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Baldassarre Castiglione
Il libro del cortegiano

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XXXVIII.

 

Allora messer Federico rispose: lo voglio pur ancor dir questo poco: che è ch'io già non niego che le opinioni e gli ingegni degli omini non siano diversi tra sé, né credo che ben fosse che uno, da natura veemente e concitato, si mettesse a scrivere cose placide, né meno un altro, severo e grave, a scrivere piacevolezze: perché in questo parmi ragionevole che ognuno s'accomodi allo instinto suo proprio. E di ciò, credo, parlava Cicerone quando disse che i maestri avessero riguardo alla natura dei discipuli per non fare come i mal agricultori, che talor nel terreno che solamente è fruttifero per le vigne vogliano seminar grano. Ma a me non po caper nella testa che d'una lingua particulare, la quale non è a tutti gli omini cosí propria come i discorsi ed i pensieri e molte altre operazioni, ma una invenzione contenuta sotto certi termini, non sia piú ragionevole imitar quelli che parlan meglio, che parlare a caso e che, cosí come nel latino l'omo si dee sforzar di assimigliarsi alla lingua di Virgilio e di Cicerone, piú tosto che a quella di Silio o di Cornelio Tacito, cosí nel vulgar non sia meglio imitar quella del Petrarca e del Boccaccio, che d'alcun altro; ma ben in essa esprimere i suoi proprii concetti ed in questo attendere, come insegna Cicerone, allo instinto suo naturale; e cosí si troverà che quella differenzia che voi dite essere tra i boni oratori, consiste nei sensi e non nella lingua -. Allor il Conte, - Dubito, - disse, - che noi entraremo in un gran pelago e lassaremo il nostro primo proposito del cortegiano. Pur domando a voi: in che consiste la bontà di questa lingua? Rispose messer Federico: - Nel servar ben le proprietà di essa e tórla in quella significazione, usando quello stile e que' numeri che hanno fatto tutti quei che hanno scritto bene. - Vorrei, - disse il Conte, - sapere se questo stile e questi numeri di che voi parlate, nascano dalle sentenzie o dalle parole. Dalle parole, - rispose messer Federico. - Adunque, - disse il Conte, - a voi non par che le parole di Silio e di Cornelio Tacito siano quelle medesime che usa Virgilio e Cicerone, né tolte nella medesima significazione? - Rispose messer Federico: - Le medesime son sí, ma alcune mal osservate e tolte diversamente -. Rispose il Conte: - E se d'un libro di Cornelio e d'un di Silio si levassero tutte quelle parole che son poste in altra significazion di quello che fa Virgilio e Cicerone, che seriano pochissime, non direste voi poi che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Virgilio? e che ben fosse imitar quella maniera del dire?

 

 




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