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Giacomo Leopardi Operette morali IntraText CT - Lettura del testo |
X DIALOGO DI UN FISICO E DI UN METAFISICO
Metafisico. Che è? che hai trovato?
Fisico. L’arte di vivere lungamente.
Metafisico. E cotesto libro che porti?
Fisico. Qui la dichiaro: e per questa invenzione, se gli altri vivranno lungo tempo, io
vivrò per lo meno in eterno; voglio dire che ne acquisterò gloria immortale.
Metafisico. Fa una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi cotesto
libro, sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si
possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente.
Metafisico. In questo mezzo non sarà buono da nulla. Più lo stimerei se contenesse
Fisico. Cotesta è già saputa da un pezzo; e non fu difficile a trovarla.
Metafisico. In ogni modo la stimo più della tua.
Fisico. Perché?
Metafisico. Perché se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna
Fisico. Oh cotesto no: perché la vita è bene da se medesima, e ciascuno la desidera e
l’ama naturalmente.
Metafisico. Così credono gli uomini; ma s’ingannano: come il volgo s’inganna pensando
che i colori sieno qualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma
della luce. Dico che l’uomo non desidera e non ama se non la felicità propria. Però
non ama la vita, se non in quanto la reputa instrumento o subbietto di essa felicità.
In modo che propriamente viene ad amare questa e non quella, ancorché spessissimo
attribuisca all’una l’amore che porta all’altra. Vero è che questo inganno e quello dei
colori sono tutti e due naturali. Ma che l’amore della vita negli uomini non sia
naturale, o vogliamo dire non sia necessario, vedi che moltissimi ai tempi antichi
elessero di morire potendo vivere, e moltissimi ai tempi nostri desiderano la morte in
diversi casi, e alcuni si uccidono di propria mano. Cose che non potrebbero essere se
l’amore della vita per se medesimo fosse natura dell’uomo. Come essendo natura di
ogni vivente l’amore della propria felicità, prima cadrebbe il mondo, che alcuno di
loro lasciasse di amarla e di procurarla a suo modo. Che poi la vita sia bene per se
medesima, aspetto che tu me lo provi, con ragioni o fisiche o metafisiche o di qualunque
disciplina. Per me, dico che la vita felice, saria bene senza fallo; ma come
felice, non come vita. La vita infelice, in quanto all’essere infelice, è male; e atteso che
la natura, almeno quella degli uomini, porta che vita e infelicità non si possono
scompagnare, discorri tu medesimo quello che ne segua.
Fisico. Di grazia, lasciamo cotesta materia, che è troppo malinconica; e senza tante
sottigliezze, rispondimi sinceramente: se l’uomo vivesse e potesse vivere in eterno;
dico senza morire, e non dopo morto; credi tu che non gli piacesse?
Metafisico. A un presupposto favoloso risponderò con qualche favola: tanto più che
non sono mai vissuto in eterno, sicché non posso rispondere per esperienza; né anche
ho parlato con alcuno che fosse immortale; e fuori che nelle favole, non trovo
notizia di persone di tal sorta. Se fosse qui presente il Cagliostro, forse ci potrebbe
dare un poco di lume; essendo vissuto parecchi secoli: se bene, perché poi morì come
gli altri, non pare che fosse immortale. Dirò dunque che il saggio Chirone, che era
dio, coll’andar del tempo si annoiò della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire,
e morì. Or pensa, se l’immortalità rincresce agli Dei, che farebbe agli uomini.
