CONCLUSIONE
Il menestrello di Lucca, sia che andasse presso a una falsa voce
giunta in Toscana, sia che conoscendo il vero, e parendogli troppo nudo ed
arido, abbia voluto raffazzonarlo un tantino per dargli più vaghezza e far più
colpo colla sua canzone, ci verrebbe a far credere che Marco e Bice furono
sepolti insieme nel castello di Rosate; ma noi, con delle buone prove alla
mano, possiamo invece assicurar il lettore che il Visconti fu seppellito molto
onorevolmente in Milano nella chiesa di Santa Maria Maggiore; e la sposa
d'Ottorino, sappiam di buon luogo, che fu portata a Limonta com'ella avea
domandato. E vogliamo averlo detto, perchè non si tenga che noi reputiamo forse
essere privilegio dei soli storici, degli annalisti, dei cronisti, di quelli
insomma che fanno professione di dir la verità, il raccontare francamente quello
che non sanno, o quello che sanno Dio sa come; il tacere quello di cui sono ben
informati, l'esornare, l'amplificare, il travestire, l'inventar di pianta;
l'usare insomma di tutti quegli artifizi che la rettorica insegna, e la
prudenza spesso consiglia. Signori no: noi protestiamo di credere che questo è
un privilegio di cui usano qualche volta anche i poeti.
Fatta questa professione di fede, che era troppo necessaria,
parrebbe che non ci restasse più altro a dire; però che, dopo la morte di quel
che chiamano il protagonista, la storia propriamente è finita. Noi però, se non
fosse di sconcio ai lettori, vorremmo aggiungere ancora quattro parole intorno
agli altri personaggi che occuparono per tanto tempo la scena; e lo vorremmo
principalmente per consolazione delle donne gentili, le quali, così tenere
com'elle sono, si lasciano ire agevolmente a porre qualche affetto alle persone
colle quali praticano un po' alla lunga, per quanto poco esse valgano, mosse a
ciò dalla propria cortesia, piuttosto che dall'altrui virtù: e per questo è da
compatirle, che dico? da saperne loro buon grado, se si mostrano poi vaghe
d'intenderne le novelle anche un po' pel minuto.
Non isgomentatevi però, chè il fastidio avrebbe a durar
poco.
Il conte e la contessa del Balzo, insieme con Lauretta,
partirono la mattina da Rosate, mettendosi in viaggio verso Limonta, dove
accompagnarono le spoglie della loro Bice, e per via furono poi raggiunti da
tutta la famiglia stanziata a Milano, la quale era stata avvisata che dovesse
incamminarsi alla volta del lago.
Quelli tra i nostri viaggiatori che venivano da Milano, ne
erano partiti prima che seguisse il fiero caso di Marco, del quale nessuno
intese parlare se non a Seveso, dove giunti tutti quanti sull'imbrunire erano
scavalcati a un'osteria per passarvi la notte. Nè c'era modo che se ne
volessero persuadere, avendo abbandonato così da poco tempo il luogo, altri
dove si diceva accaduto il fatto, altri dove avrebbe dovuto prima che altrove
giungerne la notizia. Lupo e Ambrogio stavano appunto disputando coll'ostiere,
e con alcuni del paese intorno alla possibilità della cosa, riscontrando le ore
e le distanze, quando giunse una staffetta, che partita da Rosate subito dopo
che v'era giunta la fatale novella, erasi messa sulle tracce della famiglia del
Balzo, ed aveva potuto giugnerla quivi a quell'ora. L'arrivato era un servitore
fedele del Visconte; confermò piangendo l'annunzio dell'atroce fine del suo
padrone; poi, tratta in disparte Ermelinda, le pose fra le mani una lettera di
Marco stata trovata, come diceva, sul tavolino del suo padrone. La donna fu
sopraffatta da una pietà mista di spavento, che potè pure sul suo cuore,
quantunque altamente piagato e conquiso da tanta materna angoscia; ella si
sentì rabbrividire, le vacillò la vista, tremò per tutte le membra, e
riponendosi in seno la lettera, che in quel punto non avrebbe potuto aprire,
non che leggere, si abbandonò su d'una seggiola come fuor del sentimento.
Lupo, senza por tempo in mezzo, risalì sul suo cavallo, e
galoppò difilato a Milano in cerca d'Ottorino, che poteva in quel frangente
aver bisogno di lui. Tutti rimasero sbalorditi: ma appetto all'attonitaggine,
alla stupefazione del Conte, lo stordimento degli altri era niente.
E per verità l'aver avuto attenenza con Marco, con quell'uomo
che dicevasi fatto ammazzare dai Signori, in conseguenza d'una trama scoperta,
poteva in quel primo momento dar da pensare anche a chi fosse stato meno
pauroso di lui.
Ma Azzone, spaventato forse anch'egli della vastità della
congiura scoperta, stimò prudente cosa di mettervi su un piede, per non
risicare di dar fuoco a un vespaio troppo grosso; cosicchè, non dirò del conte
del Balzo, troppo ben guardato dalla sua pochezza, ma anche i più stretti amici
di Marco, i più arrabbiati e potenti suoi favoreggiatori, la levaron liscia
senza una molestia al mondo.
