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Paolo Sarpi
Istoria del Concilio tridentino

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  • Libro ottavo
    • [Discorso del general Lainez a favor di Roma]
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[Discorso del general Lainez a favor di Roma]

Nella congregazione de' 15 giugno propose il cardinale Morone che fosse statuito il giorno determinato per la sessione a' 15 di luglio. Segovia con alcuni altri pochi disse che non vedeva come si potessero in cosí breve spacio di tempo risolvere le difficoltà che si avevano per le mani della ierarchia, dell'ordine, dell'instituzione de' vescovi, della preminenza del papa, della residenza, e che meglio era prima decider le difficoltà, che poi sempre si poteva statuire un breve termine al giorno della sessione, che prononciarlo, per dover poi allongarlo con indegnità. Ma essendo pochi quelli che contra dissero, la proposta fu stabilita quasi senza difficoltà. Ma il dí seguente il Lainez, general de giesuiti, nel voto suo s'indrizzò a risponder a tutte le cose che dagl'altri erano state dette, non ben conformi alla dottrina della corte, con affetto cosí grande, come se si fosse trattato della propria salute. Nella materia delle dispensazioni si allargò assai: disse irraggionevolmente esser stato detto non esservi altra potestà di dispensare salvo che interpretativa e decchiarativa, perché a questo modo maggior era l'autorità d'un buon dottore che d'un gran prelato, e che il dire che con la dispensa il papa non possi disobligar quello che appresso Dio è obligato, non è altro che insegnar agl'uomini il preferir la propria conscienza all'autorità ecclesiastica, la qual conscienza, poiché può esser erronea, e per il piú anco è, il rimettersi a quella non esser altro che profondar ogni cristiano in abisso de pericoli. Che sí come non si può negare che in Cristo non sia l'autorità di dispensare in ogni legge, né che il pontefice sia vicario di Cristo, essendo il medesimo tribunale et il medesimo consistoro del principale e del vicegerente, doversi confessare che il papa abbia la medesima autorità. Che questo era privilegio della Chiesa romana e doversi ognun guardare che è eresia il levar li privilegii di quella Chiesa, non essendo altro se non negare l'autorità che Cristo gl'ha dato. Passò anco a parlare della riforma della corte, e disse che, chi era superior a tutte le chiese particolari, era anco superior a molte radunate insieme, e se alla corte romana appartiene riformare ciascuna delle chiese che ha vescovo in concilio e nissuna di quelle può riformar la romana, perché non vi è discepolo sopra il maestro, né servo sopra il suo padrone, ne resta per necessaria consequenza che il concilio non abbia auttorità di metter mano in quell'opera. Che molti parlavano attribuendo ad abuso cose che, quando si essaminassero ben e si penetrasse al fondo, si ritroverebbono esser o necessarie overo almeno utili. Che alcuni pretendono di volerla ridur come nel tempo degl'apostoli o come nella primitiva Chiesa; ma questi non sanno distinguer li tempi, e che cosa convenga a questi e che convenisse a quelli. Esser cosa chiara che per divina providenza e bontà la Chiesa è fatta ricca: nissuna cosa esser piú impertinente da dire quanto che Dio abbia donato le ricchezze e non l'uso. Delle annate disse esser de iure divino che da' popoli siano pagate le decime e le primizie all'ordine ecclesiastico, sí come dal popolo ebreo a' leviti, e parimente, sí come li leviti pagavano la [decima delle] decime al sommo sacerdote, cosí aver l'istesso obligo tutto l'ordine ecclesiastico verso il papa: l'entrate de' beneficii esser le decime, l'annate esser le decime delle decime. Il discorso dispiacque a molti, e particolarmente a' francesi, e ci furono prelati che da quello notarono diverse cose con qualche pensiero di parlarne, se fosse nata occasione, quando fosse toccato loro a dire.