Gl’Iperborei, popolo incognito, ma famoso; ai quali non si può penetrare, né per
terra né per acqua; ricchi di ogni bene; e specialmente di bellissimi asini, dei quali
sogliono fare ecatombe; potendo, se io non m’inganno, essere immortali; perché non
hanno infermità né fatiche né guerre né discordie né carestie né vizi né colpe;
contuttociò muoiono tutti: perché, in capo a mille anni di vita o circa, sazi della
terra, saltano spontaneamente da una certa rupe in mare, e vi si annegano. Aggiungi
quest’altra favola. Bitone e Cleobi fratelli, un giorno di festa, che non erano in pronto
le mule, essendo sottentrati al carro della madre, sacerdotessa di Giunone, e condottala
al tempio; quella supplicò la dea che rimunerasse la pietà de’ figliuoli col
maggior bene che possa cadere negli uomini. Giunone, in vece di farli immortali,
come avrebbe potuto; e allora si costumava; fece che l’uno e l’altro pian piano se ne
morirono in quella medesima ora. Il simile toccò ad Agamede e a Trofonio. Finito il
tempio di Delfo, fecero instanza ad Apollo che li pagasse: il quale rispose volerli
soddisfare fra sette giorni; in questo mezzo attendessero a far gozzoviglia a loro spese.
La settima notte, mandò loro un dolce sonno, dal quale ancora s’hanno a svegliare; e
avuta questa, non dimandarono altra paga. Ma poiché siamo in sulle favole, eccotene
un’altra, intorno alla quale ti vo’ proporre una questione. Io so che oggi i vostri pari
tengono per sentenza certa, che la vita umana, in qualunque paese abitato, e sotto
qualunque cielo, dura naturalmente, eccetto piccole differenze, una medesima quantità
di tempo, considerando ciascun popolo in grosso. Ma qualche buono antico racconta
che gli uomini di alcune parti dell’India e dell’Etiopia non campano oltre a quarant’anni;
chi muore in questa età, muor vecchissimo; e le fanciulle di sette anni
sono di età da marito. Il quale ultimo capo sappiamo che, appresso a poco, si verifica
nella Guinea, nel Decan e in altri luoghi sottoposti alla zona torrida. Dunque, presupponendo
per vero che si trovi una o più nazioni, gli uomini delle quali regolarmente
non passino i quarant’anni di vita; e ciò sia per natura, non, come si è creduto
degli Ottentotti, per altre cagioni; domando se in rispetto a questo, ti pare che i detti
popoli debbano essere più miseri o più felici degli altri?
Fisico. Più miseri senza fallo, venendo a morte più presto.
Metafisico. Io credo il contrario anche per cotesta ragione. Ma qui non consiste il
punto. Fa un poco di avvertenza. Io negava che la pura vita, cioè a dire il semplice
sentimento dell’esser proprio, fosse cosa amabile e desiderabile per natura. Ma quello
che forse più degnamente ha nome altresì di vita, voglio dire l’efficacia e la copia
delle sensazioni, è naturalmente amato e desiderato da tutti gli uomini: perché qualunque
azione o passione viva e forte, purché non ci sia rincrescevole o dolorosa, col
solo essere viva e forte, ci riesce grata, eziandio mancando di ogni altra qualità
dilettevole. Ora in quella specie d’uomini, la vita dei quali si consumasse naturalmente
in ispazio di quarant’anni, cioè nella metà del tempo destinato dalla natura
agli altri uomini; essa vita in ciascheduna sua parte, sarebbe più viva il doppio di
questa nostra: perché, dovendo coloro crescere, e giungere a perfezione, e similmente
appassire e mancare, alla metà del tempo; le operazioni vitali della loro natura, proporzionatamente
a questa celerità, sarebbero in ciascuno istante doppie di forza per
rispetto a quello che accade negli altri; ed anche le azioni volontarie di questi tali, la
mobilità e la vivacità estrinseca, corrisponderebbero a questa maggiore efficacia. Di
modo che essi avrebbero in minore spazio di tempo la stessa quantità di vita che
abbiamo noi. La quale distribuendosi in minor numero d’anni basterebbe a riempierli,
o vi lascerebbe piccoli vani; laddove ella non basta a uno spazio doppio: e gli atti e le
sensazioni di coloro, essendo più forti, e raccolte in un giro più stretto, sarebbero
quasi bastanti a occupare e a vivificare tutta la loro età; dove che nella nostra, molto
più lunga, restano spessissimi e grandi intervalli, vòti di ogni azione e affezione viva.
