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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro settimo
    • [I canoni del papa non sono ricevuti da' spagnuoli, né da' francesi, et eccitano gravi turbamenti]
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[I canoni del papa non sono ricevuti da' spagnuoli, né da' francesi, et eccitano gravi turbamenti]

Ma in Trento, il dí dopo l'arrivo del corriero che portò da Roma li canoni dell'instituzione, che fu il 15 genaro, giorno determinato per risolver il prefisso tempo della sessione, fu fatta congregazione e deliberato di differire a statuirlo sino a' 4 febraro, e fu data copia de' decreti dell'instituzione con ordine di reincomminciare le congregazioni per parlar sopra di quelli. E fu data cura a' cardinali di Lorena e Madruccio di riformar il decreto della residenza, insieme con quei padri che a loro fosse parso assumer in compagnia. E ne' giorni seguenti, continuandosi le congregazioni, furono approvate le formule venute da Roma con facilità da' patriarchi e da' piú antichi arcivescovi. Ma venuto a' spagnuoli, furono poste difficoltà, e poi da' francesi molto maggiori. Fu opposto al passo che diceva: «Li vescovi tener luogo principale dependente dal pontefice romano», con dire che era forma di parlar ambigua e che conveniva parlar chiaro; e dopo longa discussione, si contentavano d'admettere che si dicesse principale sotto il romano pontefice, ma non dependente; alcuni anco repugnarono a quelle parole che li vescovi siano assonti dal papa in parte della cura, ma volevano dire che erano dati da Cristo in parte di quella, allegando il luogo di san Cipriano: «Il vescovato è uno, del quale ciascuno tiene una parte in solidum». E nel capo dell'autorità di pascere e reggere la Chiesa universale, allegando in contrario che quella era il primo tribunal sotto di Cristo, al quale ogni uno doveva esser soggetto e che Pietro istesso fu inviato alla Chiesa come a giudice, con le parole di Cristo: «Va dillo alla Chiesa; e chi non udirà la Chiesa, abbilo per etnico e publicano»; e si contentavano che si dicesse il pontefice aver autorità di pascer e regger tutte le chiese, ma non la Chiesa universale; che in latino faceva poca differenza di parole dal dire «universalem ecclesiam» al dire «universas ecclesias». E diceva Granata: «Io son vescovo di Granata et il papa è arcivescovo della medesima città», inferendo che il papa abbia la sopraintendenza delle chiese particolari come l'arcivescovo di quelle de' suffraganei. Et allegandosi per l'altra parte che nel concilio fiorentino era usata questa parola: «la Chiesa universale», si diceva in contrario che il concilio di Costanza e Martino V, nella condannazione degl'articoli di Gioanni Viglef, danna l'articolo contra il primato della Sede apostolica solo in quanto vogli dire che non sia preposta a tutte le chiese particolari. E qui fu introdotta anco disputa tra francesi et italiani, dicendo questi che il concilio fiorentino fu generale et il concilio di Costanza in parte approbato et in parte reprobato, e quello di Basilea scismatico; per il contrario sostentando gl'altri che il costanziense e basileense fossero concilii generali e che quel nome non poteva competere al fiorentino, dove intervennero solo alcuni pochi italiani e quattro greci. Non concedevano manco che il papa avesse tutta l'autorità di Cristo, eziandio con le restrizzioni e limitazioni come uomo e nel tempo della mortalità sua, ma si contentavano che si dicesse aver autorità pari a quella di san Pietro, il qual modo era molto in sospetto a ponteficii, che vedevano volersi far la vita et azzioni di san Pietro essemplare del pontefice, che sarebbe, come dicevano, ridurre la Sede apostolica a niente, la qual dicevano aver una potestà illimitata per poter dar regola a tutti gl'emergenti, secondo che i tempi ricchiedono, eziandio in contrario dell'operato da tutti li precessori e da san Pietro stesso; e le contenzioni sarebbono passate molto piú inanzi. Ma li legati, per dar qualche intermissione, a fine di mandar al pontefice, come fecero, la correzzione degl'oltramontani e ricever commandamento come governarsi, e tra tanto per metter a campo materia che facesse scordar questa, tornarono nella residenza, sopra la quale avendo Lorena e Madruccio composto una formula e presentatala qualche giorni inanzi a' legati, essi, senza pensar piú inanzi, l'approvarono; ma avendola poi consultata co' canonisti, non fu da quelli lodata una particola dove si diceva che i vescovi sono tenuti per divino precetto attendere e vegliare sopra il gregge personalmente; perilché dubitando che a Roma non avessero il medesimo senso, mutarono quelle parole, e cosí riformata la proposero in congregazione.

