[Deliberazioni di Trento di terminar il
concilio con una sola sessione]
Ma in Trento, finita la sessione e ben
concertate le cose fra li legati e Lorena, communicato anco il negozio co'
principali e capi de' ponteficii, che erano Otranto, Taranto e Parma, e con
gl'ambasciatori cesarei, Lorena incomminciò a sparger semi del dissegno preso,
che con una sessione ancora il concilio si finisse: diceva che egli non poteva
esser in Trento per Natale, che era constretto, e lui e tutti li vescovi
francesi, a partire inanzi quel tempo, che desiderava ben veder il concilio
finito e gli sarebbe dispiacciuto lasciar cosí onorata adunanza, ma non poteva
far altro, avendo avuto commandamento di cosí fare. Gl'ambasciatori cesarei
ancora publicarono per tutto 'l concilio che l'imperatore sollecitava
l'espedizione e che il re de Romani scriveva che si finisse per sant'Andrea,
overo, al piú longo, onninamente nel principio del mese seguente; e veramente
quel re, non per far piacere al pontefice, ma perché cosí sentiva, sollecitava
l'espedizione, perché dovendosi far una dieta, non voleva che vi fossero
ambasciatori del padre al concilio, e diceva che quando quello fosse chiuso, le
cose della religione in Germania sarebbono andate assai meglio.
Le qual cose essendo intese dalla maggiore
parte de' padri con molto piacere, il 15 di novembre il cardinal Morone fece
una congregazione in casa sua, chiamati li legati e li doi cardinali e 25
vescovi, scielti li piú principali delle nazioni; propose che, essendo stato
congregato il concilio per li bisogni di Germania e Francia, e facendo allora
instanza l'imperatore et il re de Romani et il cardinal di Lorena e tutti li
prencipi che si vi ponesse fine, dicessero il parer loro circa il finirlo e
circa il modo. Il cardinal di Lorena disse che il finirlo era necessario, per
non tener piú sospesa la cristianità e chiarir li catolici di quello che
dovevano credere, e per levar l'Interim di Germania, il qual essendo
stabilito a dover durare sino al fine del concilio, non si può in altra maniera
levare, et il continuarlo piú longamente esser detrimento della Chiesa
catolica. Che bisognava anco finire il concilio per ovviare che in Francia non
se ne faccia un nazionale. Quanto al modo, disse che si potrebbe finir con una
sessione, trattando in quella il rimanente della riforma e dando espedizione al
catechismo et all'Indice de' libri proibiti, che già erano in ordine, e
rimettendo al papa le altre cose che rimanessero, senza disputar gl'articoli
delle indulgenzie et imagini, non si facessero anatemi contra particolari
eretici, ma si passasse con termini generali. Del finir il concilio in qualche
modo tutti assentirono, salvo che l'arcivescovo di Granata, il qual disse che
si rimetteva all'ambasciatore del suo re. Fu proposto da alcuno che non si
poteva dargli fine assoluto, poiché restavano tante materie da trattare; ma che
si potesse farlo con intimar un altro dopo 10 anni, il che averebbe servito per
impedire che le provincie non facessero concili nazionali e per rimetter a quel
tempo la determinazione delle cose che restassero, et anco l'anatematizare. Il
vescovo di Brescia propose che si trovasse un modo medio tra il mettergli
compito fine e la sospensione, perché il finirlo sarebbe stato desperare
gl'eretici, et il sospenderlo non satisfar li catolici. Ma questi pareri non
ebbero seguito, aderendo gl'altri a quello che il cardinale detto aveva.
