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Tommaso Grossi
Marco Visconti

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  • CAPITOLO XXIX
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CAPITOLO XXIX

 

Dopo l'ultima lettera scritta da Marco a Lodrisio, quella che il tristo, ve ne ricorderete, ricevette dalle mani del Pelagrua nel castello di Rosate, le cose di Lucca eran sempre andate di male in peggio. Le bande alemanne, composte di avventurieri ingordi, crudeli e intolleranti di ogni disciplina, s'eran condotte a tale che ricusavano alla fine risolutamente di star soggette al Visconte.

Marco, alle mani ogni giorno con quella scapestrata canaglia, dovea la poca sommessione, che non gli veniva ancor ricusata, la dovea alla gloria del suo nome, alla maestà della sua presenza, alla facondia del dire; doti alle quali ogni moltitudine suol sempre andar presa quasi a suo dispetto. Più d'una volta col solo mostrarsi egli avea fatte cader le armi a numerose torme che già stavano per insanguinarle nel petto dei cittadini; più d'una volta aveva comandato agli stessi rivoltosi di metter le mani addosso ai loro capi, ai loro istigatori; e i rivoltosi, conquisi dalla severa dignità di quel volto, non aveano osato disubbidirgli.

Contuttociò egli si avvedeva troppo bene quanto debole fosse il filo a cui attenevasi un'autorità contrastata nel principio, e che non avea la forza dalla sua. Ora il principio ei non potea mutarlo, e la forza come se la sarebbe creata? Negli stessi cittadini, mi dirà il lettore, negli angariati Lucchesi, i quali naturalmente doveano aver di grazia di stringersegli d'intorno per tôrsi da dosso quel flagello, quella peste, quei diavoli scatenati. Ma che direte voi? che i cittadini, parte non avean mai potuto veder Marco di buon occhio, parte avean rimesso assai dell'antico favore, parte l'avean anco mutato in odio risoluto. Chi non poteva patire d'avere un padrone che non fosse lucchese; chi non sapeva perdonargli d'essersi riconciliato coi Guelfi; chi una cosa, chi un'altra. Per giunta gli veniva dato biasimo e mala voce da tutti, perch'egli trovandosi, come si dice, fra la incudine e il martello, avea più volte lasciato correre un picciol male per impedirne un grave, avea chiuso un occhio a qualche sopruso, a qualche avanìa degli armati prepotenti, non avea sempre tenuto le bilancie del pari nelle giornaliere differenze fra cittadini e soldati, sicchè la ragione del debole valesse quanto quella del forte. Non che egli amasse l'ingiustizia: ma, sapete bene, v'ha una cotal giustizia soldatesca che non può guardarla tanto nel sottile: e poi bisognava essere nei suoi piedi. Quello che vogliam conchiudere si è, che Marco non poteva far assegnamento nessuno sopra i cittadini per opporli alle bande del Ceruglio. I quali cittadini poi, vedete grosso guaio, erano disarmati, senza ordinamento alcuno, e, peggio di tutto, divisi anche fra loro, popolani contra nobili, nobili contra popolani, quartiere contra quartiere, fazione contra fazione; chi la volea da piedi, chi lo volea da capo; di che gli Alamanni pensate se avean buon giuoco.

Quella stessa sollevazione, di cui facemmo parola di sopra, non fu che d'una porta della città; le altre non risposero alla chiamata; e quei poveracci che facevan tanto baccano all'entrar di Lupo nella città, prima che ei ne fosse lontano appena un cinque o sei miglia, stavansi serrati nelle loro case, zitti e tremanti, salvo una buona ventina che eran rimasti sul lastrico delle piazze e delle vie, infilzati dalle lance dei Tedeschi, e calpesti dalle zampe dei loro cavalli. Questo era stato il bel frutto che avean cavato dalla sommossa, oltre, già s'intende, ad una nuova squassatina, ad una nuova stretta del capestro che avevano alla gola.

Sicchè, vedete che alla fine poi Marco era da compatirsi, quando per tener quieti i forti faceva un po' a fidanza coi deboli, e dava qualche scappellotto alla giustizia per amore dell'umanità.

Se non che, posto anch'esso a tali strette, ridotto ogni giorno a peggior partito, vedendo che la Signoria di Lucca gli sfuggiva dalle mani, pensò per tempo a spogliarsene di bel patto; e d'accordo coi capi o conestabili, come si chiamavano allora, delle bande tedesche, entrò in segreti trattati colla Repubblica Fiorentina che già da un pezzo gli faceva gran calca intorno per ottener da lui la cessione di quella città. Le pratiche per un tal mercato eran già molto innanzi, e rimanevano solo alcuni lievi disguagli, per accordare i quali dicevasi appunto che Marco si fosse recato a Firenze.