E poiché non il semplice essere, ma il solo essere felice, è desiderabile; e la buona o
cattiva sorte di chicchessia non si misura dal numero dei giorni; io conchiudo che la
vita di quelle nazioni, che quanto più breve, tanto sarebbe men povera di piacere, o
di quello che è chiamato con questo nome, si vorrebbe anteporre alla vita nostra, ed
anche a quella dei primi re dell’Assiria, dell’Egitto, della Cina, dell’India, e d’altri
paesi; che vissero, per tornare alle favole, migliaia d’anni. Perciò, non solo io non mi
curo dell’immortalità, e sono contento di lasciarla a’ pesci; ai quali la dona il
Leeuwenhoek, purché non sieno mangiati dagli uomini o dalle balene; ma, in cambio
di ritardare o interrompere la vegetazione del nostro corpo per allungare la vita,
come propone il Maupertuis, io vorrei che la potessimo accelerare in modo, che la
vita nostra si riducesse alla misura di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri, dei
quali si dice che i più vecchi non passano l’età di un giorno, e contuttociò muoiono
bisavoli e trisavoli. Nel qual caso, io stimo che non ci rimarrebbe luogo alla noia.
Che pensi di questo ragionamento?
Fisico. Penso che non mi persuade; e che se tu ami la metafisica, io m’attengo alla
fisica: voglio dire che se tu guardi pel sottile, io guardo alla grossa, e me ne contento.
Però senza metter mano al microscopio, giudico che la vita sia più bella della morte,
e do il pomo a quella, guardandole tutte due vestite.
Metafisico. Così giudico anch’io. Ma quando mi torna a mente il costume di quei
barbari, che per ciascun giorno infelice della loro vita, gittavano in un turcasso una
pietruzza nera, e per ogni dì felice, una bianca; penso quanto poco numero delle
bianche è verisimile che fosse trovato in quelle faretre alla morte di ciascheduno, e
quanto gran moltitudine delle nere. E desidero vedermi davanti tutte le pietruzze dei
giorni che mi rimangono; e, sceverandole, aver facoltà di gittar via tutte le nere, e
detrarle dalla mia vita; riserbandomi solo le bianche: quantunque io sappia bene che
non farebbero gran cumulo, e sarebbero di un bianco torbido.
Fisico. Molti, per lo contrario, quando anche tutti i sassolini fossero neri, e più neri
del paragone; vorrebbero potervene aggiungere, benché dello stesso colore: perché
tengono per fermo che niun sassolino sia così nero come l’ultimo. E questi tali, del
cui numero sono anch’io, potranno aggiungere in effetto molti sassolini alla loro
vita, usando l’arte che si mostra in questo mio libro.
Metafisico. Ciascuno pensi ed operi a suo talento: e anche la morte non mancherà di
fare a suo modo. Ma se tu vuoi, prolungando la vita, giovare agli uomini veramente;
trova un’arte per la quale sieno moltiplicate di numero e di gagliardia le sensazioni e
le azioni loro. Nel qual modo, accrescerai propriamente la vita umana, ed empiendo
quegli smisurati intervalli di tempo nei quali il nostro essere è piuttosto durare che
vivere, ti potrai dar vanto di prolungarla. E ciò senza andare in cerca dell’impossibile,
o usar violenza alla natura, anzi secondandola. Non pare a te che gli antichi vivessero
più di noi, dato ancora che, per li pericoli gravi e continui che solevano correre,
morissero comunemente più presto? E farai grandissimo beneficio agli uomini: la
cui vita fu sempre, non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente
agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio. Ma piena d’ozio e di
tedio, che è quanto dire vacua, dà luogo a creder vera quella sentenza di Pirrone, che
dalla vita alla morte non è divario. Il che se io credessi, ti giuro che la morte mi
spaventerebbe non poco. Ma in fine, la vita debb’essere viva, cioè vera vita; o la
morte la supera incomparabilmente di pregio.