Del modo, l'arcivescovo d'Otranto disse
che l'anatematizar gli eretici era cosa necessaria et usata da tutti li
concili, anzi che in quello sta l'opera che dalle sinodi si ricerca, perché
molti non sono capaci d'intender la verità o falsità delle openioni con proprio
giudicio, quali solamente le seguono o le abortiscono per il credito o
discredito degl'autori; che il concilio calcedonense pieno d'uomini dotti, per
chiarirsi se Teodoreto, vescovo di Ciro, che era dottissimo, era catolico o no,
volendo egli render conto della fede, non volse ascoltar altro, ma solamente
ricercò che dicesse chiaramente anatema a Nestorio; che se in quel concilio non
anatematizassero Lutero e Zuinglio et altri capi già morti, e de' viventi
quelli che seguono la loro dottrina, si potrebbe dire il concilio aver operato
invano. Replicò il cardinale che altri tempi ricercano altri consegli: allora
le differenze della religione erano tra li vescovi e li preti; li popoli
venivano per accessorio, e li grandi o non se ne intromettevano, o quando pur
aderivano a qualche eresia, non se ne facevano capi. Adesso esser tutto in
contrario: li ministri e predicanti d'eretici non potersi dir capi di setta, ma
piú tosto i prencipi, agli interressi de' quali li predicatori e maestri loro
s'accommodano. Chi vorrà nominar li veri capi d'eretici converrà nominar la
regina d'Inghilterra, la regina di Navarra, il prencipe di Condé, l'elettor
palatino di Reno, l'elettor di Sassonia e molti altri duchi e prencipi di
Germania. Questo sarà causa di fargl'unir insieme e risentirsi; il che non
potrà esser senza qualche scandalo; e chi proponesse anco la dannazione de'
soli Lutero e Zuinglio, gl'irriterebbe talmente che nascerebbe qualche gran
confusione. Però, accommodandosi non a quello che si vorrebbe, ma a quello che
si può, esser meglior risoluzione quella che uscirà manco fuori
dell'universale.
Morone mandò a chiamar gl'ambasciatori
ecclesiastici, a' quali communicata la proposta et il parer de' congregati,
essi ancora acconsentirono al fine et al modo, secondo il voto di Lorena. Fu
col parere di tutti mandato a communicare la risoluzione agl'ambasciatori
secolari, da' quali tutti fu assentito, eccetto che dallo spagnuolo, il qual
rispose di non aver l'espressa volontà del re, ma ben ricercare che s'interponi
tempo tanto che possi averla. Questo non ostante, li legati risoluti di metter
in essecuzione la deliberazione fatta, diedero fuora il capo de' prencipi,
tralasciati gl'anatemi e tutti gl'articoli particolari, rinovando solo li
vecchi canoni della libertà e giurisdizzione ecclesiastica e parlando de'
prencipi con molta riverenza, con solo essortargli a far opera che li loro
ministri non le violassero. Quell'istesso giorno fu fatta congregazione la sera
per dar principio a parlar della riforma, e preso ordine che si farebbono due
congregazioni al giorno, sin tanto che i voti fossero detti.
Nelle congregazioni li voti si dicevano
con grandissima brevità e risoluzione, salvo che da una poca parte de'
spagnuoli, li quali desideravano metter impedimento, dove gl'altri tutti si
sforzavano con la brevità di promover l'espedizione. La maggiore difficoltà fu
sopra il capo sesto della soggezzione de' capitoli a' vescovi, per il
grand'interresse non solamente de' medesimi vescovi, ma anco del re in diminuir
l'autorità capitolare, acciò non potessero metter difficoltà a' sussidii che in
Spagna vengono spesso imposti; e dall'altro canto per li favori che da' legati
erano prestati a' capitoli, per li quali e per le raggioni che si adducevano
molti degl'italiani, che prima parevano a favore de' vescovi, si erano mutati a
favore de' capitoli. Mandò per questo il conte di Luna un corriero in diligenza
a Roma, per aviso del quale l'ambasciatore Vargas fece ufficio col pontefice
per la causa de' vescovi; e rimettendosi il papa, secondo il suo costume, al
concilio, si dolse l'ambasciatore che li prelati italiani erano stati
pratticati a mutar voto in quella materia; a che il papa prontamente disse
esser mutati perché sono liberi, ma che l'agente de' capitoli non si era
partito dal concilio con libertà, essendo stato scacciato: e si dolse con
quell'occasione che il conte di Luna facesse ufficii in Trento, acciò non si
mettesse fine al concilio. Scrisse con tutto ciò il pontefice secondo la
ricchiesta dell'ambasciatore, ma però con termini che non disfavorivano le
pretensioni de' capitoli; e fu finalmente formato il decreto con qualche
aummento d'autorità episcopale in Spagna, se ben non quanto desideravano.
