CAPITOLO XXI
Il Conte assegnò al pievano di Limonta una camera a parte, e
volle che sedesse ogni giorno alla sua mensa: chiamò pure in famiglia la moglie
del barcaiuolo, la nostra Marta, la quale fu allogata nel quartiere occupato da
Ambrogio, dov'ella accudiva alle faccende della casa in compagnia di quattro o
cinque altre donne fatte venire apposta per quella straordinaria manifattura di
rizzare ed acconciar letti, far bucati, cuocer minestre, rigovernare stoviglie
per tanta gente.
La povera donna, in mezzo a quel gran da fare, era sempre
col pensiero fra le sue montagne, non le si toglieva mai dalla mente il piano
limpido e vasto del lago, la striscia argentina, serpeggiante fra i massi, del
fiumicello, ch'era solita mirare da una finestra: ogni mattina destandosi si
figurava di trovarsi nella sua capanna, di veder quelle brune sue muraglie, il
desco che vi sorgeva nel mezzo, quei remi coricati per terra, quelle seggiole,
quel letticciuolo... e insieme a tutte quelle care e pur dolorose memorie,
un'altra ne sorgea mai sempre, più cara, più dolorosa di tutte: dolorosa ahi
troppo! assiduamente, indicibilmente dolorosa al cuore d'una madre; ma non era
più quello spasimo, quel coltello dei primi giorni: il tempo, l'umile
confidenza nel Signore, aveano sparso qualche balsamo sulla sua ferita; il
trovarsi ora la poveretta vicina al suo Michele, dopo d'aver palpitato in
segreto d'esserne divisa, il potergli prestare ella di sua mano i servigi
consueti, l'adoprarsi che faceva anche per gli altri suoi compatriotti, colla
pia persuasione di concorrere anch'ella, come poteva, alla difesa del proprio paese
e della fede; tutto questo le dava un certo riposo al cuore, nuovo, nuovo
affatto dopo il tremendo giorno della sua disgrazia: essa trovava pure nella
faccenda di tutto il giorno, sentiva, dirò così, uscir dalla fatica, dalla
stanchezza medesima delle membra, un ristoro inusato, una tal quale placida
malinconia che avea pure qualche dolcezza: pregava, e la sua preghiera era più
molle, più affettuosa; piangeva, e il pianto non era arido come prima; le
lagrime le scorreano placide ed abbondanti, e parea che le togliessero un peso
dal cuore. che la ristorassero tutta quanta.
La buona vecchia si strinse tosto in molta dimestichezza
colla famiglia del falconiere: Marianna, Ambrogio, Lupo e Lauretta le avean
posto amore, e la riguardavano come una parente, ed ella non restando mai dal
trafficare per casa per ammannire, per governare, per dar sesto dove bisognava,
parlava pur sempre delle sue montagne, del suo lago.
Solo con Bernardo non potè mai dirsela: quel lasagnone non
aveva rimesso un punto della sua caparbietà nel favorire il Bavaro e
l'antipapa; non usciva di casa per non rischiare di farsi rompere il capo in
grazia di quelle dottrine che non eran più all'usanza, ma nell'interno della
famiglia non restava mai di borbottare, di tempestare, di tribolare or questo
or quello, e l'ospite limontina non era risparmiata più degli altri nelle sue
ire dottrinali, nelle sue scismatiche fantasticaggini.
Intanto giugnevano le novelle dell'esercito del Bavaro che
veniva innanzi: erano due, tre, quattromila barbute; e un numero infinito di
pedoni: Cane della Scala mandava in suo aiuto quattrocento militi; molti
signori ghibellini di varie città di Lombardia, molte fra le più potenti
famiglie di Milano stessa aveano levato lo stendardo, ed accorrevano coi loro
vassalli in aiuto dell'imperatore: le sue forze erano enormi, gli apparecchi
per l'assalto spaventosi.
