CAPITOLO X
Tosto che Marco ebbe visto Ottorino entrar nella camera dove
stava soletto leggendo alcune carte, si levò in piedi e andandogli incontro
cortesemente: - Già tornato? - gli disse, - e così, come vanno le faccende a
Monza?
- Tutti malcontenti, - rispose il giovane, - ma nessuno osa
levare il capo per paura del duca di Tech.
- Con chi hai parlato?
- Coi capi di parte guelfa che mi avete indicati, con Guzino
Gavazza, con Moneghino Zeva, e con Berusio Rabbia; quest'ultimo, come prima il
possa senza dar ombra, verrà a Milano per conferire con voi il da farsi.
- E del popolo, che novelle mi dài?
- Pessime: informi quel vostro prete Martino, che avete
mandato colà a far l'apostolo: egli è uscito vivo per miracolo dalle unghie di
quel valentuomini ch'ei s'era messo a catechizzare.
- Così fanatici per l'antipapa Nicolò?
- Non è che tengano piuttosto da Nicolò che da Giovanni;
sono una mano di ribaldi, che voglion pescar nel torbido e null'altro; - e qui
Ottorino si fece a raccontare tutto quello che era accaduto nella chiesa di
Monza.
- Canaglia! - ripeteva Marco sorridendo in udire quelle
belle prodezze - canaglia! ma già sempre così, dappertutto così; basta; adesso
quel che mi preme è di scompigliar la matassa, d'arruffarla ben bene; la
ravvieremo poi a suo tempo. Dunque quel povero Martino...
- Vi do parola che gli hanno cavata la voglia del predicare,
e che n'ha a avere un ricordo per un bel pezzo.
- Per altro, - ripigliava Marco, - anch'egli m'ha avuto
alquanto dello scimunito, a dir quel ch'è da dire: fa bisogno d'aver i capelli
bianchi per saper che il popolo che si leva è una mala bestia? e che il manco
che possa è dar di mano nella roba? Lasciarlo fare! diavolo! lasciarlo fare! è
poi sì gran male che di tanto in tanto torni in tasca della povera gente in
forma di marchi, di terzuoli e di lire imperiali un po' di quell'oro e di
quell'argento che si va ammucchiando, ammucchiando per le sagrestie in forma di
lampade, di candelieri e di croci? che non si possa esser buoni cristiani ed
aver delle lampade di vetro o di terra, e delle croci e dei candelieri di
legno? alla fin delle fini, tutto quell'oro e quell'argento dond'era uscito?
domando io: dalle tasche della povera gente. Quel che mi preme si è che non
siano attaccati di cuore allo scisma.
- Quanto a questo, state quieto, che non sanno, mi penso io,
che cosa sia nè papa nè antipapa: volete altro, che dopo d'aver malconcio quel
povero Martino che predicava per Giovanni contra Nicolò, cominciavano a far
altrettanto con un secondo che s'era levato a predicar per Nicolò contro
Giovanni? Era un montanaro venuto da Limonta insieme col conte del Balzo, e se
non giungo a tempo me l'acconciano anche quello pel dì delle feste.
- È venuto dunque il conte del Balzo?
- Siamo arrivati insieme poco fa.
- Vedi che la ricetta che t'ho suggerita ha fatto buona
operazione: ora ch'egli è qui, mio danno se non lo metto a guadagno; bisognerà
che cominci... fa una cosa... egli ha con sè tutta la famiglia, è vero?
- Sì, tutta la famiglia.
- Domani fo un po' di convito cogli amici; non potresti
acconciarti di venirci con lui?... Ermelinda... certo non posso sperare di
vederla, ma... quella Bice di cui m'hai detto miracoli, se tu avessi modo di
recarla a tener compagnia a suo padre...
Ottorino, che non avrebbe saputo chieder di meglio, sicuro
come si teneva che se il suo signore faceva tanto di veder l'amata fanciulla
gli avrebbe agevolmente scusato il rifiuto della figlia del Ruscone, promise
tosto di far ogni cosa per obbedirlo.
L'altro dì di buon mattino egli fu dal Conte a significargli
che Marco l'aspettava quel giorno in compagnia di Bice; e lascia fare a lui a
fargliela cader da alto; che quella era una distinzione, un favore che gli
avrebbe dato un gran credito in Milano, e che non v'era via da esentarsene.
