; il che facendosi alla pensata, et egli e loro e tutti averebbono
potuto risolver come governarsi con prudenza. Finalmente, dopo longo
raggionamento, tornarono dentro con la risoluzione, la qual fu che il conte se
ne contentava. Con questa deliberazione uscirono tutti di segrestia e tornarono
al proprio luogo, e la messa seguí, come si è detto, senza incenso e senza
pace, e subito detto: «Ite missa est», il conte di Luna, il qual nelle
congregazioni era solito uscire l'ultimo dietro a tutti, allora partí inanzi la
croce, seguitato da gran parte de' prelati spagnuoli et italiani sudditi del
suo re. Partirono dopo li legati, ambasciatori et i prelati rimanenti al modo
consueto.
I legati, per liberarsi dall'imputazione
che gl'era data d'aver proceduto in cosa di tanto momento clandestinamente e
quasi con fraude, furono necessitati publicar gl'ordini espressi ricevuti da
Roma di dover cosí operare in quel tempo, in quel modo, in quel luogo e senza
communicare. Il Ferrier publicamente diceva che, se non fosse stato il rispetto
al culto divino, averebbe fatto la protestazione che teneva in commissione dal
suo re, la qual per l'avvenire farebbe, quando non si restituissero le solite
ceremonie d'incenso e pace, dando loro in quelle il debito luogo. Scrisse anco
il cardinale di Lorena al pontefice una lettera assai risentita, esponendo il
torto che si trattava di far al suo re e modestamente dolendosi che Sua Santità
gl'avesse fatto dire di confidar tanto in lui, che voleva gli fossero
communicate tutte le cose del concilio, del che, se ben non vedeva l'effetto,
non se ne doleva, ma ben gli premeva che avesse commandato a' legati di non
communicargli le cose sue proprie e quello che meglio d'ogni altro poteva
adoperarsi in bene; aggiongendo non esser seguito tutto 'l male che sarebbe
seguito, se esso non si fosse messo in mezo; soggiongendo che del tutto la
colpa era attribuita alla Santità Sua e pregandolo a non voler esser autore e
causa di tanti mali. E gli mandò anco in posta il Musotto per esplicargli piú
particolarmente la risoluzione degl'ambasciatori francesi et il pericolo
imminente. Il conte di Luna si lamentava della durezza de' francesi e
magnificava la molta pazienza e modestia usata da sé, e fece instanza co'
legati che la dominica seguente fosse admesso a luogo e ceremonie uguali,
secondo l'ordine del papa. Non mancava anco chi dicesse che il tutto era un
stratagema del pontefice per dissolver il concilio, e li ponteficii chiamati
«amorevoli» dicevano che, se pur s'avesse avuto a venir a dissoluzione,
averebbono desiderato che piú tosto fosse occorsa per la controversia che era
sopra le parole del concilio fiorentino, che il papa è rettor della Chiesa
universale, stimando che sarebbe stato piú facile giustificarne Sua Santità e
darne tutta la colpa a' francesi.
La mattina seguente, ultimo del mese di
giugno, il conte, congregati i prelati spagnuoli e molti italiani, disse loro
che il giorno inanzi non era andato in capella per dar occasione alcuna di
disturbo, ma per conservar le raggioni del suo re e valersi dell'ordine dato
dal pontefice; aver inteso dopo che, quando egli fosse tornato in capella, [i]
francesi volevano protestare, al qual atto se fossero venuti, egli non averia
potuto mancar di risponder loro con modo e termini che essi usassero, cosí per
la parte di Sua Santità, quanto per quello che tocca alla Maestà del suo re.
Quei prelati risposero che, venendosi a questo, ciascuno di loro sarebbe stato
pronto nel servizio di Sua Santità e non averebbono mancato ancora di tener
conto di Sua Maestà catolica in quello che a loro si convenisse. Gli pregò il
conte di nuovo a star avvertiti a tutto quello che potesse occorrer in tal
caso, dicendo che egli ancora ci verria preparato, sapendo che francesi non
potevano pigliar se non tre mezi: o contra li legati, o contro il re, o contro
esso medesimo ambasciatore, a' quali tutti preparerebbe conveniente risposta.
