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Baldassarre Castiglione
Il libro del cortegiano

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XXXII.

 

Allora la signora Duchessa, - Non usciam, - disse, - del primo proposito e facciam che 'l conte Ludovico insegni al cortegiano il parlare e scriver bene, e sia o toscano o come si voglia -. Rispose il Conte: - Io già, Signora, ho detto quello che ne so; e tengo che le medesime regule, che serveno ad insegnar l'uno, servano ancor ad insegnar l'altro. Ma poiché mel commandate, risponderò quello che m'occorre a messer Federico, il quale ha diverso parer dal mio; e forse mi bisognerà ragionar un poco più diffusamente che non si conviene; ma questo sarà quanto io posso dire. E primamente dico che, secondo il mio giudicio, questa nostra lingua, che noi chiamiamo vulgare, è ancor tenera e nova, benché già gran tempo si costumi; perché, per essere stata la Italia non solamente vessata e depredata, ma lungamente abitata da' barbari, per lo commerzio di quelle nazioni la lingua latina s'è corrotta e guasta, e da quella corruzione son nate altre lingue; le quai, come i fiumi che dalla cima dell'Appennino fanno divorzio e scorrono nei dui mari, cosí si son esse ancor divise ed alcune tinte di latinità pervenute per diversi camini qual ad una parte e quale ad altra, ed una tinta di barbarie rimasta in Italia. Questa adunque è stata tra noi lungamente incomposta e varia, per non aver avuto chi le abbia posto cura, né in essa scritto, né cercato di darle splendor o grazia alcuna; pur è poi stata alquanto più culta in Toscana, che negli altri lochi della Italia; e per questo par che 'l suo fiore insino da que' primi tempi qui sia rimaso, per aver servato quella nazion gentil accenti nella pronunzia ed ordine grammaticale in quello che si convien, piú che l'altre; ed aver avuti tre nobili scrittori, i quali ingeniosamente e con quelle parole e termini che usava la consuetudine de' loro tempi hanno espresso i lor concetti; il che piú felicemente che agli altri, al parer mio, è successo al Petrarca nelle cose amorose. Nascendo poi di tempo in tempo, non solamente in Toscana ma in tutta la Italia, tra gli omini nobili e versati nelle corti e nell'arme e nelle lettere, qualche studio di parlare e scrivere piú elegantemente, che non si faceva in quella prima età rozza ed inculta, quando lo incendio delle calamità nate da' barbari non era ancor sedato, sonsi lassate molte parole, cosí nella città propria di Fiorenza ed in tutta la Toscana, come nel resto della Italia, ed in loco di quelle riprese dell'altre, e fattosi in questo quella mutazion che si fa in tutte le cose umane; il che è intervenuto sempre ancor delle altre lingue. Ché se quelle prime scritture antiche latine fossero durate insino ad ora, vederemmo che altramente parlavano Evandro e Turno e gli altri Latini di que' tempi, che non fecero poi gli ultimi re romani e i primi consuli. Eccovi che i versi che cantavano i Salii a pena erano dai posteri intesi; ma, essendo di quel modo dai primi institutori ordinati, non si mutavano per riverenzia della religione. Cosí successivamente gli oratori e i poeti andarono lassando molte parole usate dai loro antecessori; ché Antonio, Crasso, Ortensio, Cicerone fuggivano molte di quelle di Catone e Virgilio molte d'Ennio; e cosí fecero gli altri; che, ancor che avessero riverenzia all'antiquità, non la estimavan però tanto, che volessero averle quella obligazion che voi volete che ora le abbiam noi; anzi, dove lor parea, la biasmavano: come Orazio, che dice che i suoi antichi aveano scioccamente laudato Plauto e vol poter acquistare nove parole. E Cicerone in molti lochi riprende molti suoi antecessori; e per biasmare Sergio Galba afferma che le orazioni sue aveano dell'antico; e dice che Ennio ancor sprezzò in alcune cose i suoi antecessori, di modo che, se noi vorremo imitar gli antichi, non gli imitaremo. E Virgilio, che voi dite che imitò Omero, non lo imitò nella lingua.

 

 




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