Ermelinda, alla quale il Conte partecipò la cosa come già
bell'e stabilita, non ebbe essa pure che potervi opporre. La fanciulla potea
dirsi fidanzata d'Ottorino, il quale l'avea richiesta formalmente; ed era
naturale e giusto che il giovane desiderasse di presentarla al suo signore,
perchè volesse gradir quel parentado, e fosse contento che per esso venisse
tolto di mezzo quel qualsivoglia impegno antecedente a cui egli medesimo avea
avuto mano. Con tutto ciò la donna, nel figurarsi la sua figlia al cospetto di
Marco, palpitava d'un arcano spavento nudrito di memorie e di presentimenti; e
quando ne diede licenza a Bice, la quale mostravasi essa pure tutta conturbata
per quanto avea inteso raccontar di quell'uomo, le parve di dare una sentenza
che avesse a decidere del destino de' suoi giorni: nel vederla partire gli
occhi le si empierono di lacrime.
Stavasi Marco Visconti in una sala del suo palazzo in mezzo
a una corona dei più ragguardevoli giovani di Milano, aspettando l'ora del
pranzo. Sempre splendido nell'onorare amici e signori, in quel tempo avea
raddoppiato di magnificenza fino al fasto e alla prodigalità, per farsi dei
parziali, per dar nell'occhio alla moltitudine che si lascia agevolmente
abbagliare da tutto quel che luce. Notano gli storici che nella sontuosità
delle feste e dei banchetti, nello sfoggio degli abiti e dei cavalli, nella
pompa della famiglia di donzelli, di paggi e di scudieri, si lasciava indietro
d'assai lo stesso suo nipote Azzone creato signore di Milano.
Uno dei principali personaggi di quel crocchio era Lodrisio
Visconti, fratello dell'intruso abate di Sant'Ambrogio, il consigliere più
ascoltato che Marco s'avesse, l'istigatore suo in tutti quei segreti maneggi
che avea avviati: uomo di bell'aspetto, di forse quarant'anni, valoroso della
sua persona, ma uno spirito turbolento, irrequieto, che avea già fatto parlar
di sè quel che sta bene, ch'era destinato ad acquistar dappoi una celebrità
troppo vituperosa. Costui odiava da un pezzo Ottorino, e per l'invidia del
vederlo prediletto da Marco, sul cui animo avrebbe voluto dominar solo, e per
certi litigi che avea avuto col giovane cavaliere, come parenti ch'erano, a
conto della successione del feudo di Castelletto sul Ticino, il quale da ultimo
era toccato ad Ottorino. Marco avea cercato di racconciarli: già da qualche
tempo parevano un po' abbonacciati: Lodrisio però non avea deposto l'antico
rancore, e stava sempre alle vedette per cogliere il destro di poter perdere il
suo rivale.
Un paggio annunziò l'arrivo del conte del Balzo: tutti gli
occhi si rivolsero verso l'uscio, ed ei fu visto entrare tenendosi per mano la
figlia. Marco corse loro incontro tutto turbato; chè al primo apparir di Bice,
la quale veniva innanzi cogli occhi bassi, col volto sparso di modesto rossore,
credette di veder la madre di lei, di veder Ermelinda viva e vera, e se gli
rimescolò a un tratto il sangue. Non ne diede però segno, accolse il padre con
cortese dignità, con un volto degnevole, con uno sguardo che accarezzando si
facea riverire, e fece alla figlia ogni onore che s'addicesse a gentil
donzella, intrattenendola in lieti ragionamenti finchè non entrarono i paggi ad
annunziare che le mense eran poste. Passarono allora tutti in un'altra sala:
Marco si fece seder Bice alla destra, il conte del Balzo dall'altra mano, e
tutta la brigata prese posto intorno alla tavola.
Non ci intratterremo a divisare l'ordine e il magistero di
quel banchetto, che non avea certo la sontuosità dei banchetti che solevan
darsi allora in occasioni solenni di corti bandite, ma con tutto questo era
tale, che ai nostri giorni potrebbe far onore a qualunque più ricca e sfoggiata
corte d'Europa.
Finissime tovaglie e tovaglioli con ricami e frangie e
nappini e l'impresa del biscione nel mezzo, vaselli preziosi, sfolgoranti
piatti d'argento e d'oro, vivande d'ogni ragione regalate di saporetti
capricciosi a vari colori, pesci addobbati d'oro, pavoni studiosamente
rivestiti delle loro penne e con tanta maestria atteggiati da parer vivi, che
si vedevano in un punto sotto il coltello degli scalchi nudarsi e fumare,
uccellami e salvaggiumi, un orsacchino coi peli sottilmente inargentati, colle
unghie e i denti d'oro e il fuoco in bocca. Ad ogni servito si davano acque
odorose alle mani, e si mesceano vini squisiti in bellissimi calici effigiati
di metalli preziosi, in eleganti nappi di cristallo dipinti a fiori, ad
animali, a reticelle.