Fu allora che giunse da Lucca il Pelagrua, e, conferito
segretamente con Lodrisio, corse a munire il castello di Rosate: poco dopo
arrivò un altro corriere con lettere pel Vicario, e si sparse la novella che
Marco era signore di Lucca e del suo territorio. La festa che se ne fece in
Milano è più facile immaginarsela che descriverla; si tenea per fermo che quel
singolare avvenimento fosse l'effetto di una trama ordita di lunga mano coi
guelfì di Toscana affine di pigliar il falso imperatore nel mezzo; e questa
opinione giovò ad accrescere sempre più la confidenza e il coraggio de'
Milanesi.
Passa un giorno, ne passano due, ne passano tre, giungono da
Monza gli avvisi che il Bavaro v'era giunto dinanzi, e che gli erano state
chiuse le porte in faccia: si esercitano giorno e notte le sentinelle e le
ronde, sono disposti esploratori e drappelli di truppa di luogo in luogo,
giorno e notte si lavora a furia a compier le macchine e le fortificazioni:
vengono oggi, vengon domani; ed ecco il ventun di maggio comparir da lontano
gli stendardi imperiali; ecco una infinità d'uomini e di cavalli, un traino
maraviglioso di carriaggi e di salmerie.
In quel tempo Milano era compresa entro il giro d'una fossa
stata già scavata più d'un secolo e mezzo prima, per fortificar la città contra
Federico Barbarossa, che è la fossa medesima nella quale, molto tempo dopo
quello in cui ci troviamo colla nostra storia, vennero introdotte delle acque
navigabili, e prese il nome di Naviglio. Dove al dì d'oggi sono i ponti,
allora, voglio dire nel 1329, erano le porte principali e le postierle della
città.
L'imperatore pose dapprima il campo al ponte dell'Archetto,
poscia si avanzò verso la postierla di SantAmbrogio, ed egli colla sua corte
prese ad abitare il monastero di San Vittore, che rimaneva fuori del recinto
della città, giusto dirimpetto alla detta postierla. I Milanesi assediati
vedevano nella notte risplendere di molti lumi quel vasto edifizio, udivano il
rumor dei banchetti che il Bavaro vi tenea, e s'ingegnavano di gettarvi dentro
qualche sasso col mezzo d'una petriera che avean piantata sulla cima di quella
torre che sorge ancora a canto al ponte di Sant'Ambrogio, gridando quanto ne
usciva loro dalla gola queste strane parole conservate dal Fiamma, o glabrione
ebriose, bibe, bibe, ho, ho, babii, babo3.
Il maggiore sforzo dell'imperatore in quell'assedio fu
diretto contra il borgo di Porta Ticinese, sperando che, ove gli venisse fatto
d'impadronirsi dei molini che ivi eran fabbricati, la città sarebbe stata
costretta ad arrendersi per la fame; ma quella parte, per avviso appunto di
Marco, era stata fortificata più d'ogni altra: vi seguirono molti fatti d'arme,
e i nostri, non che ne potessero mai venire sloggiati, ottennero sempre
vantaggio sugli assalitori4.
L'assedio durava da più d'un mese, quando fu dato avviso a
Lupo da certi capitani, che la notte sarebber entrate dalla postierla d'Algiso
alcune vettovaglie di che la città cominciava a provar difetto: stesse egli
sull'avviso di far calare il ponte tosto che ne avesse i segnali concertati.
Lupo era stato creato capo dei Limontini, e posto a guardia di quella
postierla, dacchè le lance del monastero di Sant'Ambrogio erano state levate di
là e messe in una torre appunto nel borgo di Porta Ticinese, dov'era maggior
bisogno di gente disciplinata e avvezza al mestiere dell'armi.
Vien la notte: i nostri montanari erano sparsi lungo il
terrapieno che tirava verso Porta Comasina; Lupo stava in cima della torre a
canto della postierla guardando; dopo molto aspettare vide finalmente comparire
un lume sul campanile del convento di San Simpliciano: era il segnale inteso,
al quale s'affrettò di rispondere schiudendo una lanterna cieca, e posandola
per un momento fra due merli della torre; ciò fatto, cala giù nell'altro piano
ove dormiva Ambrogio suo padre, Michele il barcaiuolo, e quattro altri
Limontini, e dice loro: - Su, che siamo a tempo. - I chiamati si levano, corrono
alle feritoie, stanno in orecchi: tutto tace da quella banda, e non s'ode che
il rumor dei passi di due sentinelle che vegghiavano al basso della torre. Di
lì a qualche tempo si fa sentire un fragor sordo che viene innanzi, è un fragor
di ruote e di cavalli.
