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Baldassarre Castiglione
Il libro del cortegiano

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XXXV.

 

Se adunque degli omini litterati e di bon ingegno e giudicio, che oggidí tra noi si ritrovano, fossero alcuni, li quali ponessimo cura di scrivere del modo che s'è detto in questa lingua cose degne d'esser lette, tosto la vederessimo culta ed abundante de termini e belle figure, e capace che in essa si scrivesse cosí bene come in qualsivoglia altra; e se ella non fosse pura toscana antica, sarebbe italiana, commune, copiosa e varia, e quasi come un delicioso giardino pien di diversi fiori e frutti. Né sarebbe questo cosa nova; perché delle quattro lingue che aveano in consuetudine, i scrittori greci, elegendo da ciascuna parole, modi e figure, come ben loro veniva, ne facevano nascere un'altra che si diceva commune, e tutte cinque poi sotto un solo nome chiamavano lingua greca; e benché la ateniese fosse elegante, pura e facunda piú che l'altre, i boni scrittori che non erano di nazion ateniesi, non la affettavan tanto, che nel modo dello scrivere e quasi all'odor e proprietà del suo natural parlare non fossero conosciuti; né per questo però erano sprezzati; anzi quei che volevan parer troppo ateniesi, ne rapportavan biasimo. Tra i scrittori latini ancor furono in prezzo a' suoi dí molti non romani, benché in essi non si vedesse quella purità propria della lingua romana, che rare volte possono acquistar quei che son d'altra nazione. Già non fu rifutato Tito Livio, ancora che colui dicesse aver trovato in esso la patavinità, né Virgilio, per esser stato ripreso che non parlava romano; e, come sapete, furono ancor letti ed estimati in Roma molti scrittori di nazione barbari. Ma noi, molto piú severi che gli antichi, imponemo a noi stessi certe nove leggi fuor di proposito, ed avendo inanzi agli occhi le strade battute, cerchiamo anelar per diverticuli; perché nella nostra lingua propria, della quale, come di tutte l'altre, l'officio è esprimer bene e chiaramente i concetti dell'animo, ci dilettiamo della oscurità e, chiamandola lingua vulgare, volemo in essa usar parole che non solamente non son dal vulgo, ma né ancor dagli omini nobili e litterati intese, né piú si usano in parte alcuna; senza aver rispetto che tutti i boni antichi biasmano le parole rifutate dalla consuetudine. La qual voi, al parer mio, non conoscete bene; perché dite che, se qualche vicio di parlare è invalso in molti ignoranti non per questo si dee chiamar consuetudine, né esser accettato per una regula di parlare; e, secondo che altre volte vi ho udito dire, volete poi che in loco de Capitolio si dica Campidoglio; per Ieronimo, Girolamo; aldace per audace; e per patrone, padrone, ed altre tai parole corrotte e guaste, perché cosí si trovan scritte da qualche antico Toscano ignorante e perché cosí dicono oggidí i contadini toscani. La bona consuetudine adunque del parlare credo io che nasca dagli omini che hanno ingegno e che con la dottrina ed esperienzia s'hanno guadagnato il bon giudicio, e con quello concorrono e consentono ad accettar le parole che lor paion bone, le quali si conoscono per un certo giudicio naturale e non per arte o regula alcuna. Non sapete voi che le figure del parlare, le quai dànno tanta grazia e splendor alla orazione, tutte sono abusioni dalle regule grammaticali ma accettate e confirmate dalla usanza, perché, senza poterne render altra ragione, piaceno ed al senso proprio dell'orecchia par che portino suavità e dolcezza? E questa credo io che sia la bona consuetudine; della quale cosí possono essere capaci i Romani, i Napoletani, i Lombardi e gli altri, come i Toscani.

 

 




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