Quando i commensali furono all'ultimo bere, entrarono nella
sala dodici donzelli coi farsetti e colle calze divisate a due colori rosso e
bianco, recando i doni della festa. Quale teneva a lassa una coppia di
levrieri, di bracchi o di segugi, coi collari di velluto trapunto, cogli
accoppiatoi e i guinzagli di marocchino fiorato; quale avea in pugno nobili
astori e sparvieri e sagri e randioni addestrati a varie cacce, coi geti rossi,
le lunghe bianche, i cappelli ricamati di perle, i sonaglini d'argento e una
piastra pure d'argento in petto e suvvi il biscione; quale avea una spada
coll'elsa dorata; quale una barbuta d'acciaio; altri mantelletti e sopravvesti
di sciamito rilevato, colle funicelle di seta, i bottoncini di perle e le nappe
d'oro 1.
Marco, all'arrivar dei paggi coi doni, s'accorse che non
v'era nulla di che poter presentare una gentil donzella; e chiamò a sè con un
cenno un suo scudiere, il quale allontanatosi un momento dalla sala, ricomparve
portando una corona di perle s'un bacile d'oro. Allora il signore si levò in
piedi, prese la corona colle due mani, piegò un ginocchio innanzi a Bice, poi
rilevandosi gliela posò gentilmente sul capo, dicendo: - Dio salvi la regina
del convito, - e tutti i commensali risposero con un grido d'applauso.
Ciò fatto, pregò la fanciulla che volesse, ripetiam le sue
parole: - render graziosi que' suoi poveri doni, offerendoli ella di sua mano
ai cavalieri e al baroni che gli avean fatto onore -. Bice sorse in piedi, e
tutti i commensali fecero altrettanto. Marco medesimo, servendola da scudiere,
la guidò a fare il giro delle mense, e riceveva dalle mani dei paggi, e porgeva
a lei cosa per cosa, ch'ella con bel garbo offeriva di mano in mano a quello
cui si trovava dinanzi, intanto che il presentato riceveva la cortesia con un
ginocchio in terra, baciando il lembo della veste alla bella donatrice. Ad
Ottorino toccò un elmo d'acciaio col cimiero smaltato, e vi fu alcuno che notò
come alla vaga regina tremasse la mano più del solito nell'offrirglielo; ma la
si diede che il peso di quell'arme fosse soverchio al braccio troppo delicato
d'una donzella.
L'ultimo a ricevere il dono fu il conte del Balzo, per cui
Marco avea serbato un superbo falcon pellegrino. Lo ricevette anch'egli con un
ginocchio piegato, dalle mani della figliuola, le baciò, come gli altri, il
lembo della veste; ma nel levarsi in piedi non potè contenere l'impeto della
sua paterna consolazione, e gettandole al collo le braccia le fece un bacio
sulla fronte, dicendole: - Figliuola mia, Iddio ti benedica! - al che si levò un
nuovo grido d'applauso per tutta la sala.
Quando il rumore fu quieto, Marco disse alla fanciulla: -
Bellissima e umanissima regina, sarò io il solo fra tutti questi vostri fedeli
che debba rimanermi senza un vostro favore? se la mia domanda non è troppo superba,
potrei sperare d'ottenere dalle vostre mani un nastro, una cordellina, un filo,
un segno qualsisia che m'avete accettato per vostro vassallo?
La donzella restò tutta confusa e quasi adombrata, ma il
padre di lei: - Presto, - le disse, - staccati di dosso qualche cosa... qualche
cosa, via... una di codeste maniglie. - Ella obbedì, si sciolse dal polso
sinistro una fettuccia di seta trapunta d'oro: Marco piegò il ginocchio e la
ricevette dalle sue mani.
Levate che furono le mense, la brigata si divise in vari
crocchi, e si diede a ragionare delle novità del giorno: essendosi gettato un
motto di papa e di antipapa, il conte del Balzo s'impadronì tosto della
ringhiera, ed ebbe campo di sciorinar tutto il suo latino, di metter fuori
quanta dottrina canonica avea nella pelle; e quei giovinotti, che non sapevano
più in là della loro spada e del loro cavallo, strabilivano di quella sua
mirabile erudizione: ma alla lunga poi uno si stanca di ammirare; anzi non v'ha
forse cosa che venga sì presto a noia, massimamente quando l'ammirazione è
tutta a credenza. Gli ascoltatori s'accorsero d'aver anch'essi la lingua, e
cominciarono un di qua, l'altro di là, a staccarsi dal circolo fatto intorno al
dicitore, tanto che l'udienza si ridusse a tre o quattro, e questi pure il
primo momento che il Conte ebbe a far pausa, svignarono con bella maniera e
andarono ad unirsi ad un nuovo crocchio che s'era formato di tutti i disertori
di quel primo.