- Diavolo! - disse Lupo, - par che sia un carro.
- È un carro senza dubbio, - rispose Ambrogio.
- Che animali di villani! - riprese Lupo, - c'era mo
necessità di venir con un carro e far tanto fracasso? non potevan portarla a
spalle la roba? o alla peggio caricarne dei muli?
L'aria era buia, sicchè la vista non potea tirare più d'un
venti passi: un uomo s'avanza sull'orlo della fossa, batte tre volte le mani
con una certa misura, e dice: - Sant'Ambrogio.
- Per chi? - gli domandò Lupo.
- Per Luchino e pel paese, - replicò il primo.
- Il segnale è quello; - disse sommessamente il figlio del
falconiere, e levando poi la voce un po' più: - Perchè venir con un carro e
rischiare di farsi cogliere dalle ronde tedesche?
- È fieno per le stalle del Conte, - rispose ancora quel da
basso.
Fu calato il ponte levatoio e quattro cavalli che tiravano
un carro di fieno vennero innanzi fin sotto l'arcone, tanto che la prima coppia
toccava col muso la saracinesca abbassata: ad una voce del capo dei Limontini
la saracinesca alzossi, e scorrendo fragorosa e sonante fra le scanalature dei
due pilastri incapati di fianco, s'andò a nascondere su per la volta: allora
l'uomo che guidava il carro fece fare alcuni passi ai cavalli, poi gli arrestò
con non so che scusa. - Innanzi! - gli gridò Lupo; ma quegli invece di obbedire
diede un fischio, e una frotta di soldati, uscendo di dietro la chiesa di San
Marco dov'erano appiattati, corsero di galoppo a quella volta.
- Giù il cancello! giù il cancello! - gridò Lupo. Si levano
i contrappesi, la saracinesca piomba, ma nel cadere incontra il carro di fieno
che v'era sotto, e riman sospesa in alto. - Leva il ponte! - Non si può più
levare; v'è al di fuori chi lo tien giù con funi e puntelli.
- Tradimento! tradimento! Ambrogio, Michele, Limontini,
tradimento!
Il guardiano della torre mette a bocca un corno, e chiama
soccorso; gli sparsi lungo lo steccato accorrono da tutte le bande: le due
sentinelle, il falconiere, il barcaiuolo, quattro o cinque altri, si mettono
tosto al lati del carro, e menando colpi alla cieca riescono a tener indietro
alcuni pedoni che facean forza d'entrare: nello stesso momento Lupo balza
addosso ai cavalli attaccati al carro e li tempesta col tronco d'un'asta, e li
ferisce colla punta, e gli inanima e gli spaventa colla voce: quelli puntando,
facendo arco delle schiene, piegandosi colla pancia per terra, giungono a
smovere tanto o quanto il carico ad onta della resistenza che vi opponevano le
enormi barre di ferro affondate nel fieno che avea acconsentito al peso: gridò
ben egli, il figlio del falconiere, due o tre volte ancora, che si sollevasse
il cancello per un momento tanto da poter dispacciare il carro che passasse
innanzi; ma in quella confusione, in quel parapiglia, con quel baccano, la sua
voce non fu intesa. Intanto i cavalli alamanni giungono a furia, il ponte
risuona sotto le zampe ferrate, già alcuni son penetrati sotto la vôlta, dov'è
un buio, uno scompiglio, un gridare, un ricambiar di colpi spaventoso: se non
che in mezzo a quel fracasso si distingue ad un tratto un fragore di ferriere
scorrenti, quindi s'innalza uno strido acutissimo di dolore. Un ultimo sforzo
avea in quel punto liberato il carro di sotto al peso che lo teneva impacciato,
e la saracinesca cadendo era venuta addosso ad una barbuta alamanna che vi si
trovava sotto.
