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Baldassarre Castiglione
Il libro del cortegiano

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LII.

 

Ma parlando della bellezza che noi intendemo, che è quella solamente che appar nei corpi e massimamente nei volti umani e move questo ardente desiderio che noi chiamiamo amore, diremo che è un influsso della bontà divina, il quale, benché si spanda sopra tutte le cose create come il lume del sole, pur quando trova un volto ben misurato e composto con una certa gioconda concordia di colori distinti ed aiutati dai lumi e dall'ombre e da una ordinata distanzia e termini di linee, vi s'infonde e si dimostra bellissimo, e quel subietto ove riluce adorna ed illumina d'una grazia e splendor mirabile, a guisa di raggio di sole che percuota in un bel vaso d'oro terso e variato di preciose gemme; onde piacevolmente tira a sé gli occhi umani e per quelli penetrando s'imprime nell'anima, e con una nova suavità tutta la commove e diletta, ed accendendola da lei desiderar si fa. Essendo adunque l'anima presa dal desiderio di fruir questa bellezza come cosa bona, se guidar si lassa dal giudicio del senso incorre in gravissimi errori e giudica che 'l corpo, nel qual si vede la bellezza, sia la causa principal di quella, onde per fruirla estima essere necessario l'unirsi intimamente piú che po con quel corpo; il che è falso; e però chi pensa, possedendo il corpo, fruir la bellezza, s'inganna e vien mosso non da vera cognizione per elezion di ragione, ma da falsa opinion per l'appetito del senso; onde il piacer che ne segue esso ancora necessariamente è falso e mendoso. E però in un de' dui mali incorrono tutti quegli amanti, che adempiono le lor non oneste voglie con quelle donne che amano; che o vero, súbito che son giunti al fin desiderato, non solamente senton sazietà e fastidio, ma piglian odio alla cosa amata, quasi che l'appetito si ripenta dell'error suo e riconosca l'inganno fattogli dal falso giudicio del senso, per lo quale ha creduto che 'l mal sia bene; o vero restano nel medesimo desiderio ed avidità, come quelli che non son giunti veramente al fine che cercavano; e benché per la cieca opinione, nella quale inebriati si sono, paia loro che in quel punto sentano piacere, come talor gl'infermi che sognano di ber a qualche chiaro fonte, nientedimeno non si contentano, né s'acquetano. E perché dal possedere il ben desiderato nasce sempre quiete e satisfazione nell'animo del possessore, se quello fosse il vero e bon fine del loro desiderio, possedendolo restariano quieti e satisfatti, il che non fanno; anzi, ingannati da quella similitudine, súbito ritornano al sfrenato desiderio e con la medesima molestia che prima sentivano si ritrovano nella furiosa ed ardentissima sete di quello, che in vano sperano di posseder perfettamente. Questi tali inamorati adunque amano infelicissimamente, perché o vero non conseguono mai li desidèri loro, il che è grande infelicità; o ver, se gli consegueno, si trovano aver conseguito il suo male e finìscono le miserie con altre maggior miserie; perché ancora nel principio e nel mezzo di questo amore altro non si sente già mai che affanni, tormenti, dolori, stenti, fatiche; di modo che l'esser pallido, afflitto, in continue lacrime e sospiri, il star mesto, il tacer sempre o lamentarsi, il desiderar di morire, in somma l'esser infelicissimo, son le condicioni che si dicono convenir agli inamorati.

 

 




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