Ivi si parlava d'una giostra stata bandita quel giorno per
festeggiare l'elezione di Azzone Visconti in vicario imperiale. Dopo molte
interrogazioni e molte risposte, Lodrisio, trattosi di seno un foglio di
pergamena: - Ecco qui, - diceva, - ecco il cartello tal quale è stato gridato
dal banditori.
Tutta la compagnia gli si affollò d'intorno, ed egli
cominciò a leggere:
«Ora udite, Messer principi, baroni e gentiluomini, che vi
fo assapere il grande e degno perdon d'armi, il bagordo e la giostra che si
terranno a Milano di Lombardia da qui a un mese dalla data delle presenti.
«Per fuggir ozio, esercitar la propria persona ed acquistare
onore nel mestier dell'armi, e la grazia delle bellissime e nobilissime donne,
di cui siamo servitori; e insiememente per mostrare il tripudio della città e del
contado, a cagione della nomina del Magnifico ed Illustre Azzone Visconti in
vicario imperiale, noi cavalieri qui sotto nominati abbiam votato un'impresa di
tener un bagordo e una giostra: dove risponderemo dal levare al tramontar del
sole ad ogni cavaliere milanese o forestiero debitamente qualificato.
«Nota delle imprese.
«Prima impresa a cavallo nella lizza, quattro colpi di
lancia, e uno per la dama.
«Seconda impresa, a colpi di spada a cavallo, ad uno ad uno,
a due a due, o tutti insieme secondo il buon piacimento del maestri del campo.
«I tenitori forniranno le lancie di uguale lunghezza e
grossezza, e le spade a scelta degli assalitori.
«Se alcuno dà al cavallo sarà messo fuori delle file.
«Chi avrà rotto più lance, e fatto meglio, avrà il premio
d'un'armatura.
«Saranno tenuti gli assalitori di venir a toccare uno degli
scudi appesi in capo alla lizza, o molti d'essi, a loro scelta, o anche tutti
se vogliono, ivi troveranno un ufficial d'armi che li riceverà per arrolarli.
«Saranno altresì tenuti gli assalitori di apportare o far
apportare da un gentiluomo ai detti ufficiali d'armi i loro scudi colle proprie
imprese ed armi per appenderle, prima di cominciar la giostra, dove si è detto
di sopra, e in caso che non vi siano appese nel tempo debito, non saranno
ricevute senza il consenso dei tenitori, e dell'Illustre e Magnifico Messer
vicario imperiale.
«E per segno di verità abbiamo scritto il nostro nome».
Qui il leggitore si arrestò. - E le soscrizioni? - disse più
d'uno: - vediamo, vediamo.
- Ecco anche le soscrizioni:
«Sacramoro Liprando.
Ottorino Visconti.
Bronzin Caimo.
Pinala.
Pietro Meraviglia.
Un Tanzo.
Due Biraghi.
Due Bossi.
Bertone Cacatossici.
Lorenzuolo da Landriano.
«Dato in Milano di Lombardia. Anno Domini. 1329, il mese...
e il giorno...», volete altro?...
Il conte del Balzo, che in tutto il tempo del banchetto,
ammaliato e tenuto in soggezione dalla maestà naturale del volto e delle
maniere di Marco, non avea fatto altro che rispondere poche parole, mal
infilzate, alle domande che il padron di casa gli dirigeva a quando a quando;
ora che si trovava lontano da lui, che era uscito, dirò così, dall'orbita della
sua azione, messo in vena per gli onori resi alla figlia, per l'attenta udienza
che era stata data tanto tempo al suo primo discorso, non poteva tenersi nella
pelle, e appena si accorse che la lettura era finita, sporgendo innanzi il capo
fra il crocchio dei giovani ch'erano stati attenti a quella:
- Qui si parla di tornei e di giostre, è vero? - disse con
quell'interrogare che non vuole una risposta, e non è altro che un appicco per
mettersi in un discorso già avviato. - Sapete quel che vuol dir giostra? ve lo
dirò io: giostra vien da iuxta, da presso, perchè è un combattimento che si fa
da vicino, a corpo a corpo.
- E chi saranno i giudici della lizza? - domandò allora uno
della brigata, che non parea curar più che tanto quella erudizione.