Il prezzo che si sarebbe cavato dalla cessione di Lucca, parte doveva andare nel pagar le bande tedesche di quel che si dovea loro, un'altra parte sembra che Marco volesse impiegarla nell'assoldare per conto proprio quelle bande medesime e menarle in Lombardia a compiere finalmente il disegno che stava maturando da tanto tempo con Lodrisio.

Messer Marco... venne in Firenze a 30 di giugno con 30 a cavallo di sua famiglia e da' Fiorentini fu veduto gratiosamente et fattogli honore assai; et egli da mentre che dimorò in Firenze, al continuo metteva tavola convitando cavalieri, et buona gente; et fece nel palagio de' Priori l'obedienza di Santa Chiesa dinanzi a' Priori, et dinanzi all'altre Signorie, et del Vescovo di Firenze, et di quello di Fiesole, et di quello di Spuleto, che era Fiorentino, et dinanzi allo Inquisitore, et di certi Legati, che erano in Firenze per lo Papa. (Gio. Villani, Lib. X, Cap., CXXXIII).

Non crediate però che tutto gli andasse a seconda: chè anzi egli era pieno di amarezze, di dispetti, di crepacuori per le rinascenti imprevedute contrarietà che trovava da ogni banda a cagione di antiche picche, di nuove inimicizie che gli si erano scoperte addosso. Ora s'impazientiva della fredda lentezza di qualche partigiano, ora tremava pel sospetto dell'infedeltà di un amico; nuove spine gli erano sopravvenute per le recenti novelle che la bestia che si voleva vendere al mercato, invece di lasciarsi tirar tranquillamente pel capestro, avea cominciato a giocar di zampe e di corna: a questo si aggiunga un fastidio mal dissimulato a stesso, una vergogna troppo dolorosa dello stesso mercimonio che stava per consumare; e in compagnia poi di tutto quanto, sparso sopra ogni cosa, mischiato, confuso con ogni altro affetto, un cruccio incessante e crudele di rimorsi e d'amore.

Il giorno precedente a quello in cui dovea andar nella Signoria il partito per l'acquisto di Lucca, Marco, al quale erasi significato come i Priori, e gli altri che reggevan la terra, l'avrebbero inteso prima della deliberazione, stavasi solo in una sua camera, ed avea appena finito di scegliere tra un fascio di carte i varii trattati corsi fino a quel fra i procuratori della Repubblica e lui: quando entrò un donzello, annunziandogli l'arrivo di un corriere di Lombardia, il quale era passato da Lucca. – Venga tosto, - disse Marco, credendo che fosse uno dei soliti corrieri speditigli da Lodrisio ogni settimana.

Il chiamato entrò: era Lupo, il quale stordito, fuor di per la gioia, per la maraviglia del trovarsi al cospetto di quell'uomo, non potendo formar parola, si cavò di seno la lettera d'Ermelinda, e gliela porse. Il Visconte la posò sopra un tavolino senza neppur volger l'occhio sulla soprascritta, e domandò all'arrivato:

- Dunque vieni da Lucca?

- Da Lucca, - rispose questi con voce mal ferma pel forte martellargli del cuore; ripigliando poi un po' di fiato: - e l'ho lasciata tutta sottosopra.

- A quest'ora ell'è più quieta d'un convento, - riprese Marco, il quale avea già ricevute tre o quattro staffette che lo ragguagliavano del principio, del progresso e della fine quella rivolta così fatta.

- A te però non fu fatto nessun sopruso, spero?

- Oh! no, niente, - rispose il giovane incorato dall'aria di bontà con che gli venìa fatta quella domanda. - E se alcuno... già, per natura, stranezze non uso patirne; e adesso poi che era spacciato a Marco, voleva un po' star a vedere chi avesse avuto tanta faccia da farmi il più leggiero smacco!

All'udir quel vanto il Visconte gli levò gli occhi in faccia, squadrollo un istante da capo a piedi, e schiudendogli un riso pieno di bontà: - Tu non sei dei soliti, - gli diceva, - tu sei stato soldato, tu!

- E lo sono tuttavia.

- Vedi se mi sono apposto! già li conosco per aria quelli del nostro pelo: e m'hai viso e presenza che rendono buon testimonio alle tue parole, e che mi ti figurano per un giovane onorato e dabbene. - Lupo si fe' rosso pel dolce turbamento suscitatogli in cuore da quella lode; e l'altro facendoglisi più vicino: - Tu sei ben giovane, - continuava, - dimmi un po', a che fatti ti sei trovato?

- Il primo fatto a cui mi son trovato, fu quello dell'Adda; che ho combattuto sotto le vostre bandiere: e poi...

Ma il Visconte, senza lasciarlo andar più innanzi, gli prese con guerriera famigliarità una guancia fra due dita, e stringendogliela amicamente: - Ah! sei dunque una di quelle buone lame, di quelle mie cavezze dei ventiquattro? Tu ti sei messo ben presto al mestiere! siamo amici vecchi, com'è così.