Comparvero alcune fiaccole a rischiarare quella scena di
terrore: cinque o sei cavalieri tedeschi, che erano già trascorsi oltre,
vennero uccisi dai nostri, e sotto l'arco del ponte si cominciò un accanito
combattimento fra quei di fuori che a forza di leve volevano rialzare la
saracinesca e quei di dentro che facevano ogni sforzo per impedirli: ferivansi
gli uni e gli altri a furore con picche e spiedi e zagaglie, che si vibravano
fra i bastoni ripigliati dall'enorme cancello che divideva le due parti; ma gli
Alamanni avean la peggio, impediti, com'erano, dagli spuntoni di che dalla loro
banda erano armate le traverse, spuntoni sui quali venivano spesso a percuotere
e ad infilzarsi sospinti uomini e cavalli.
Lupo vide sulla via di San Marco una nuova frotta di nemici
accorrere a rinfrescare la pugna; ordinò ad alcuni dei suoi, che giugnevano
intanto da tutte le bande, che salendo sulla torre vi facessero giocare una
manganella: fra pochi momenti cominciò a venir dall'alto una tempesta di
pietre; cominciò dalle feritoie a volar un nembo di saette, e gli Alamanni
ebber di grazia d'abbandonar l'impresa, e di darla a gambe.
Levato il ponte, chè non v'era più chi lo impedisse, e
tornato tutto quieto, si venne per calare affatto la saracinesca, e vi trovaron
sotto un bel cavallo baio d'Ungheria preso insieme col suo padrone. Il cavallo,
a cui quello smisurato peso era caduto sul fil delle reni, avea fracassato le
gambe di dietro; il soldato vi era tenuto per un piede, e tutt'e due si divinghiavano
e facevan forza per uscir di sotto a quel pondo doloroso. Il povero animale,
schiacciato contro terra le parti deretane, colle orecchie aguzze e la criniera
ritta sul collo, cogli occhi infocati, che gli volevano schizzar fuori dalla
testa, colle narici spalancate, alzava il capo di tanto in tanto, e voleva
levarsi sulle zampe dinanzi che stendeva in fuori e ritraeva contro al petto,
curvandole e raspando ferocemente; mordeva quanti se gli avvicinavano, e
metteva un ringhio di dolore: l'uomo con un piè rotto fra le gambe rotte del
cavallo e la saracinesca addosso, ad ogni prova che l'animale facea per
aiutarsi veniva scosso e trabalzato con indicibile strazio: si scontorceva, si
aggrappava, ed ora levandosi s'un ginocchio e giungendo le mani pregava nel suo
tedesco che gli donasser la vita per amor di Dio, ora ricogliendo da terra la
spada, la brandiva ferocemente, e così impedito, così malconcio come era,
mostrava pure di non volersi lasciar uccidere senza difesa. Veduto in
quell'atto al chiarore delle faci, col volto tutto ispido di peli che tiravano
al rosso, cogli occhi grigi scintillanti, stralunati, pieni di rabbia, di
spasimo e di paura, parea un lupo preso nella tagliuola nel momento che il
pastore gli vien addosso col bastone levato per dargli sul capo.
I nostri montanari ebbero compassione di lui, e cavatolo di
sotto alla trappola, lo portarono in casa, dove fu curato dalla vecchia Marta
che s'impicciava di racconciare ossa slogate e rotte, ed era tenuta in Limonta
per la più gran medichessa. La povera donna, nella semplicità del suo cuore,
non credette di peccare contro la carità del prossimo esercitandola verso un
nemico, il quale, dal momento che non potea più nuocere, tornava a diventar
prossimo anche lui.
Quella stessa notte, poco più d'un'ora dopo il vano
tentativo fatto dai Tedeschi, il Pelagrua, avvolto in un mantello bigio col
cappuccio sugli occhi, e sotto panno tutto armato di ferro, comparve in casa di
Lodrisio Visconti, di cui trovò la porta socchiusa; entrovvi, e, riconosciuto da
alcuni soldati che vi stavan di guardia, passò in una sala dove gli venne
incontro il padrone, il quale lo stava aspettando con aria inquieta.
- Solo? a quest'ora? - disse Lodrisio, - e così, com'è
andata?
- Il diavolo mi porti e venga il vermocane a tutti quei
maledetti montanari! - rispose il Pelagrua sbarazzandosi dal mantello.
- Che! ti sarebbe fallito il colpo?
- Tutto alla peggio.