Ma il Conte senza lasciar tempo alla risposta tirava
innanzi: - Ed è antichissimo, vedete, l'uso delle giostre, antichissimo; fin
dai tempi della guerra di Troia, che verrebbe a dire più in là un pezzo della
Tavola rotonda e del re Arturo; ed è per questo che noi la chiamiamo Troiae
ludus, che vuol dir giuoco di Troia, e anche guerra di Troia, perchè i Romani
chiamavano ludus anche la guerra, come che fosse un giuoco.
Nessuno fiatò, ma il dicitore dal volto e dal fare de' suoi
ascoltanti dovette accorgersi tosto che non si prendevan troppo piacere dello
studio delle etimologie, e che però gli conveniva mutar la danza; cominciò
dunque a far da dottore in materia d'armi e d'abbattimenti; materia a cui parea
volgersi da sè stesso il discorso. E lì sfoderò le più rugginose cosacce sul
modo da comportarsi in un passo d'armi, o in una giostra; insegnò come il
cavaliere si debba tener sulle staffe; come abbassare e arrestar la lancia,
come maneggiarla, come schivare un fendente o una puntata; citò molti autori,
allegò vari casi, infine ne disse tante e tante da passar per un valente
giostratore presso un erudito, e per... non dirò altro, per un erudito presso
le persone del mestiere, come erano appunto tutti quei giovinotti, i quali di
tanti in tanto si guardavano in viso alla sfuggiasca ridendo sotto i barbigi.
È la maledizione degli uomini che sanno tutto; non c'è verso
che vogliano averla quella discrezione, quella cautela benedetta di non parlar
che d'una cosa cogli ignoranti, i quali non sanno che quella poca.
Marco non s'era mai staccato dal fianco di Bice, colla quale
s'intratteneva con onesta affabilità. Quando, fattasi ora tarda, il padre gli
si presentò innanzi per pigliar buona e grata licenza, egli accompagnò la
donzella fin sul limitare della sala, dove lasciandola in man di lui, gliela
lodò soprammodo, e fattogli maravigliose carezze, accomiatollo col dirgli - che
ormai sperava che colla sua frequenza avrebbe ristorato il tempo troppo lungo
che non s'eran più scontrati. -
Il Conte uscì di là tanto inebbriato, che non toccava terra.
Appena giunto a casa raccontò alla moglie del grande onore che era stato reso a
lui e alla figliuola, ed Ermelinda se ne sentì consolare, non dubitando che
Ottorino avesse parlato a Marco delle sue nozze con Bice, e che le gentilezze
fatte da quest'ultimo al Conte e alla figlia fossero segno del suo gradimento.
Poco dopo capitò Ottorino medesimo, tutto giubilante
anch'egli, che non si può dir di più: entrato a parlare delle letizie di quel
giorno, s'accorse come il Conte e la Contessa tenessero che Marco avesse già
dato effettivamente il suo consenso; nè egli si curó di cavarli da
quell'opinione. Dopo le accoglienze, di cui era stato testimone, reputandosi
troppo sicuro del fatto suo, si risolveva a far, colla prima opportunità che
trovasse solo il suo signore, quello di che erasi peritato in mezzo a tanta
brigata. Passò dunque sicuramente a trattar coi parenti di Bice delle nozze
come di cosa vicina; e in poche parole s'accordò ogni cosa.
Allora il Conte fece d'occhio alla moglie, poscia volgendosi
a Bice, la quale a quel discorso s'era ammutolita e non ardiva pur levar il
capo: - Senti un po' qui, - le disse con un volto ridente tra il goffo e il
malizioso, che soleva fare allorchè stava per buttar fuori qualche bel motto, -
senti un po': noi abbiamo fatti i conti senza l'oste, t'abbiam promessa senza
domandartene il consenso, chè forse tu sei lontana le mille miglia d'aver il
capo a codeste frasche?
Bice si fece rossa come una bragia; prese per una mano la
madre, e non rispose parola.
Ma Ermelinda fece segno al Conte che cessasse la burla: poi
disse ad Ottorino con un sorriso: - Quantunque le sian faccende codeste dove
non può il mandato, voglio che per ora siate contento del sì che vi dice la
madre per lei.
A questo il giovine prese licenza: la fanciulla vedendolo
partire, levò il capo, e senza lasciar la mano della madre, gli disse: - Domani
verrete, è vero?
- Ah, ah! la c'è cascata; la c'è cascata la ritrosetta, -
gridò il Conte sganasciandosi dalle risa: - vedi, se la par quella! eh? che
l'avresti scambiata per una santa Lucia! Ah mozzina! mozzina!
Il giovane partì, ed esso, e chi si rimase, contenti tutti
come pasque.
|