Non vi dirò come stesse il Limontino al sentirsi toccar con tanta cortesia da quella mano, al sentirsi dir quelle parole da quella bocca. Gli parea di farsi leggier leggiero, di sollevarsi per aria: dalla gota stretta fra le dita di Marco gli si diffondeva, gli trascorreva pelle pelle una dolcezza, un brivido somigliante a quello dell'amore, chè l'ammirazione anch'essa, al pari dell'amore, ha i suoi deliri, i suoi languori, i suoi sfinimenti.

Quando il Visconte ritrasse a la mano, ei gliela prese, e la baciò col fervor d'un divoto.

Quella calda e leale dimostrazione toccò il cuore del generoso capitano, che avvezzo come era a viver nel campo, in mezzo alle armi e ai rischi, di nulla si compiacea quanto dell'amore dei suoi soldati: ora poi quella dimostrazione gli riusciva ancor tanto più cara, quanto ch'era gran tempo che vivea in mezzo a gente non sua; onde esclamò tutto anch'egli commosso:

- Viva i miei buoni Milanesi!

- Viva Marco! viva il nostro condottiere! - rispose Lupo. - Oh fossero ancora quei giorni che si correva alla vittoria col vostro nome sulla bocca!

- Senti, - disse il Visconte abbassando la voce, - quei giorni potranno ancora venire, e forse non sono lontani. Tornando in Lombardia dirai all'orecchio dei tuoi prodi compagni: «Il cuore di Marco è sempre stato con voi, e voi confidate nell'antico vostro capo...». Quanto a te, ascoltami: in qualunque tempo, in qualunque luogo, in qualunque stato io mi trovi, la prima volta che t'abbatti in me, fammiti innanzi sicuramente, rammentami quello che ora ti ho detto, e non sarà invano.

Intanto che il giovane si spandeva in rendimenti di grazie, in protestazioni, Marco gli troncò le parole dicendo: - Che tu non mi ti sia dato a conoscere prima d'ora? - andò al tavolino, prese la penna, e gli domandò:

- Soldato, il tuo nome.

- Lupo da Limonta.

- Lupo?... È un nome codesto che non mi giunge nuovo.

- Potrà essere, dacchè vi siete degnato una volta di notarlo con codesta vostra mano gloriosa su d'un foglio che mi valse la vita.

A tanto, Marco si ricordò della lettera che egli, per le preghiere di Bice, avea scritta all'abate di Sant'Ambrogio quella notte fatale, di cui gli durava pur sempre viva la memoria; gli sovvenne quindi come quegli per cui aveva allora domandata la grazia del capo, doveva essere uno scudiere di Ottorino: per il che fissati con nuova ed avvisata attenzione gli occhi nel volto del giovane che gli stava innanzi, lo venne raffigurando per quel medesimo che avea servito da scudiero appunto ad Ottorino, il della giostra. Tutto stupito da siffatta scoperta: - Come mai? -, disse in cuor suo, - come mai si può egli esser condotto Lodrisio a spacciarmi per corriere costui? un uomo del suo nemico? -, e voleva domandarne allo stesso Lupo; ma poi stimò meglio di guardar invece lo scritto che questi gli avea recato, e che egli non dubitava punto potesse esser d'altri che di Lodrisio, sperando di trovare in quello la spiegazione di tanto strana novità.

Prese il foglio, l'aperse; e la prima cosa si maravigliò di vederlo steso per piana lettera e non in cifra: colpito poi dalle prime frasi di esso, corse con l'occhio alla fine della carta per certificarsi da cui venisse. Ora chi può significare come egli rimanesse al trovarvi il nome di Ermelinda? Temendo che la passione non lo portasse a qualche atto men che decoroso, men che dicevole all'usata dignità, affrettossi a dar licenza a Lupo, il quale uscì immediatamente, fantasticando fra per indovinare la cagione di quel repentino mutamento, che non avea potuto a meno di notare sul volto e negli atti del grand'uomo.

Nel poco tempo posto da Marco per rizzarsi a fin di chiuder l'uscio colla chiave, mille pensieri gli si affollarono alla mente: - Che forse Bice abbia levato il cuore da Ottorino, e sia contenta?... Oh! che vo io mai farneticando?... Sarà piuttosto per pregarmi che cessi dal contrariar quelle nozze, sarà... Mi desse almanco l'annunzio ch'ella è già sposa, che tutto è finito!... Sarebbe un tremendo annunzio, eppure sento che potrei sostenerlo... sì, sostenerlo e offerire a quegli infelici ogni riparazione, e forzarli a perdonarmi. -

Si pose a sedere, prese la lettera, e lesse:

 

«Marco.