Gl'ambasciatori degl'altri principi tutti fecero ufficio co' legati che
dovessero trovar temperamento, acciò non seguisse piú tal disordine; quali
avendo risposto che non potevano restar d'esseguir il commandamento del papa,
essendo preciso e senza alcuna reservazione et avendo anco promesso al conte di
volerlo far ad ogni sua ricchiesta, il cardinale di Lorena protestò a' legati
che, quando volessero farlo, esso anderia in pergolo e mostreria di quanta
importanza fusse questa cosa e quanta rovina fosse per apportare alla
cristianità tutta, e che col crocifisso in mano grideria: «Misericordia»,
persuadendo a' padri et al popolo di partir di chiesa per non veder un scisma
cosí tremendo; e che gridando: «Chi desidera la salute della republica
cristiana mi segua», partiria di chiesa con speranza d'esser seguito da
cadauno. Dal che mossi li legati, deliberarono di far ufficio col conte che si
contentasse che la seguente dominica non si tenesse capella, né si facesse
processione secondo il solito; e di tutto diedero aviso al papa.
Si facevano continue congregazioni in casa
degl'ambasciatori francesi e del spagnuolo; il quale ora dava speranza di
contentarsi, ora faceva instanza che si dovesse andar in chiesa per esseguir
l'ordine del pontefice dell'incenso e pace. E gl'ambasciatori francesi erano
risoluti di far la protesta e partire, e dicevano apertamente che non
protesterebbono contro li legati, per esser meri essecutori, né contro il re di
Spagna o il conte suo ambasciatore, perché proseguivano la causa loro, né
contro la Sede apostolica, la quale erano sempre per onorare, seguendo li
vestigii de' loro maggiori, ma contro la persona del pontefice, dal qual veniva
il pregiudicio e l'innovazione, come quello che s'era fatto parte e dava causa
di scisma, e per altra causa ancora, con appellazione al futuro pontefice,
legitimamente eletto, et ad un concilio vero e legitimo, minacciando di partire
e di celebrar un concilio nazionale. I prelati et altri francesi a parte
dicevano communemente ad ognun che gl'ambasciatori avevano proteste contra la
persona del pontefice, che si portava per papa non essendo legitimo, per causa
d'elezzione invalida e nulla per vizio di simonia, accennando particolarmente
la poliza, quale il cardinale Caraffa ebbe dal duca di Fiorenza, con
promissione di certa somma di danari, e la quale quel cardinale mandò poi al re
Catolico, pretendendo che non poteva esser fatta se non de consenso del
pontefice inanzi la sua assonzione, et a quell'altra poliza fatta di mano del
papa, allora cardinale, in conclave al cardinale di Napoli, della quale di
sopra s'è detto. Et il presidente Ferrier preparò un'orazione assai pungente in
lingua latina, con la protestazione, la qual, se ben non fu fatta, è però
andata in stampa e da' francesi è mostrata e tuttavia si mostra in stampa come
se recitata fosse, della quale il portarla sostanza non è fuori del proposito
presente, acciò si vegga non quel che dissero, ma che senso portarono li
francesi al concilio.
Diceva in sostanza: che essendo congregato
quel concilio per opera di Francesco e Carlo fratelli, re di Francia, sentivano
con molestia essi oratori francesi regii esser costretti a partirsi o
acconsentir alla diminuzione della degnità del re; che era noto a chi aveva
letto il ius ponteficio e le istorie della Chiesa romana la prerogativa del re
di Francia, et a quelli che avevano letto li volumi de' concilii, qual luogo
avessero tenuto in quelli; che gl'ambasciatori del Catolico ne' passati
concilii generali avevano seguito quelli del Cristianissimo. Che in quel tempo
s'era fatta mutazione, non da essi padri, che se fossero in libertà non
moverebbono alcun prencipe dal suo possesso, né la mutazione esser fatta dal re
Catolico, congiontissimo in amicizia e parentela con loro re; ma dal padre de tutti
li cristiani, che per pane ha dato al figlio primogenito una pietra e per pesce
un serpente, per ferir con una pontura insieme il re e la Chiesa gallicana. Che
Pio IV sparge seme di discordia per sturbar la pace tra li re concordi, mutando
per forza et ingiustizia l'ordine del seder gl'ambasciatori sempre usato, et
ultimamente ne' concilii di Costanza e lateranense, per mostrar d'esser
superiore a' concilii. Che né egli potrà sturbar l'amicizia de' re, né levar la
dottrina delle sinodi di Costanza e Basilea, che il concilio sia sopra il papa.
