Suonatina per orsi
La più misteriosa, forse, fra le radici più oscure de' miei sentimenti, è
una sottile, profonda radice di simpatia per mastro Bruno, l'onesto mangiatore
di miele. Io mi sono sempre sentita viva
questa radichetta nella parte inferiore del cuore, piuttosto a sinistra che a
destra, prima ancora di accorgermi che spuntavano da quella stessa parte i miei
sentimenti poetici e le mie idee evoluzioniste.
Si comprende che avendo io secondato per tanti anni le inclinazioni più
sinistre del mio cuore, mi sia ora impossibile di udire che anche un solo orso,
un solo tapino orsacchiotto va ballonzolando per la città, senza correrne
subito in cerca e cacciarmi, nel mezzo della via, tra quei poeti e filosofi che
stimano degno uno spettacolo simile di lasciar per esso la casa, la famiglia,
il marciapiede, le cure della vita.
Ciò è naturale; è strano invece che il mio destino, per alimentare questa
simpatia e per condurmi con essa ad una illuminazione interiore della quale
dirò in seguito, mi abbia fatto capitare alle mani, di tempo in tempo, certi
volumi di poeti dove la bonaria e poderosa figura del grande plantigrado mi si
affacciava tra pagina e pagina con quel suo magnetico sguardo triste.
Primo mi comparve, nell'epica larga e serena di Goethe, il vero orso
classico, il sempliciotto Braun che, burlato
atrocemente da Reinecke il volpone, lascia le orecchie, la pelle del muso e gli
artigli delle zampe anteriori nel fesso di un tronco d'albero e, insultato,
picchiato dai villani con le mazze, dalle villane con le granate, persino dalla
serva del prete con le molle, cieco di dolore, corre all'impazzata, si caccia
fra le femmine strillanti, salta nel fiume e si salva solo perchè anche Frau
Jutte, la fantesca, è ruzzolata nell'acqua, e tutti si voltano a pescar lei.
Più tardi, quando mi perdevo deliziosamente nella selva magica dei canti di
Heine, ecco che v'incontro fra gli abeti Atta Troll, l'orso romantico, e Frau
Mumme, la sua venerabile dama. Atta Troll mi affascinò e mi turbò insieme. Egli
non somiglia punto a Braun. È un bestione soprannaturale, un'idea di poeta
fatta orso; vi è in lui qualche cosa d'umano. Atta Troll parla in versi; ciò
prova che non è ancora un animale ragionevole, benchè forse lo potrebbe
diventare. Insomma, quest'animale poetico m'ispirò un primo sospetto confuso di
relazioni possibili fra l'orso e l'uomo. Nel tempo migliore della mia
giovinezza diventai amico ad uno de' più squisiti e delicati artisti di
Francia, il Merimèe; e subito egli mi presentò l'orso mistico, Lochis, l'orso
dalle passioni sovraorsine, che ambisce mescolarsi alla specie umana. Lochis
afferra nel fitto della foresta una bella contessa cacciatrice, la porta via
correndo, e, molto meno bestia di Atta Troll, si guarda bene dal parlarle in
versi. La giovane signora ritorna poi al suo castello. Non ha una sola
graffiatura, ma è fuor di senno per sempre, e
mette alla luce un essere ambiguo, bellissimo, intelligentissimo, che ha la
istintiva cupidigia del sangue, del più giovanile, del più puro, del più dolce.
Egli s'innamora, s'ammoglia e, la prima notte, in un accesso di ferocia, sgozza
con i denti la sua fresca sposa. L'imperatrice Eugenia e le sue dame non
intesero questo racconto enigmatico quando il Merimèe lo lesse loro. Quanto a
me, esso mi offese perchè mi parve ingiusto verso la specie orsina; ma intanto
l'idea di un'affinità fra le due specie faceva occultamente molto cammino
nell'animo mio. Pochi anni or sono mi diedi a studiare la origine delle specie
animali inferiori, e mi convinsi che son tutte procedute poco a poco da una
comune origine e che l'uomo stesso, ultimo venuto, è carne della loro carne. Mi
persuasi dunque della nostra parentela con esse, mi parve ritrovare nel cuore
umano traccie di tutte le bestialità che sono sulla terra, nell'acqua e
nell'aria. Non avevo ancora pensato a studiare particolarmente le somiglianze
morali fra l'uomo e l'orso quando feci conoscenza con le opere d'Ibsen.
Ibsen è nei suoi drammi singolare artista che io non adoro, ma che
rispetto grandemente. Però l'opera sua riuscitami più cara e preziosa è una
poesia dov'egli svela la sottile arte pedagogica dei domatori d'orsi, il metodo
sorprendente col quale s'insegna il ballo a mastro Bruno.
Si piglia, dice Ibsen in questa ispirata lirica, una caldaia, un
caldaione grande, lo si capovolge e vi si accende sotto il fuoco. Subito vi si
fa salir sopra l'orso e ve lo s'incatena così stretto che non ne possa in alcun
modo discendere. Poi si piglia un organino e si suona un'aria qualunque.
Supponiamo che si suoni «Tutto è gioia tutto è festa» della Sonnambula.
Quando l'aria è finita, si ricomincia a suonarla e poi si torna da capo.
