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Paolo Sarpi Istoria del Concilio tridentino IntraText CT - Lettura del testo |
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[I prelati rimasi a Poisí trattano del calice, e ne è fatta domanda al papa, il quale di suo moto l'approva, ma rimette la deliberazione al concistoro] Commise il re all'ambasciatore suo in Roma di farne instanza, mostrando la necessità et utilità; il che l'ambasciatore esseguí a ponto il giorno inanzi che aveva il pontefice ricevuto lettere dal cardinale di Ferrara che davano conto delle difficoltà superate, avendo ottenuta la sospensione de' capitoli d'Orliens contra la libertà ecclesiastica e licenza d'usare le facoltà di legato; cose tanto piú ardue da ottenere, quanto dal medesima cardinale di Lorena, da chi aspettava favore, gli fosse da principio fatta opposizione. E dava intiera relazione dello stato di religione in Francia e del pericolo che si estinguesse a fatto, e de' rimedii per preservarla, che doi solo erano: uno dar sodisfazzione al re di Navarra et interessarlo alla difesa, l'altro conceder al popolo universalmente la communione sub utraque specie, affermando certamente che con questa guadagnerebbe duecentomila anime. Alla proposta donque dell'ambasciator, che lo supplicò per nome del re, della Chiesa gallicana e de' prelati che fossero dispensati di poter amministrar al popolo il sacramento dell'eucaristia sotto le due specie, come preparazione utile e necessaria al popolo di quel regno, per disporlo a ricever prontamente le determinazioni del concilio, senza la quale preparazione si poteva dubitar assai che il rimedio dovesse trovargli umori troppo crudi e causare qualche mal maggiore, il papa, sprovistamente e senza averne consegliato, né deliberato, ma secondo l'inclinazione sua, rispose che egli aveva sempre stimato la communione delle due specie et il matrimonio de' preti de iure positivo, delle quali cose non è minor l'autorità del papa che quella della Chiesa universale per disponerne, e che perciò nell'ultimo conclave fu stimato luterano. Che l'imperatore aveva già fatto l'istessa ricchiesta per il re di Boemia, suo figlio, quale la propria conscienza induceva a questa opinione, e poi anco aveva fatta l'istessa dimanda per i popoli del suo patrimonio, ma che i cardinali mai hanno voluto accommodarvisi: però non voleva risolvere cosa veruna senza proporlo in concistoro e promise che nel prossimo ne averebbe trattato; il qual essendo intimato a' 10 decembre, l'ambasciatore, secondo il costume di quelli per cui instanza si trattano i negozii, andò la mattina, mentre i cardinali sono congregati aspettando il papa, per far con loro ufficii. I piú discreti di loro risposero che la dimanda era degna di gran deliberazione, alla quale non ardivano rispondere senza pensarci ben sopra; altri si turbarono come a nuova non piú udita. Il cardinale della Cueva disse che non sarebbe mai stato per dar il voto suo a favor d'una tal dimanda e che quando ben fosse stato cosí risoluto con l'autorità di Sua Santità e col consenso degli altri, sarebbe andato sopra i scalini di San Pietro ad esclamar ad alta voce e gridar misericordia, non restando di dire che i prelati di Francia erano infetti d'eresia. Il cardinale Sant'Angelo rispose che non darebbe mai un calice pien di sí gran veneno al popolo di Francia in luogo di medicina, e che era meglio lasciarlo morire che venir a rimedii tali. A' quali l'ambasciator replicò che i prelati di Francia s'erano mossi con buoni fondamenti e raggioni teologiche, non meritevoli di censura cosí contumeliosa; come dall'altra parte non era degno il dar nome di veneno al sangue di Cristo e trattar da venefici i santi apostoli e tutti i padri della Chiesa primitiva e della sequente per molti centenara d'anni, che hanno con sommo profitto spirituale ministrato il calice di quel sangue a tutti i popoli. Il pontefice, entrato in concistoro, per raggionamenti avuti con qualche cardinale e per aver meglio pensato, averebbe voluto poter rivocar la parola data; nondimeno propose la materia, riferí l'instanza dell'ambasciatar e fece legger la lettera del legato, e ricercò il parer. Fra i cardinali dependenti di Francia, con diverse forme di parole lodata la buona intenzione del re, quanto alla ricchiesta si rimisero a Sua Santità. I spagnuoli furono tutti contrarii, usando anco grand'ardire e trattando i prelati di Francia chi da eretici, chi da scismatici e chi da ignoranti, non allegata altra raggione se non che tutto Cristo è in ciascuna delle specie. Il cardinale Pacceco considerò che ogni diversità de' riti nella religione, massime nelle ceremonie piú principali, in fine capitano a scisma et anco ad inimicizia: al presente i spagnuoli in Francia vanno alle chiese francesi, i francesi in Spagna alle spagnuole; quando communicaranno cosí diversamente, non ricevendo gl'uni la communione degl'altri, saranno costretti far chiese separate, et ecco nata la divisione. Fra Michael, cardinale alessandrino, disse non potersi in alcun modo conceder dal papa de plenitudine potestatis, non per difetto d'autorità in lui sopra tutto quella che è de iure positivo, nel qual numero è anco questo, ma per incapacità di chi dimanda la grazia: perché non può il papa dar facoltà di far male, ma è male ereticale il ricever il calice pensando che sia necessario; però il papa non lo può conceder a tal persone; e non potersi dubitare che sia giudicato necessario da chi lo dimanda, perché di ceremonie indifferenti nissun fa capitale. «O questi - diceva - hanno il calice per necessario, o no: se no, a che volere dar scandalo agl'altri col farsi differenti? Se sí, adonque sono eretici et incapaci di grazia». Il cardinale Rodolfo Pio di Carpi, che fu degl'ultimi a parlare, essendosi dagl'inferiori comminciato, conformandosi con gl'altri, nella conclusione disse che non solo la preservazione di 200000 uomini, ma d'un solo ancora è sufficiente causa di dispensare le leggi positive con prudenza e maturità; ma in quella proposta conveniva ben considerare che, credendo d'acquistar 200000, non si perdesse 200 millioni. Esser cosa chiara che questa dimanda ottenuta non sarà fine delle ricchieste de' francesi in materia di religione, ma grado per proponer un'altra; chiederanno dopoi il matrimonio de' preti, la lingua volgare nel ministerio de' sacramenti, averanno l'istesso fondamento che sono de iure positivo e che convien concedergli per preservazione de' molti. Dal matrimonio de' preti ne seguirà che, avendo casa, moglie e figli, non dependeranno dal papa, ma dal suo prencipe, e la carità della prole gli farà condescender ad ogni pregiudicio della Chiesa; cercheranno anco di far i beneficii ereditarii et in brevissimo spacio la Sede apostolica si ristringerà a Roma. Inanzi che fosse instituito il celibato non cavava frutto alcuno la Sede romana dalle altre città e regioni; per quella è fatta patrona de tanti beneficii, de' quali il matrimonio la priverebbe in breve tempo. Dalla lingua volgare ne seguirebbe che tutti si stimerebbono teologi, l'autorità de' prelati sarebbe vilipesa e l'eresia intrerebbe in tutti. In fine, quando la communione del calice si concedesse in modo che fosse salva la fede, in se stessa poco importerebbe, ma aprirebbe porta a ricchieder che fossero levate tutte le introduzzioni che sono de iure positivo, con le qual sole è conservata la prerogativa data da Cristo alla Chiesa romana; che da quelle de iure divino non viene utilità, se non spirituale; e per queste raggioni esser savio conseglio opporsi alla prima dimanda, per non mettersi in obligo di conceder la seconda e tutte le altre.
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