Intanto andavano innanzi le pratiche avviate da un pezzo per
la riconciliazione dei Visconti colla Chiesa. Il Papa, già ben disposto a
favore del signor di Milano per la resistenza che avea opposta da ultimo al
Bavaro, non credette, o mostrò di non credere, alle voci che l'accusavano
dell'assassinio dello zio; e assolto lui e la famiglia dalla scomunica, levò
l'interdetto che pesava da tanti anni sulla città e sul distretto. Le feste, le
baldorie che se ne fecero, furono maravigliose. I signori laici che avevano
usurpati i beni del clero, li restituirono ai sacerdoti che tornavan d'ogni
parte. Tra questi, il legittimo abate di Sant'Ambrogio Astolfo da Lampugnano,
rientrato nel suo antico convento, da cui era stato escluso per tanto tempo, fu
rimesso in tenuta di tutti gli antichi possedimenti, e così anche di Limonta.
Al primo metter piede in Milano, egli scrisse una lunga lettera al pievano del
paese, lodando lui e tutti i Limontini della fedeltà che avevano sempre
mostrata al loro legittimo signore, compassionandoli di tutte le vessazioni che
avevan dovuto patire sotto l'intruso abate, al quale non vennero risparmiati i
soliti epiteti di scismatismo, d'eretico, di mago, di figlio del demonio; e in fine,
quel che più monta, accordò loro esenzioni e privilegi in ristoro del mal
passato.
Quei nostri buoni montanari riapersero con grande solennità
la loro chiesetta di San Bernardo: la campanella si ricattò dal suo lungo
silenzio sonando a distesa, a gloria, a Dio lodiamo, per tre giorni e tre notti
alla fila, senza un momento di respiro, chè era una furia d'uomini e di ragazzi
a strapparsene l'un l'altro la fune, a salir sul tetto, e dondolarla a braccia,
e martellarla con ferri e pietre a chi meglio. Si piantarono archi rusticali di
trionfo, si fecero processioni, si cantarono messe, e mattutini, e compiete, e
vespri, che fu un subisso. Finalmente fu celebrato un uffizio generale pei
morti nel tempo dell'interdetto, finito il quale, si avviarono tutti a due a
due, gli uomini prima, poi le donne, verso il cimitero, dove si misero in
ginocchio a dire il rosario. Una pia e solenne compunzione, un grave e tacito
gaudio, era su quei volti chinati divotamente alla preghiera. Fra tante memorie
di domestico lutto, di speciali perdite, gli occhi di quella buona gente si
volgevano ad ora ad ora verso la cappelletta, entro la quale da pochi giorni
era stata posta una bianca pietra, con un nome caro al cuore di tutti.
Marta, che s'era inginocchiata sulla terra ond'era coperto
il corpo del suo Arrigozzo, finita che fu la preghiera, si levò in piedi per
andarsene, ma passando vicino a quel sasso vi si chinò sopra, e baciollo con
riverenza e con amore; la moglie del falconiere, e poscia a mano mano tutte le
donne del paese, fecero altrettanto. Solo Ermelinda e Lauretta, che erano pure
fra quella schiera, non poterono sostenere sì grande sforzo, ma tornarono la
sera solette, scendendo dai viottoli del monte senz'essere vedute, a piangere,
a pregare su quel sasso, che fu poi sempre ogni giorno il termine delle loro
gite solitarie.
Lupo non prese parte alle solennità che si celebrarono quei
giorni al paese: egli era partito alla volta di Terra Santa insieme con
Ottorino. Morta Bice, morto Marco, il giovine cavaliere non potè più vedersi
sotto questo cielo: il sapersi vicino a Lodrisio gli faceva ribollire il sangue
addosso, avrebbe voluto trovarlo, misurarsi con lui, e che ne andasse la vita
dell'uno o dell'altro; ma aveva promesso alla sposa moribonda di non cercare
vendetta; quella promessa gli era sacra; fuggì dunque per poterla mantenere.
Un altro dei nostri conoscenti era capitato invece quei
giorni a Limonta; il Tremacoldo. Egli fu ricevuto da Ermelinda come un parente
stretto e caro, per la memoria di quel tanto che avea fatto, che avea patito,
per la sua povera Bice.
Finite le feste, il giullare volle andarsene, e la donna
ricordevole della sua promessa, non avendogli mai potuto far accettare cosa che
valesse, gli diede una commendatizia pel Legato apostolico Bertrando del Poggetto.