«È una madre desolata che gettandosi ai vostri piedi, che stringendo e bagnando di amarissime lagrime la vostra mano gloriosa, vi scongiura per quanto vi ha di sacro in terra e in cielo, che le rendiate l'unica sua figlia, la gioia suprema, l'ultimo conforto dei suoi giorni infelici. So che i potenti della terra sogliono qualche volta circondare i loro passi di tenebre, nascondere le loro vie, e consumata l'ingiustizia, per parere irreprensibili, far mostra di irritarsi contra i gemiti stessi del misero che l'ha patita: ma voi!... no, voi avete un'anima temperata alla pietà, voi avete provato per tempo che cosa sia il dolore, e non rifiuterete la preghiera d'una povera tribolata.

«Marco, la mia figlia m'è stata rapita: sono più di venti giorni che ella stassi in forza altrui; chi sa in qual parte, chi sa in che mani caduta! È a voi ch'io mi rivolgo risolutamente per domandarla, e voi dovete renderla tosto e illibata ai deserti suoi parenti, al suo sposo tradito e trafugato insieme con lei. È la sua madre che lo pretende da voi in nome di tutti, in nome di Dio.

«Io ve la domando supplichevolmente umiliatavi dinanzi col capo nella polvere, coll'anima sbigottita e tremebonda, ma piena tuttavolta della fiducia, della baldanza che mi infonde il sapere che la mia parola è ascoltata in Cielo, e che anche i forti hanno a morire.

«Ah no, Marco! no, no!... perdonatemi: io non volli che piangere, che pregare; ne' miei detti non debb'essere che umiltà, che atterramento: perdonate a una povera madre fatta temeraria dall'eccesso del dolore. Oh! se io sapessi da che parte farmi per toccarvi il cuore! sentite, ve l'ho già detto che ella è sposa di Ottorino? Sì, le ha dato l'anello, il loro nodo è stretto innanzi al Signore. E sono stata io, vedete, a sollecitar quelle nozze, e... dovrò confessarlo? potrò farlo senza confusione, senza rossore? e voi stesso me lo crederete, se vi dirò che mi sono condotta a tanto anche per la pietà che ebbi di voi?

«Ve lo giuro, che mi stette a cuore in questo anche il ben vostro, ch'io sperai e tenni certo che fosse l'unica via per distorvi l'animo da una malaurata casa, dalla quale non vi sono venute che sciagure... Perchè, vedete... se anche... se mai avessi potuto obbliarmi fino al punto di concedervi la mia figlia in isposa, Bice non era per voi, chè il suo povero cuore era già dato. Marco! io vi conobbi in altri tempi, e so che allora non avreste sicuramente voluto un corpo senz'anima, che non avreste potuto trovare il ben vostro nell'infelicità della donna del vostro amore; or ditemi voi se la madre di Bice s'è ingannata, giudicandovi come vi aveva giudicato un giorno Ermelinda.

«Vi ricordate ancora di questo povero nome? esso è ormai quanto mi avanza di tutto quello che fui: gli anni, le tribolazioni hanno consumato il resto. Voi, quanta gloria vi siete guadagnata! potente, riverito e temuto dal nemici! l'orgoglio e l'amore di Lombardia... ma io?... io non ho che la mia figlia, quel caro e dolce frutto delle mie viscere; ogni mia consolazione, ogni mia speranza, ogni mio vanto è posto in lei sola. Ah! per la gentilezza vostra, per la fama di che il mondo vi onora, per quanto vi fu mai un giorno fra noi di pio, di fedele, di amabile; se ottenni mai grazia alcuna nel vostro cospetto, toglietemi da questa agonia, restituitemi la mia figlia, restituitemela tosto, prima che il dolore abbia chiusi per sempre questi occhi stanchi dal pianto. Oh! se sapeste l'angoscia dei miei giorni! se poteste assaggiare il tormento d'un'ora, d'un'ora sola delle mie notti eterne, tutte piene di larve e di spaventi! se provaste che cosa voglia dire esser madre!... La mia vita, voi lo sapete, fu sempre seminata d'amarezze e di guai; ma tutto è un'ombra, è un sogno, appetto allo schianto, allo sfinimento che mi questa spinta mortale. No, io non credetti mai che si potesse patir tanto a questo mondo... Oh Dio! Dio misericordioso! la vostra mano s'è aggravata di troppo su una debole creatura; cessate tanto strazio a cui non posso più reggere, richiamatemi a voi, ma prima salvatemi la figlia!... Ahimè! le lagrime m'intenebran la vista, la mano vacilla, io sento mancarmi... Marco, deh! fossi almanco alla vostra presenza, e potessi cadervi ai piedi, e spirarvi dinanzi domandandovi nelle ultime voci quella grazia che non potreste negare a una morente! Abbiate pietà, abbiate pietà dell'infelicissima Ermelinda».

 

 




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