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Carlo Goldoni Il filosofo inglese IntraText CT - Lettura del testo |
SCENA QUATTORDICESIMA
Jacobbe Monduil dal libraio, e detto.
JAC. |
(Ecco Milord, che a torto m'insulta e mi minaccia. Lo compatisco. Amante non sa quel che si faccia). (da sé.) |
MIL. |
(Viene il ribaldo. Ah, sento un di que' moti al cuore. Meglio sarà ch'io parta. Si accende il mio furore).(da sé, in atto di partire.) |
JAC. |
Signor. |
MIL. |
Meco ragioni? |
JAC. |
Bramo parlar con voi, Se farlo mi è permesso. |
MIL. |
Parla. Da me che vuoi? |
JAC. |
Possibile che a un tratto un cavalier gentile Cambiato abbia costume con chi gli parla umile? |
MIL. |
Spicciatevi, parlate. Da me che pretendete? |
JAC. |
Vorrei giustificarmi, signor, se 'l permettete. |
MIL. |
Nuove proteste i' sdegno udir da un menzognero. |
JAC. |
Punitemi, signore, s'io non vi dico il vero; E ben potete voi punirmi in tal maniera, Che della morte sia pena più cruda e fiera. Se il Re mi condannasse, saprei morir contento: La morte non è il male ch'io fuggo e ch'io pavento. Ma a un suddito la vita togliere altrui non spetta; altre saran le mire in voi della vendetta. Che mai potete farmi? Con forza e con danari Farmi insultar dai sgherri? Non è da vostro pari. D'ingiurie caricarmi? Dirmi mendace, astuto? Son povero, egli è vero, ma alfin son conosciuto. La pena ch'io pavento, che a me da voi si appresta, È della grazia vostra la privazion funesta. Un uomo che all'onore consacra i suoi pensieri, Ama le genti oneste, rispetta i cavalieri; Ed essere da questi sprezzato e mal veduto, È pena tal che al cuore porta uno strale acuto. Povero nato i' sono; vivo co' miei sudori; Condiscono il mio pane le grazie ed i favori. Se voi sì saggio e onesto (per questo i' mi confondo), Se voi mi abbandonate, di me che dirà il mondo? Capace voi non siete di dir quel che non è, Ma udransi i miei nemici a mormorar di me. E voi, sol col privarmi di vostra protezione, Fate la mia rovina, la mia disperazione. Eccomi innanzi a voi, mi getto al vostro piede... |
MIL. |
Fermatevi. |
JAC. |
Siam soli, nessuno ora ci vede. E quando sia veduto, signor, non ho rossore Gettarmi in faccia al mondo a' piè di un protettore: Di un protettor sdegnato, che in sen virtuti aduna, Che vuolmi abbandonare, ma sol per mia sfortuna. Non condannarvi ardisco d'ingiusto all'innocenza; Credetemi, signore, v'inganna l'apparenza. O reo non sono, o almeno esserlo non mi pare; Se fossi reo, punito mi han le mie pene amare. Dalla clemenza vostra chiedo pietade in dono; Per grazia, o per giustizia, donatemi il perdono. Certo che non lo chiedo spinto da vil timore, Ma sol perché mi cale del cuor di un protettore. |
MIL. |
Jacob, mi conoscete. Non sono un disumano. Al cuor di un cavaliere voi non parlaste invano. Serbate il dover vostro, portatemi rispetto, E nella grazia mia rimettervi prometto. |
JAC. |
Signor... |
MIL. |
Voi con madama sapete i desir miei. |
JAC. |
Non fui, da che li seppi, veduto andar da lei. |
MIL. |
È ver, ma si coltiva l'abuso degli affetti, In lontananza ancora, coi messi e coi viglietti. |
JAC. |
L'arte de' miei nemici conoscere vi prego. Alla Brindè un viglietto mandai, non ve lo nego. Mandommi la Brindè risposta immantinente; Serbo il suo foglio ancora: ecco, Jacob non mente. Che trattisi di amori per altro non si pensi; Sono diversi molto di questa carta i sensi. Anzi, se li leggeste, Milord, io mi lusingo Che chiaro si vedrebbe s'io son leale, o fingo. Se voi non lo sdegnate, la pongo in vostra mano, Vedrete che i nemici mi hanno accusato invano. |