- Ah poltron traditore! - gridò il cavaliere andandogli
colle pugna sul viso, - non so chi mi tenga ch'io non ti sconci colle mie mani
quel po' d'effigie di cristiano che hai su quel muso da fariseo.
- Sentite, - diceva il Pelagrua, senza mostrare d'essere
gran fatto spaventato da quell'ira, - da me non è mancato: la fu in grazia di
quella forca di Lupo, quello scudiere d'Ottorino, che conoscete; non m'ha dato
tempo di staccare i cavalli, ed ebbi di buono di potergli scappare dalle
unghie, e venir qui a darvene l'avviso.
- E qualcheduno t'avrà riconosciuto.
- No, chè avea il cappuccio sugli occhi, e poi non ci si
vedeva.
- E i Tedeschi?
- Furono cacciati indietro.
- Da un branco di villani côlti alla sprovveduta? com'è
possibile?
Qui il castellano di Rosate si fece a narrargli per filo e
per segno tutta la faccenda com'era ita.
L'altro, al racconto della brava difesa fatta dai Limontini,
sentiva nascersi quella stizza che prova un uccellatore contro i tordi che
scappano dalla ragna e sono così ribaldi da non volersi lasciare schiacciar il
capo per dargli gusto: - Canaglia! - sclamava, - birboni! ma sono stato io il
goffo, io, che ho affidato tanto negozio ad un poltrone: sono stato io, e mi
sta il dovere: or va che ti sei giuocata la tua fortuna. S'io diventava signore
di Milano, non t'avrebbe fatto freddo mai più, e tu non saresti morto
castellano di Marco.
- Quanto a questo, poteva rischiare di farmi impiccare più
alla spedita castellano del mio, - rispose freddamente il mariuolo; - ma che
vale? già lo sapeva, che chi non risica non rosica, e però non mi sono
risparmiato, e da me, come vi diceva, non è rimasto. Pensate voi, fra le altre
cose ci avrei avuta tanta soddisfazione di poter sonarla a que' montanari
birboni che mi vollero far quel mal giuoco a Limonta, e fu in grazia loro che
ho dovuto sbrattar il paese dove stava a tutto agio e consolazione meglio d'un
principe.
Lodrisio si batteva la fronte con una palma, e andava
ripetendo: - Mandarmi fallito un simil colpo! rovinarmi di siffatta ragione!
- Quanto v'ha di bene, - seguitava il Pelagrua, - si è che
nessuno sospetta di noi: la pratica è stata menata così sottilmente, per vie
così coperte, per tali avvolgimenti, che... basta, non perchè ci abbia, avuto
mano io, ma sfido il diavolo a trovarne il bandolo. Il pericolo l'ho corso io
tutto quanto, e voi...
- Sta a vedere, scimunito doloroso! - gridò Lodrisio
interrompendolo, - che t'avrò anche a rifare i danni, e vorrai che abbia ad
appiccare un voto perchè cadendo non mi sono scavezzato che le gambe, quando mi
poteva anche fiaccare il collo. Via, levamiti dinanzi: domani sera uscirai per
tornare al tuo castello di Rosate, che maladetto sia il momento che te n'ho
cavato! Intanto fa di spiare intorno che cosa si pensi della faccenda di questa
notte; prima di partire me ne avviserai: va, che alla prova mi sei riuscito un
dappoco. Non mi resta più a dirti che una cosa: bada che non t'esca motto di
tutto quello che è corso fra noi, o meglio per te se ti cascasse la lingua.
- Quanto a questo, - rispose il Pelagrua, - dormite pure a
occhi chiusi, gli è come se aveste parlato con quel muro colà: acqua in bocca,
e non vi ho pur veduto.