Gl'ambasciatori veneti fecero instanza che
nel capitolo de' iuspatronati, essendo eccettuati quelli dell'imperatore e re,
fossero anco eccettuati quelli della republica loro: avevano desiderio li
legati di compiacergli, ma fu difficile trovar modo, perché l'eccettuare tutte
le republiche era una troppo grand'ampiezza et il nominarla specificatamente
pareva materia di gelosia. Trovarono temperamento di comprenderla nel numero
de' re, col decchiarare che fra quelli sono compresi li possessori de' regni,
se ben non hanno il nome.
Nella congregazione de' 20 fu proposto di
dimandar la conferma al papa di tutti li decreti del concilio, tanto fatti
sotto Paolo e Giulio, quanto sotto la Santità Sua. L'arcivescovo di Granata
promosse difficoltà, con dire che nella decimasesta sessione, la qual fu
l'ultima sotto Giulio, quando il concilio fu sospeso, fu insieme ordinato che
fossero osservati tutti li decreti sino allora statuiti dalla sinodo, senza
aver detto che vi fosse qualche bisogno di conferma; onde il dimandar di quelli
conferma dal sommo pontefice non esser altro che condannar quei padri, quali
allora giudicarono che senza conferma alcuna potessero esser messi in
essecuzione; soggiongendo che da lui non era detto perché non approvasse il
ricchieder la conferma, ma accioché, considerata l'opposizione, si trovasse
modo d'usar parole non pregiudicanti. L'arcivescovo d'Otranto rispose che il
decreto nominato da Granata non solo non favoriva l'opposizione che egli ne
cavava, che anzi la risolveva, mostrando chiaramente che non aveva le
ordinazioni fatte per obligatorie, poiché non commandava, ma semplicemente
essortava che fossero ricevute et osservate, di che non si poteva allegar altra
causa che il mancamento della conferma. Si quietò il Granata e fu deliberato di
dimandar la conferma come era proposto di consenso commune: ma nel modo fu
qualche differenza. Ad una gran parte non piaceva che il concilio dimandasse la
conferma e senza aspettar risposta si dissolvesse, allegando che non sarebbe
con dignità né dalla Sede apostolica, né del concilio e che parerebbe un
accordo fatto tra questo e quella; perché altrimenti, quando alcuna cosa non
fosse confermata, convenirebbe pur che la provisione fosse fatta dal medesimo
concilio. A' quali, che molti erano, per satisfare, il cardinale Morone
averebbe voluto che nella sessione de' 9, la quale per la moltiplicità delle
materie stimavano che dovesse durar tre giorni, nel primo giorno si spedisse
corrier per dimandar la conferma, al ritorno del quale si facesse un'altra
sessione senza altra azzione che di licenziar la sinodo. Ma questo parere aveva
anco assai contrarietà: perché, se si voleva che il papa immediate, senza veder
et essaminar li decreti, venisse alla conferma, tornava la difficoltà medesima;
se con essaminargli, si ricercava tempo di mesi. Finalmente il cardinal di
Lorena considerò a' padri che queste difficoltà erano per allongar il concilio;
che egli e li francesi erano costretti ritornarsene, o finito o non finito il
concilio, che cosí avevano ordine dal re, e partiti tutti essi, il concilio non
si potrebbe chiamar generale, mancando una nazione, onde sarebbe diminuito di
degnità e d'onore e potrebbe eccitar concilii nazionali et altre difficoltà.
Questa meza protesta, aggionti gl'ufficii de' cesarei per l'espedizione, fu
causa che dopo aver posto questo in deliberazione piú volte, si risolvé di
dimandar la conferma e licenziar la sinodo nella medesima sessione.
Il cardinal di Lorena scrisse in Venezia
in diligenza all'ambasciatore Ferrier che, essendo accommodato il capo de'
prencipi, dovesse tornar a Trento: il qual rispose di non poterlo fare, se non
aveva particolar commissione di Francia, poiché per le lettere de' 9 il re
aveva scritto a lui et anco ad esso cardinale che, quando il decreto fosse
stato acconcio et egli avisato, averebbe rimandato l'ambasciatore; perilché a
lui era necessario aspettar ordine di Sua Maestà. Ma tuttavia scrisse al re che
non aveva stimato a bene per il suo servizio tornarci, perché le raggioni regie
e libertà della Chiesa gallicana erano violate ancora in altri decreti
publicati in quella sessione.
|