Di questa mutazione restarono Lorena e Madruccio offesi gravemente, parendo loro d'esser sprezzati, e Lorena diceva che per l'avvenire non voleva pigliare altro pensiero, né piú voleva trattar con prelati, ma attender a dir il suo voto con modestia, servendo però amorevolmente li legati, se avesse potuto, in qualche opera onesta. E Madruccio non restava di dire che vi era un concilio piú secreto dentro il concilio, che si attribuiva maggior autorità. Ma li legati, vedendo che ogni rimedio tornava in male, lasciarono di far congregazioni: né questo era a bastanza, perché i prelati facevano private congregazioni tra loro e li legati continue consulte. E l'arcivescovo d'Ottranto et altri aspiranti al cardinalato, dove tenevano certo arrivare se il concilio si separava, erano accordati d'opporsi ad ogni cosa per far nascer tumulto et appassionatamente andavano attorno, eziandio la notte, facendo prattiche e facendo sottoscriver polize; la qual cosa se ben quanto all'effetto piaceva a' legati, quanto al modo però alla maggior parte di loro dispiaceva, come di cattivo essempio e che poteva partorir gravissimo scandalo. Et anco nella parte contraria non mancava chi desiderava la dissoluzione; ma ciascuna parte aspettava l'occasione che la colpa fosse attribuita all'altra: onde li sospetti dell'una e l'altra parte crescevano.

Il cardinale di Lorena si doleva con tutti che si cercasse di sciogliere la sinodo e ne fece querele con tutti gl'ambasciatori de' prencipi, pregandogli di scriver a' loro patroni et operare che facessero ufficio col pontefice che il concilio proseguisse, che le prattiche fossero moderate e li padri lasciati in libertà: altrimenti in Francia si sarebbe fatto accordo che ogni uno vivi a modo suo sino ad un concilio libero, che questo non è tale, non potendosi né trattare, né risolvere, se non quello che a' legati piace, e li legati non fanno se non quello che il papa vuol; che egli averebbe con pazienza sopportato sino alla futura sessione, e non vedendo le cose andar meglio, farebbe li suoi protesti, e con gl'ambasciatori e prelati tornerebbe in Francia per fare un concilio nazionale, dove forse la Germania concorrerebbe; cosa che a lui sarebbe di gran dispiacere, per il pericolo che la Sede apostolica non fosse poi riconosciuta.

Andarono in quei giorni da Trento a Roma e da Roma a Trento frequenti corrieri, avisando li legati le frequenti contradizzioni che piovevano e sollecitando il pontefice la proposta de' canoni mandati. E li francesi in Roma fecero col papa la medesima querela che faceva Lorena in Trento, con le stesse minaccie di concilio nazionale e d'intervento d'alemanni. Ma il papa, solito sentirne spesso, disse che non si sgomentava di parole, non temeva concilii nazionali, sapeva li vescovi di Francia esser catolici e che la Germania non si sottometterebbe a' loro concilii. Diceva che il concilio non solo era libero, ma si poteva dir quasi licenzioso; che le prattiche fatte dagl'italiani in Trento non erano con sua participazione, ma nascevano perché li oltramontani volevano conculcar l'autorità ponteficia; che egli aveva avuto tre buone occasioni di discioglier il concilio, ma voleva che si continuasse, e sperava che Dio non abandonerebbe la sua Chiesa, et ogni tentativo contra quella promosso tornerebbe in capo degl'innovatori. In queste confusioni essendo partito il Cinquechiese per andar alla corte cesarea, per dar conto a quella Maestà delle cose del concilio e fargli relazione dell'unione de' prelati italiani, et essendosi scoperto che Granata e li suoi aderenti gl'avevano dato carico d'operare coll'imperatore che scrivesse al re Catolico sopra la riforma e residenza, acciò che essi potessero in quelle e nelle altre occasioni dir liberamente quello che dettasse loro la conscienza, credettero li legati che fosse conseglio di Lorena; e per dar qualche ripiego, pochi giorni dopo essi ancora spedirono all'imperatore il vescovo Commendone, con pretesto d'iscusare e render le cause perché non s'erano per ancora potute proporre le dimande di Sua Maestà, e gli diedero commissione d'essortar Cesare a contentarsi di ricercar dal pontefice, e non dal concilio, quei capi concernenti l'autorità ponteficia posti nelle sue petizioni, e con altri avvertimenti et instruzzioni che loro parvero opportune.

