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Giacomo Leopardi
Operette morali

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XII DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE

Un Islandese, che era corso per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime

terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica, e passando sotto la linea

equinoziale in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso

simile a quello che intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza;

quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto

forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque. Vide da lontano un

busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza

degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi

più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto

ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto

mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente;

e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse.

Natura. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?

Islandese. Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi

tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.

Natura. Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se

medesimo. Io sono quella che tu fuggi.

Islandese. La Natura?

Natura. Non altri.

Islandese. Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura

di questa non mi potesse sopraggiungere.

Natura. Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non

ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva a

fuggirmi?

Islandese. Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze, fui

persuaso e chiaro della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali combattendo

continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non dilettano,

e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite

sollecitudini, e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano

dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni

altro desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo

alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del

mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di cosa

negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai

patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni

e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver

quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in opera questa risoluzione, conobbi

per prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo

alcuno, fuggire che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente,

e contentandosi del menomo in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un

qualsivoglia luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia

degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in

solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà.

Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine di piacere, io non poteva mantenermi

però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l’intensità del freddo,

e l’ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi travagliavano di

continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una gran parte del tempo,

m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di modo che, né in casa né a cielo

aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anche potea conservare quella

tranquillità della vita, alla quale principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché

le tempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla,

il sospetto degl’incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di

legno, non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita

sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza,

e quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta; riescono di non poco momento, e molto

più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo nostro è

occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono dagli uomini.

Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi contraeva in me stesso, a

fine d’impedire che l’esser mio non desse noiadanno a cosa alcuna del mondo;

meno mi veniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e tribolassero; mi posi a

cangiar luoghi e climi, per vedere se in alcuna parte della terra potessi non offendendo

non essere offeso, e non godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso

anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere

umano se non solo un clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi

degli animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non

potessero prosperarevivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate,

non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i

termini che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto il

mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio

proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di

procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici,

rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria,

infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto, nei

quali non passa un senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno

un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun’ingiuria.

In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei

terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di

tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille

dagli altri furori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel

gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi,

mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta

lena dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria.

Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi hanno

voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco che

gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i pericoli giornalieri,

sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo antico

non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che ogni

cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io fossi, come

sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Io soglio

prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi infuso tanta e sì

ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale la nostra vita, come priva

di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato

che l’uso di esso piacere sia quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla

sanità del corpo, la più calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la

più contraria alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi

quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in

molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte;

altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più

misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e

l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti

nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore che egli

non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu

non hai dato all’uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e

inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per

grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come

interviene ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali,

anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di

continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello

col calore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo non può mai senza qualche maggiore

o minore incomodità o danno, starsene esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io

non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io

non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: mi

avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto

impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria:

e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri

animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci

pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per

costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e,

per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza:

avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o

si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione,

non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e

lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie

gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i

generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in

lui di continuo, dal quinto suo lustro in , con un tristissimo declinare e perdere

senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al

fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e

agl’incomodi che ne seguono.

Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che

nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed

ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi

offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non

rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e

non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi

o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra

specie, io non me ne avvedrei.

Islandese. Ponghiamo caso che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa, con

grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare

una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso;

umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d’intrattenermi

in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena

mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse

villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Se

querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io

questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo

servigio? e, bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a

questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio,

così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che

io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere,

ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu

non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto

e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t’ho io forse pregato di

pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia?

Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva

sconsentirloripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli

dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno

vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo

che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni

creatura.

Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo

circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che

ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale

sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per

tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.

Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è

distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto

medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi

giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di

tutte le cose che lo compongono?

Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due

leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero la forza di mangiarsi

quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel

giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento,

levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un

superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto

una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo

di non so quale città di Europa.




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