I spagnuoli e francesi tennero openione che quel padre avesse cosí trattato per ordine o almeno consenso de' legati, allegando per argomento li molti favori che da loro gli venivano in ogni occasione fatti, e specialmente perché, dove era solito che gl'altri generali nel dir il loro parere stassero in piede et a loro luogo, il Lainez era chiamato in mezo e fatto seder, e che piú volte s'era fatta congregazione per lui solo, per dargli commodità di parlare quanto voleva, e con tutto che nissun fosse mai gionto alla metà della prolissità sua, egli era lodato, e quelli contra chi esso parlò, non furono mai tanto brevi, che non fossero ripresi di longhezza. Ma il Lainez, saputa l'offesa che pretendevano aver avuto li francesi, mandò il Torre et il Cavillon, suoi socii, a farne scusa con Lorena, con dire che le redarguzioni sue non furono inviate a Sua Signoria Illustrissima, né ad alcuno de' prelati francesi, ma sí bene contra li teologi della Sorbona, le openioni de' quali sono poco conformi alla dottrina della Chiesa. Il che essendo riferito al cardinale in congregazione de' francesi tenuta in sua casa, l'iscusa fu da' prelati sentita con disgusto, e da alcuni di loro riputata petulante, da altri anco derisoria, e con maggior sentimento fu ricevuta da quei pochi teologi rimasti, di modo che sino l'Ugonio, che era comprato, la riputava incomportabile. Al Verdun pareva d'esser toccato singolarmente et esser in obligo di replicare, e pregò il cardinale che gliene dasse licenza et occasione: prometteva di parlare con modestia e mostrare che la dottrina della Sorbona era ortodossa e quella del giesuita nuova et inaudita; che mai per l'inanzi nella Chiesa era stato inteso da Cristo esser stata data la chiave d'autorità senza chiave di scienza; che lo Spirito Santo, donato per il reggimento della Chiesa, dalla divina Scrittura è chiamato spirito di verità e la sua operazione ne' governatori d'essa e ministri di Cristo esser condurgli in ogni verità. Che perciò Cristo ha partecipato a' ministri l'autorità sua, perché insieme gl'ha communicato il lume della dottrina. Che san Paolo a Timoteo, scrivendo d'esser constituito apostolo, si decchiara cioè dottor delle genti; che in doi luoghi, prescrivendo le condizioni del vescovo, dice che sia dottore. Che guardando l'uso della Chiesa primitiva, si troverà che per tanto li fedeli ricorrevano per le dispense e decchiarazioni a' vescovi, perché erano assonti a quel carico li piú instrutti nella dottrina cristiana che si ritrovassero. Che si poteva anco tralasciar l'antichità, imperoché li scolastici e la maggior parte de' canonisti hanno constantemente detto esser valide le dispense de' prelati, «clave non errante», e non altrimenti. L'Ugonio ancora si offerí trattare sopra quella asserzione che l'istesso sia il tribunal di Cristo e del papa, come proposizione empia e scandalosa, che uguagli l'immortale al mortale et il giudicio corrottibile al divino, e che nasceva da ignoranza, essendo il papa quel servo preposto sopra la fameglia di Cristo non per far l'ufficio di padre di famiglia, ma solo per distribuire a ciascuno, non arbitrariamente, ma quello che dal medesimo padre è ordinato. Che restava pieno di stupore che orrecchie cristiane potessero udire che tutta la potestà di Cristo sia communicata ad altra persona. Tutti parlarono, chi censurando una, chi un'altra delle asserzioni del giesuita. Ma il cardinale gli considerò che non si sarebbe fatto poco, ottenendo che ne' decreti publici del concilio non fosse aperto adito a quella dottrina, et a questo tanto conveniva che tutti mirassero; al qual fine piú facilmente sarebbono pervenuti passando le cose con silenzio e cosí lasciandole andar in oblivione; che, contradicendole, averebbono fatto qualche pregiudicio alla verità. Si quietarono, ma non sí che ne' privati congressi non se ne parlasse assai.

 

 




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