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Giacomo Leopardi
Operette morali

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XI DIALOGO DI TORQUATO TASSO E DEL SUO GENIO FAMILIARE

Genio. Come stai, Torquato?

Tasso. Ben sai come si può stare in una prigione, e dentro ai guai fino al collo.

Genio. Via, ma dopo cenato non è tempo da dolersene. Fa buon animo, e ridiamone

insieme.

Tasso. Ci son poco atto. Ma la tua presenza e le tue parole sempre mi consolano.

Siedimi qui accanto.

Genio. Che io segga? La non è già cosa facile a uno spirito. Ma ecco: fa conto ch’io sto

seduto.

Tasso. Oh potess’io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna alla mente,

mi nasce un brivido di gioia, che dalla cima del capo mi si stende fino all’ultima

punta de’ piedi; e non resta in me nervovena che non sia scossa. Talora, pensando

a lei, mi si ravvivano nell’animo certe immagini e certi affetti, tali, che per quel poco

tempo, mi pare di essere ancora quello stesso Torquato che fui prima di aver fatto

esperienza delle sciagure e degli uomini, e che ora io piango tante volte per morto. In

vero, io direi che l’uso del mondo, e l’esercizio de’ patimenti, sogliono come profondare

e sopire dentro a ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di tratto in

tratto si desta per poco spazio, ma tanto più di rado quanto è il progresso degli anni;

sempre più poi si ritira verso il nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima;

finché durando ancora la nostra vita, esso muore. In fine, io mi maraviglio come il

pensiero di una donna abbia tanta forza, da rinnovarmi, per così dire, l’anima, e

farmi dimenticare tante calamità. E se non fosse che io non ho più speranza di rivederla,

crederei non avere ancora perduta la facoltà di essere felice.

Genio. Quale delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata, o pensarne?

Tasso. Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana,

mi pareva e mi pare una dea.

Genio. Coteste dee sono così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto

ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in tasca, per

non abbagliare il mortale che si fa innanzi.

Tasso. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle

donne; che alla prova, elle ci riescano così diverse da quelle che noi le immaginavamo?

Genio. Io non so vedere che colpa s’abbiano in questo, d’esser fatte di carne e sangue,

piuttosto che di ambrosia e nettare. Qual cosa del mondo ha pure un’ombra o una

millesima parte della perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne? E

anche mi pare strano, che non facendovi maraviglia che gli uomini sieno uomini,

cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come

accada, che le donne in fatti non sieno angeli.

Tasso. Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.

Genio. Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e

cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle molto più franco e spedito che

non ti venne fatto mai per l’addietro: anzi all’ultimo le stringerai la mano; ed ella

guardandoti fisso, ti metterà nell’animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto;

e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il

cuore dalla tenerezza.

Tasso. Gran conforto: un sogno in cambio del vero.

Genio. Che cosa è il vero?

Tasso. Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io.

Genio. Bene, io risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra

differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce,

che quello non può mai.

Tasso. Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto un diletto vero?

Genio. Io credo. Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli

rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di

ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone

dell’immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli

dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae. Però non

sono da condannare gli antichi, molto più solleciti, accorti e industriosi di voi, circa

a ogni sorta di godimento possibile alla natura umana, se ebbero per costume di

procurare in vari modi la dolcezza e la giocondità dei sogni; né Pitagora è da riprendere

per avere interdetto il mangiare delle fave, creduto contrario alla tranquillità dei

medesimi sogni, ed atto a intorbidarli; e sono da scusare i superstiziosi che avanti di

coricarsi solevano orare e far libazione a Mercurio conduttore dei sogni, acciò ne

menasse loro di quei lieti; l’immagine del quale tenevano a quest’effetto intagliata in

su’ piedi delle lettiere. Così, non trovando mai la felicità nel tempo della vigilia, si

studiavano di essere felici dormendo: e credo che in parte, e in qualche modo, l’ottenessero;

e che da Mercurio fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.

Tasso. Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o

dell’animo; se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni, converrà

ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io non mi posso

ridurre.

Genio. Già vi sei ridotto e determinato, poiché tu vivi e che tu consenti di vivere. Che

cosa è il piacere?

Tasso. Non ne ho tanta pratica da poterlo conoscere che cosa sia.

Genio. Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è

un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che

l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto, e non un

sentimento. Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro diletto,

ancorché desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie indicibili;

non potendovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei momenti, state sempre

aspettando un goder maggiore e più vero, nel quale consista in somma quel tal

piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agl’istanti futuri di quel medesimo

diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giunger dell’istante che vi soddisfaccia; e

non vi lascia altro bene che la speranza cieca di goder meglio e più veramente in altra

occasione, e il conforto di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto, con

raccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, ma per aiutarvi al persuaderlo

che vorreste pur fare a voi stessi. Però chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza

ad altro effetto né con altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a godere, o di

aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.

Tasso. Non possono gli uomini credere mai di godere presentemente?