Intanto il fuoco lavora, la caldaia si scalda, Bruno diventa inquieto, leva
pian piano una zampa, la posa, ne leva un'altra, la posa, e così la terza e la
quarta, dolcemente. La caldaia scotta, Bruno affretta il giuoco delle zampe. La
caldaia brucia, Bruno salta e balla mentre l'organino seguita con la sua gioia
e con la sua festa. Quando si fa scendere l'orso dalla caldaia la sua
educazione è fatta. Mai più per tutta la vita il mio amico non udrà un organino
suonar quell'aria della Sonnambula senza mettersi immediatamente a
ballare, tanto gli brucierà il ricordo della caldaia. Sarà inutile, in quel
momento, dirgli ch'egli non è ragionevole, giurargli che ha le zampe sul
lastrico della via, o nell'erba fresca, o magari sulla neve; a ogni modo Bruno
ballerà.
Questa poesia subito accese nella mia mente, tanto a ciò preparata e
disposta, una luce mirabile. Vidi la solita prova d'un'affinità occulta
dell'orso con l'uomo e mi fu scoperto il segreto della condotta,
incomprensibile altrimenti, di moltissimi uomini. Succede infatti a una
quantità di persone, anche egregie, di turbarsi, di agitarsi al suono di certe
parole innocue, senza che si possa indovinarne una valida ragione. Se voi
immaginate che vi sia nella umanità loro una certa mescolanza di natura orsina,
intenderete facilmente che il ricordo di qualche spavento associato a una
parola, di qualche dolore, di qualche odio, diremo insomma di qualche passata
caldaia le faccia irragionevolmente ballare. Rammento io stesso che una volta,
mentre tenevo in Napoli una conferenza sulla origine dell'uomo, solo a udir
nominare Darwin e le scimmie, alcuni orsi, cui certo in passato era stata fatta
una terribile paura col darwinismo materialista, si misero incontanente a
ballare nella sala. Ripetei a Milano quella conferenza ed ecco che solo a udir
nominare la Bibbia e la Chiesa, qualche orso che aveva ancora la memoria piena
di scottature antiche, di roghi, di autodafè, non potè ascoltar altro e si mise
furiosamente a ballare. Gli orsi che ballano al nome della scienza e sopra
tutto quelli che ballano al nome della Chiesa sono i più comuni, s'incontrano a
ogni passo, ed è follia tentar di chetarli, cercar che ascoltino e che
ragionino.
Essi non ascoltano e non ragionano; hanno in mente le loro caldaie e
continuano a ballare. Ma poi vi ha pure un'altra grande moltitudine di orsi
politici, dei quali non mi occupo, che non possono udir certi nomi, magari di
cose morte, senza mettersi tosto a ballare per la memoria di battiture passate.
Io ho conosciuto un letterato italiano di molta fama ch'era stato scottato
nella sua gioventù da non so quale strampalata metafora di Victor Hugo, non
aveva più voluto leggerne sillaba e, tosto che udiva il nome del grande poeta,
ballava. Moltissimi che furono tribolati sui banchi della scuola con Orazio e
con Ovidio, quando si parla loro di nuove odi arcaiche, di nuove elegie,
ballano col maggior fervore. Alcuni di coloro che vissero, sentirono e
pensarono nel nostro paese prima del 1859, hanno un tale ricordo della rovente
caldaia austriaca che non soltanto il nome di certi alleati, ma persino il nome
dell'arte e della letteratura tedesca li fa inevitabilmente ballare. Io
viaggiai una volta con una giovine e intelligente signora che parlava assai
volentieri di musica, ne parlava bene e di Rossini neppure poteva udire il nome
senza dare in ismanie di orrore. Poco a poco venni a scoprire ch'ell'aveva
avuto un vecchio professore d'italiano, gran tabaccone, gran ghiottone, sucido,
noioso e odioso a lei, fanatico di Rossini. Conosco adesso che la dama era una
piccola graziosa orsa bianca. Insomma io prego ciascuno che osserva le anime
umane, di accendere il suo lumicino a questa fiaccola offerta dall'Ibsen e di
viaggiare il mondo con esso. Non esito a dire ch'egli spiegherà la maggior
parte delle opinioni e dei sentimenti umani, non con la ragione, ma con la
caldaia. Stolto, costui, se accuserà gli uomini! La colpa è della bestia.
Il destino che mi ha fatto incontrare Ibsen, mi ha poi condotto a
scrivere queste righe nell'Engadina, un classico paese di orsi, dove la zampa
dell'onesto Bruno è glorificata negli stemmi più illustri. Non sarei venuto a
scriverle qui se le credessi ingiuriose per la specie orsina. Io le voglio
bene, le perdono volentieri questa eccessiva vivezza della memoria; e nella sua
stessa stupidità onoro il carattere. Certo la preferisco pura anzi che mista
alla specie nostra. Una gentile fanciulla di Silvaplana mi parlò
spontaneamente, giorni sono, degli orsi, che abbondano su queste montagne:
«Essi sono rispettosi» diss'ella. E suo padre, che si divertiva a parlarmi
latino, soggiunse: Ursi sunt philosophi montium, senatores reipublicæ
helveticæ. Mentre un mio giovane compagno di viaggio correva al pianoforte,
cercando di farne calar qualcuno alla sua musica, io pensai che quei tali orsi
del mio paese non sono sempre filosofi nè
rispettosi, e che io conosco forse meglio del mio amico pianista l'arte di
farli ballare.
|