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Baldassarre Castiglione Il libro del cortegiano IntraText CT - Lettura del testo |
Allor messer Federico, - Perché volete voi, - disse, - che piú s'estimi la consuetudine nella vulgare che nella latina? - Anzi, dell'una e dell'altra, - rispose il Conte, - estimo che la consuetudine sia la maestra. Ma perché quegli omini, ai quali la lingua latina era cosí propria come or è a noi la vulgare, non sono piú al mondo, bisogna che noi dalle lor scritture impariamo quello, che essi aveano imparato dalla consuetudine; né altro vol dir il parlar antico che la consuetudine antica di parlare; e sciocca cosa sarebbe amar il parlar antico non per altro, che per voler piú presto parlare come si parlava, che come si parla. - Dunque, - rispose messer Federico, - gli antichi non imitavano? - Credo, - disse il Conte, - che molti imitavano, ma non in ogni cosa. E se Virgilio avesse in tutto imitato Esiodo, non gli sería passato innanzi; né Cicerone a Crasso, né Ennio ai suoi antecessori. Eccovi che Omero è tanto antico, che da molti si crede che egli cosí sia il primo poeta eroico di tempo, come ancor è d'eccellenzia di dire; e chi vorrete voi che egli imitasse? - Un altro, - rispose messer Federico, - piú antico di lui, del quale non avemmo notizia per la troppo antiquità. - Chi direte adunque, - disse il Conte, - che imitasse il Petrarca e 'l Boccaccio, che pur tre giorni ha, si po dir, che son stati al mondo? - Io nol so, - rispose messer Federico; ma creder si po che essi ancor avessero l'animo indrizzato alla imitazione, benché noi non sappiam di cui -. Rispose il Conte: - Creder si po che que' che erano imitati fossero migliori che que' che imitavano; e troppo maraviglia saria che cosí presto il lor nome e la fama, se eran boni, fosse in tutto spenta. Ma il lor vero maestro cred'io che fosse l'ingegno ed il lor proprio giudicio naturale; e di questo niuno è che si debba maravigliare, perché quasi sempre per diverse vie si po tendere alla sommità d'ogni eccellenzia. Né è natura alcuna che non abbia in sé molte cose della medesima sorte dissimili l'un dall'altra, le quali però son tra sé di equal laude degne. Vedete la musica, le armonie della quale or son gravi e tarde, or velocissime e di novi modi e vie; nientedimeno tutte dilettano, ma per diverse cause, come si comprende nella maniera del cantare di Bidon, la qual è tanto artificiosa, pronta, veemente, concitata e de cosí varie melodie, che i spirti di chi ode tutti si commoveno e s'infiammano e cosí sospesi par che si levino insino al cielo. Né men commove nel suo cantar il nostro Marchetto Cara, ma con piú molle armonia; ché per una via placida e piena di flebile dolcezza intenerisce e penetra le anime imprimendo in esse soavemente una dilettevole passione. Varie cose ancor egualmente piacciono agli occhi nostri, tanto che con difficultà giudicar si po quai piú lor sian grate. Eccovi che nella pittura sono eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna, Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel Franco; nientedimeno, tutti son tra sé nel far dissimili, di modo che ad alcun di loro non par che manchi cosa alcuna in quella maniera, perché si conosce ciascun nel suo stilo esser perfettissimo. Il medesimo è di molti poeti greci e latini, i quali, diversi nello scrivere, sono pari nella laude. Gli oratori ancor hanno avuto sempre tanta diversità tra sé, che quasi ogni età ha produtto ed apprezzato una sorte d'oratori peculiar di quel tempo; i quali non solamente dai precessori e successori suoi, ma tra sé son stati dissimili, come si scrive ne' Greci di Isocrate, Lisia, Eschine e molt'altri, tutti eccellenti, ma a niun però simili forche a se stessi. Tra i Latini poi quel Carbone, Lelio, Scipione Affricano, Galba, Sulpizio, Cotta, Gracco, Marc'Antonio, Crasso e tanti che saria lungo nominare, tutti boni e l'un dall'altro diversissimi; di modo che chi potesse considerar tutti gli oratori che son stati al mondo, quanti oratori tante sorti di dire trovarebbe. Parmi ancor ricordare che Cicerone in un loco introduca Marc'Antonio dir a Sulpizio che molti sono i quali non imitano alcuno e nientedimeno pervengono al sommo grado della eccellenzia; e parla di certi, i quali aveano introdutto una nova forma e figura di dire, bella, ma inusitata agli altri oratori di quel tempo, nella quale non imitavano se non se stessi; però afferma ancor che i maestri debbano considerar la natura dei discipuli e, quella tenendo per guida, indrizzargli ed aiutargli alla via, che lo ingegno loro e la natural disposizion gli inclina. Per questo adunque, messer Federico mio, credo, se l'omo da sé non ha convenienzia con qualsivoglia autore, non sia ben sforzarlo a quella imitazione; perché la virtú di quell'ingegno s'ammorza e resta impedita, per esser deviata dalla strada nella quale avrebbe fatto profitto, se non le fosse stata precisa. Non so adunque come sia bene, in loco d'arricchir questa lingua e darle spirito, grandezza e lume, farla povera, esile, umile ed oscura e cercare di metterla in tante angustie, che ognuno sia sforzato ad imitare solamente il Petrarca e 'l Boccaccio; e che nella lingua non si debba ancor credere al Policiano, a Lorenzo de' Medici, a Francesco Diaceto e ad alcuni altri che pur son toscani, e forse di non minor dottrina e giudicio che si fosse il Petrarca e 'l Boccaccio. E veramente gran miseria saria metter fine e non passar piú avanti di quello che si abbia fatto quasi il primo che ha scritto, e disperarsi che tanti e cosí nobili ingegni possano mai trovar piú che una forma bella di dire in quella lingua, che ad essi è propria e naturale. Ma oggidí son certi scrupolosi, i quali, quasi con una religion e misterii ineffabili di questa lor lingua toscana, spaventano di modo chi gli ascolta, che inducono ancor molti omini nobili e litterati in tanta timidità, che non osano aprir la bocca e confessano di non saper parlar quella lingua, che hanno imparata dalle nutrici insino nelle fasce. Ma di questo parmi che abbiam detto pur troppo; però seguitiamo ormai il ragionamento del cortegiano -.