Con questa il Tremacoldo andò a Bologna, e portò indietro tanto d'assoluzione
dalla scomunica in che era incorso esercitando un mestiere proibito dai canoni;
e gittato via per sempre il berretto a sonagli e il farsettin divisato, riprese
un cappuccio a gote, un robone foderato di pellicce; e di menestrello si rifece
canonico. L'amor del mestiere però gli s'era talmente fitto nell'ossa, che non
potè spogliar del tutto il vecchio Adamo; non gli patì il cuore di staccarsi
dal suo liuto, col quale rallegrava qualche volta le brigate in occasione di
solennità straordinarie, o per non saper dir di no ad un amico, o ad un
superiore: sempre però, intendiamoci bene, sempre nei termini dell'onestà e
della modestia più stretta. Del resto, buon pastaccio, eccellente compagnone,
campò al di là degli ottant'anni, e, cosa che parrà incredibile ed è pur vera,
canonico, in mezzo a canonici, non ebbe mai che dire con nessuno.
Ermelinda morì a Limonta in capo a due anni, compianta da
tutto il paese. Frugandosi fra le sue cose, fu trovata l'ultima lettera di
Marco, ch'ella aveva riposta in uno stipetto in compagnia d'una catenella
d'oro. Nessuno sapeva indovinare come stesse quivi quella catenella, e che cosa
volesse significare, salvo la moglie del falconiere e la sua figlia Lauretta,
le quali però non ne fecero motto con nessuno mai.
Il conte del Balzo andò molto in là cogli anni, tanto che
vide morire Azzone e succedergli Luchino; sopravvisse anche a questo,
sopravvisse anche a Giovanni; non si parlava ormai più di Marco che come d'un
personaggio storico, d'un gran capitano, d'un uomo singolare; il suo nome era
ripetuto senza riserbo con riverenza, con maraviglia; e il Conte fu ancora a
tempo a farsi bello dei vanti che sentiva dati alla sua memoria. Quel benedetto
catarro di far dell'importante, di che non potea guarirlo altro che la paura,
gli prese addosso più rigoglio che mai negli ultimi anni del viver suo, quando
tutto era quieto e fidato: bisognava sentirlo a parlar di Marco! egli era stato
il suo consigliere, il suo più stretto amico, l'anima di tutte le sue imprese.
- Se m'avesse dato retta a me! - diceva qualche volta in
aria di mistero. - Se m'avesse dato retta a me! ma via, certe cose va bene a
tacerle: quantunque sieno avvenuti tanti mutamenti, è meglio tacerle; - e così
dicendo gonfiava le gote e si passava una mano sulla fronte, come volendo far
intendere che v'eran chiusi dentro de' gran segreti.
E Lodrisio? sono certo che il lettore il quale abbia punto
di... so ben io? in somma, che non sia del tutto senza cuore e senza
sentimento, desidera di vedergli fare la mala fine; e anch'io vi do parola che
me ne struggo; ma che volete? ci convien aver flemma a tutti insieme, chè le
cose della storia non me le posso acconciar sulle dita secondo che mi vanno a
fantasia. Ecco dunque quanto si racconta di quel tristo.
Egli andò ramingo per molt'anni in varie parti d'Italia,
finchè nel 1338 gli riuscì coll'aiuto dello Scaligero di assoldare tremila e
cinquecento cavalieri (numero considerabile nelle guerre di que' tempi), oltre
una gran copia di fanti. Con tutta quella gente, che fu chiamata la Compagnia
di San Giorgio, ingrossata per via da una infinità di ladri, di masnadieri, di
banditi, che accorrevano al lecco del bottino, si avanzò verso il Milanese,
ponendo tutto a ruba e a fuoco. Giunto nelle vicinanze di Parabiago, dov'era
aspettato da Luchino con tutto lo sforzo di Milano e degli alleati, diede
quella famosa battaglia, che prese il nome dal borgo presso cui fu combattuta.
In essa fu sconfitto interamente, e caduto vivo in man dei vincitore, venne con
umanità troppo rara a quei tempi confinato, in compagnia dei due suoi
figliuoli, nella fortezza di San Colombano, dove stette rinchiuso fino al 1348.
E poi? morto Azzone, morto Luchino, ne fu cavato dall'arcivescovo Giovanni... E
poi? Dopo aver corse varie altre vicende, morì vecchissimo, di suo male, in
Milano il 5 d'aprile del 1364.
Di più fu seppellito con gran pompa, magnaliter, come dice
il cronista già da noi citato; anzi a dimostrazione di lutto e d'onore, Bernabò,
allora signor di Milano, differì un solenne torneamento; e i principi, i baroni
e i conti, che già eran venuti per farci lor prove, dovettero aspettare che il
corpo di quel Lodrisio fosse posto in terra, dopo fattogli assai cerimonie
attorno. Cose, dico, che a prima giunta fanno rabbia. Però, chi appena ci badi,
vien tosto in mente che, se la Provvidenza le ha fatte riuscire in quel modo,
avrà avuto le sue ragioni; e si trova che questo voler vedere ognuno pagato in
questo mondo conforme pare a noi che il suo merito porti, è impazienza,
leggerezza, prosunzione, e peggio; è un supporre d'aver noi più discernimento
di Chi ce l'ha dato; è un dimenticar che quaggiù le partite si piantano, ma si
saldano altrove.
FINE
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