Che san Pietro aveva imparato d'astenersi da' giudicii delle cose mondane, dove
quel suo successore e non immitatore pretendeva dar e levar gl'onori de' re.
Che per legge divina, delle genti e civile fu tenuto conto del primogenito, e
vivendo e morto il padre: ma Pio ricusa preferire il re primogenito agl'altri
nati molto tempo dopo quello. Che Dio, per rispetto di David, non volse
sminuire la degnità di Salomone e Pio IV, senza rispetto de' meriti di Pipino,
Carlo, Ludovico et altri re di Francia, con suo decreto pretende levar le
prerogative del successor di quelli re. Che contra le leggi divine et umane,
senza alcuna cognizione ha condannato il re, l'ha levato dell'antichissima sua
possessione et ha prononciato contra la causa d'un pupillo e vedova. Che
gl'antichi pontefici, quando la sinodo general era in piedi, mai hanno fatto
cosa senza l'approbazione di quella, e Pio ha voluto senza quel concilio, che
rapresenta la Chiesa universale, levar di possesso gl'oratori d'un re pupillo
non citato, quali non a lui, ma alla sinodo sono mandati. Che acciò non vi
fosse provisione, ha usato diligenza acciò il suo decreto non fosse saputo,
commandando a' legati, in pena di scommunica, di tenerlo secreto. Che
considerassero li padri se questi sono fatti di Pietro e d'altri pontefici, se
essi ambasciatori siano costretti partire da dove Pio non ha lasciato luogo
alle leggi, né vestigio della libertà del concilio; poiché nissuna cosa è
proposta a' padri o publicata, se non prima mandata da Roma. Che contro quel
Pio IV solamente protestavano, venerando la Sede apostolica et il sommo
pontefice e la santa Chiesa romana, ricusando solo d'obedir a quello et averlo
per vicario di Cristo. Che quanto a' padri ivi congregati gl'averanno sempre in
gran venerazione, ma poiché tutto quello che si fa, è fatto non in Trento, ma
in Roma, e li decreti che publicano sono piú tosto di Pio IV che del concilio
tridentino, non gli riceveranno per decreti di sinodo generale. In fine
commandava per nome del re a' prelati e teologi che si partissero per ritornare
quando Dio avesse restituito la debita forma e libertà a' concilii generali et
il re avesse ricevuto il debito luogo.
Non vi fu occasione di far la protesta,
atteso che, considerando finalmente il conte che, quantonque la parte di Spagna
fosse maggiore di numero de prelati che la francese, nondimeno li dependenti
dal pontefice, li quali sarebbono stati a suo favore nella prima occorrenza,
conoscendo il voler di Sua Santità, passata la prima occasione e sapendo che si
era già spedito a Roma per quella causa, sarebbe stata di parere che si
soprasedesse sino alla risposta et a nuovo ordine; onde, gionti co' francesi,
la parte sua sarebbe restata piú debole, piegando a contentarsi di qualche
composizione, interponendosi tutti gl'altri ambasciatori et il cardinale
Madruccio, dopo molte difficoltà convennero che nelle ceremonie publiche non
fosse dato piú né incenso né pace, sino alla risposta del re di Spagna. Il qual
accordo dispiacque a molti, parte dependenti dal pontefice e che avevano cara
quell'occasione per interromper il progresso del concilio, e parte anco che,
sazii di star in Trento, né sapendo veder in che maniera il concilio potesse
aver né progresso né fine, desideravano per manco male che fosse interrotto,
acciò le discordie non si facessero maggiori. Certo è che il medesimo
pontefice, avuto l'aviso dell'accordo tra gl'ambasciatori lo sentí male, per il
medesimo timore che le discordie non si facessero maggiori e non succedesse
qualche male; e li ministri spagnuoli che erano in Italia, tutti biasmavano il
conte d'aver lasciato fuggir un'occasione tanto favorevole in servizio del re.
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