Ma essendo gionto a Trento Martino Cramero, vescovo di Varmia, ambasciatore del re di Polonia all'imperatore, in apparenza per visitare il cardinal varmiense, antico et intrinseco suo amico, ebbero gran sospizzione che fosse mandato da Cesare per informarsi e veder occultamente le cose del concilio e rifferirgliele. Questi tanti moti posero dubio negl'animi de' legati che il concilio non si dissolvesse in qualche modo che il papa et essi ne restassero con disonore, osservando che ciò era da molti desiderato, eziandio da alcuni ponteficii, e da altri a studio si procuravano disordini per giustificarsi, in caso che cosí succedesse. Mandarono a tutti gl'ambasciatori una scrittura contenente le difficoltà che vertivano e gli pregarono dar loro conseglio. Ma gl'ambasciaori francesi con quella occasione diedero per risposta quello che desideravano già piú giorni dire: che sí come il concilio era congregato per rimediare agl'abusi, cosí alcuni volevano servirsi d'esso per accrescergli; che inanzi ogni altra cosa conveniva ovviare alle prattiche cosí manifeste, che era intolerabile vergogna; che quelle levate e posto ogni uomo in libertà di dire il senso suo, s'averebbe facilmente in buona concordia convenuto; che il papa era capo della Chiesa, ma non però sopra di quella; che era per regger et indrizzar gl'altri membri, non per dominare il corpo, e che il rimedio alle differenze era seguir li decreti del concilio di Costanza, che avendo trovato la Chiesa disformatissima a punto per causa di simil openioni, l'aveva ridotta a termini comportabili. Poi aggionsero una delle cause di discordia esser che dal secretario non erano scritti fedelmente li voti, onde la parte che era maggiore pareva negl'atti la minore, e non si poteva aver per risoluto quello che era di parer commune, e però era necessario aggionger un altro, sí che doi scrivessero. Gl'imperiali li diedero il conseglio loro quasi l'istesso che i francesi, facendo maggior instanza per un aggionto al secretario. Gl'altri ambasciatori stettero sopra termini generali, consegliando la continuazione del concilio e la unione degl'animi.

In questo stato di cose arrivò in Trento il 29 di genaro il Vintimiglia, reispedito dal pontefice, il quale fece relazione della sua credenza a' legati, e poi col parer loro si diede a levar due openioni sparse per il concilio: l'una, che il pontefice fosse in stato di poter poco viver; l'altra, che desiderasse la dissoluzione del concilio. Testificò il desiderio di Sua Santità d'intender che, deposte le contenzioni, s'attendesse al servizio di Dio et a metter presto fine al concilio. Egli portò bolle d'ufficii e beneficii conferiti dal pontefice a' propinqui d'alcuni prelati, et un referendariato al secretario dell'ambasciatore portughese, et una pensione assai grossa al figlio del secretario spagnuolo, et ad altri varie promesse, secondo le pretensioni. Fece per nome del pontefice col cardinale di Lorena gran complementi, mostrando che in lui solo aveva la confidenza d'un presto e buon fine del concilio.

 

 




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