Partito il castellano di Rosate, Lodrisio rimase solo a
digerire la rabbia che quel contrattempo gli avea messa in corpo. Egli avea
conosciuto il Pelagrua a Rosate, poco tempo prima che Marco partisse pel
Ceruglio, e, come si dice che i sangui s'affrontano, s'eran tosto accozzati,
già s'intende, senza che nessuno uscisse del grado suo, l'uno come patrono,
l'altro come cliente: diventati in un tratto carne e unghia, anima e cuore,
s'erano accordati di aiutare a tutta possa le macchinazioni di Marco, avendo
collocata ogni loro speranza d'ingrandimento nella riuscita di quelle. Ma
quando il castellano recò di Toscana la novella che Marco era stato eletto
signore di Lucca, i mariuoli si trovarono sconcertati, tenendo per sicuro che,
occupato egli di quelle nuove faccende, contento di quanto si trovava in mano,
non avrebbe più oltre voluto commettersi nelle cose di qui, dove tutto da
qualche tempo parea andargli per la mala via, e però pensarono di provvedere
essi stessi al fatto loro, afferrando la prima occasione che si fosse offerta.
La occasione non tardò a venire: il Bavaro, disperando di ottener Milano colla
forza dell'armi, si dispose d'averla per tradimento: poich'ebbe indarno
sollecitati vari capitani, con larghe promesse di danaro, di titoli e dignità,
si rivolse a Lodrisio, già riconosciuto per uno spirito turbolento e ambizioso,
come quello che avea più volte fallita la fede ai Torriani e ai Visconti, e gli
promise niente meno che la signoria di questa città, se gli bastava l'animo di
dargliela in mano. Il tristaccio pigliò subito il boccone, fece intendere la
briga al Pelagrua, e questi uscito del castello di Rosate, manipolò tutto quel
rigiro che andò poi a finire nella sconciatura che abbiam riferito di sopra.
Ora Lodrisio pensava dolorosamente al superbo edifizio che
si vedea cader dinanzi, pensava al mal partito a che si trovava ridotto.
Col Bavaro, mancato quel colpo, non vi poteva esser più
altro appicco: le sue bande tedesche scoraggiate, tribolate dalle sortite
frequenti dei nostri, si tenevano insieme a gran pena; lo sforzo d'Italia (così
si chiamavano i collegati) mancante di paghe e di foraggi, tradito, malmenato,
abbandonava alla spicciolata il campo; e ben si vedeva che presto l'imperatore
sarebbe stato costretto a levar l'assedio e a tornarsene a casa per la più
corta: con Azzone non poteva sperare di far bene i fatti suoi, ch'egli capiva
d'essergli sospetto, sebbene ne ricevesse ogni giorno un mondo di carezze. Da
che parte voltarsi dunque? a che tavola dar di piglio nel suo naufragio?
Allorchè il Pelagrua, insieme colla novella del principato
di Lucca ottenuto dal suo padrone; avea recata a Lodrisio l'altra non meno
strana dell'amore di Marco per la figliuola del conte del Balzo, Lodrisio avea
subito intraveduto in quell'amore un filo per tener il Visconte attaccato alle
cose di qui; in seguito poi, i trattati intavolati col Bavaro, che dovean
portarlo ad un'altezza a cui ne' sogni della sua superbia non era pur mai prima
d'allora salito, gli avean fatto svanire quel pensiero, come allo spalancarsi
delle finestre la luce ampia e diffusa del giorno confonde e manda in dileguo
lo scarso chiarore d'un povero lumicino che arde in una cameretta; ma in quella
guisa appunto che se le finestre si richiudono, quel povero lumicino torna a
farsi vivo e a parer buono, così, poichè ogni altro consiglio fu spento nella
fantasia dell'ambizioso, si riaccese e ravvivò quella prima quantunque tenue e
lontana speranza.
Che un capriccio di femmina (così egli qualificava l'amor di
Marco per Bice) potesse tanto sul cuore dell'amico da condurlo al rischio di
giocarsi una signoria, come quella che si trovava in mano, non era pensiero che
potesse pur cadere per un momento in un'animo della tempra di quello di
Lodrisio. Questo no: ma quel capriccio, diceva egli, potrà tenergli viva,
stuzzicargli in cuore l'immagine d'un'altra signoria un tantin più ghiotta che
non quella di Lucca, d'una signoria vagheggiata, sospirata da lui per tanto
tempo. Un picciol peso non basta egli alcuna volta a dare il tratto della
bilancia? Or bene, questo picciol peso si compiaceva d'averlo egli in mano, e
prometteva a sè stesso di porlo a tempo nel guscio che volea: far traboccare.
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