Genio. Sempre che credessero cotesto, godrebbero in fatti. Ma narrami tu se in alcun

istante della tua vita, ti ricordi aver detto con piena sincerità ed opinione: io godo.

Ben tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con

sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o passato o futuro, e

non mai presente.

Tasso. Che è quanto dire è sempre nulla.

Genio. Così pare.

Tasso. Anche nei sogni.

Genio. Propriamente parlando.

Tasso. E tuttavia l’obbietto e l’intento della vita nostra, non pure essenziale ma unico,

è il piacere stesso; intendendo per piacere la felicità; che debbe in effetto esser piacere;

da qualunque cosa ella abbia a procedere.

Genio. Certissimo.

Tasso. Laonde la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente imperfetta:

e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato violento.

Genio. Forse.

Tasso. Io non ci veggo forse. Ma dunque perché viviamo noi? voglio dire, perché

consentiamo di vivere?

Genio. Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi, che siete uomini.

Tasso. Io per me ti giuro che non lo so.

Genio. Domandane altri de’ più savi, e forse troverai qualcuno che ti risolva cotesto

dubbio.

Tasso. Così farò. Ma certo questa vita che io meno, è tutta uno stato violento: perché

lasciando anche da parte i dolori, la noia sola mi uccide.

Genio. Che cosa è la noia?

Tasso. Qui l’esperienza non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare

che la noia sia della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre

cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte,

e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’intervalli

della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però,

come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si vòto alcuno; così nella

vita nostra non si vòto; se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette

l’uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo considerato anche in se proprio

e come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a

cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia; la quale

anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto.

Genio. E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima,

radissima e trasparente; perciò come l’aria in questi, così la noia penetra in quelli da

ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che

il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente

dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto;

e il piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, è

composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall’una delle quali passioni non

ha riposo se non cadendo nell’altra. E questo non è tuo destino particolare, ma

comune di tutti gli uomini.

Tasso. Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?

Genio. Il sonno, l’oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti: perché l’uomo

mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.

Tasso. In cambio di cotesta medicina, io mi contento di annoiarmi tutta la vita. Ma

pure la varietà delle azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera

dalla noia, perché non ci reca diletto vero, contuttociò la solleva ed alleggerisce.

Laddove in questa prigionia, separato dal commercio umano, toltomi eziandio lo

scrivere, ridotto a notare per passatempo i tocchi dell’oriuolo, annoverare i correnti,

le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento, trastullarmi colle

farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a

un modo; io non ho cosa che mi scemi in alcuna parte il carico della noia.

Genio. Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta forma di vita?

Tasso. Più settimane, come tu sai.

Genio. Non conosci tu dal primo giorno al presente, alcuna diversità nel fastidio che

ella ti reca?

Tasso. Certo che io lo provava maggiore a principio: perché di mano in mano la

mente, non occupata da altro e non isvagata, mi si viene accostumando a conversare

seco medesima assai più e con maggior sollazzo di prima, e acquistando un abito e

una virtù di favellare in se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mi pare

quasi avere una compagnia di persone in capo che stieno ragionando, e ogni menomo

soggetto che mi si appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me una gran

diceria.

Genio. Cotesto abito te lo vedrai confermare e accrescere di giorno in giorno per

modo, che quando poi ti si renda la facoltà di usare cogli altri uomini, ti parrà essere

più disoccupato stando in compagnia loro, che in solitudine. E quest’assuefazione in

fatto tenore di vita, non credere che intervenga solo a’ tuoi simili, già consueti a

meditare; ma ella interviene in più o men tempo a chicchessia. Di più, l’essere diviso

dagli uomini e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco questa utilità; che l’uomo,

eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per l’esperienza; a poco a poco

assuefacendosi di nuovo a mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più

degne che da vicino, si dimentica della loro vanità e miseria; torna a formarsi e quasi

crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare e desiderare la vita; delle cui speranze,

se non gli è tolto o il potere o il confidare di restituirsi alla società degli uomini, si

va nutrendo e dilettando, come egli soleva a’ suoi primi anni. Di modo che la solitudine

fa quasi l’ufficio della gioventù; o certo ringiovanisce l’animo, ravvalora e rimette

in opera l’immaginazione, e rinnuova nell’uomo esperimentato i beneficii di quella

prima inesperienza che tu sospiri. Io ti lascio; che veggo che il sonno ti viene

entrando; e me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso. Così, tra

sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla;

che questo e l’unico frutto che al mondo se ne può avere, e l’unico intento che

voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi. Spessissimo ve la conviene

strascinare codenti: beato quel che potete o trarvela dietro colle mani, o portarla

in sul dosso. Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a correre in questa carcere, che

sia nelle sale e negli orti quello di chi ti opprime. Addio.

Tasso. Addio. Ma senti. La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella

interrompa la mia tristezza: ma questa per la più parte del tempo è come una notte

oscurissima, senza lunastelle; mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli,

piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare

quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare.

Genio. Ancora non l’hai conosciuto? In qualche liquore generoso.




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