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Giacomo Leopardi Operette morali IntraText CT - Lettura del testo |
XIV DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLE SUE MUMMIE
Coro di morti nello studio di Federico Ruysch
Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
Dall’antico dolor. Profonda notte
Alla speme, al desio, l’arido spirito
Così d’affanno e di temenza è sciolto,
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
A lattante fanciullo erra nell’alma
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
L’ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Però ch’esser beato
Nega ai mortali e nega a’ morti il fato.
Ruysch fuori dello studio, guardando per gli spiragli dell’uscio. Diamine! Chi ha insegnato
la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli? In verità che
io sudo freddo, e per poco non sono più morto di loro. Io non mi pensava perché gli
ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero. Tant’é: con tutta la filosofia,
tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavolo che mi tentò di mettermi questa gente
in casa. Non so che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l’uscio,
o non escano pel buco della chiave, e mi vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto
per paura de’ morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e proviamo un poco
di far paura a loro.
Entrando. Figliuoli, a che giuoco giochiamo? non vi ricordate di essere morti? che è
cotesto baccano? forse vi siete insuperbiti per la visita dello Czar, e vi pensate di non
essere più soggetti alle leggi di prima? Io m’immagino che abbiate avuto intenzione
di far da burla, e non da vero. Se siete risuscitati, me ne rallegro con voi; ma non ho
tanto, che io possa far le spese ai vivi, come ai morti; e però levatevi di casa mia. Se è
vero quel che si dice dei vampiri, e voi siete di quelli, cercate altro sangue da bere; che
io non sono disposto a lasciarmi succhiare il mio, come vi sono stato liberale di quel
finto, che vi ho messo nelle vene. In somma, se vorrete continuare a star quieti e in
silenzio, come siete stati finora, resteremo in buona concordia, e in casa mia non vi
mancherà niente; se no, avvertite ch’io piglio la stanga dell’uscio, e vi ammazzo tutti.
Morto. Non andare in collera; che io ti prometto che resteremo tutti morti come
siamo, senza che tu ci ammazzi.
Ruysch. Dunque che è cotesta fantasia che vi è nata adesso, di cantare?
Morto. Poco fa sulla mezza notte appunto, si e compiuto per la prima volta quell’anno
grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questa similmente è
la prima volta che i morti parlano. E non solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni
sepolcro, giù nel fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e in qualunque
luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza notte, hanno cantato come noi quella
canzoncina che hai sentita.
Ruysch. E quanto dureranno a cantare o a parlare?
Morto. Di cantare hanno già finito. Di parlare hanno facoltà per un quarto d’ora. Poi
tornano in silenzio per insino a tanto che si compie di nuovo lo stesso anno.
Ruysch. Se cotesto è vero, non credo che mi abbiate a rompere il sonno un’altra volta.
Parlate pure insieme liberamente; che io me ne starò qui da parte, e vi ascolterò
volentieri, per curiosità, senza disturbarvi.
Morto. Non possiamo parlare altrimenti, che rispondendo a qualche persona viva.
Chi non ha da replicare ai vivi, finita che ha la canzone, si accheta.
Ruysch. Mi dispiace veramente: perché m’immagino che sarebbe un gran sollazzo a
sentire quello che vi direste fra voi, se poteste parlare insieme.
Morto. Quando anche potessimo, non sentiresti nulla; perché non avremmo che ci
dire.
Ruysch. Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma perché il tempo è corto, e
non lascia luogo a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste
di corpo e d’animo nel punto della morte.
Morto. Del punto proprio della morte, io non me ne accorsi.
Gli altri morti. Né anche noi.
Ruysch. Come non ve n’accorgeste?
Morto. Verbigrazia, come tu non ti accorgi mai del momento che tu cominci a dormire,
per quanta attenzione ci vogli porre.
Ruysch. Ma l’addormentarsi è cosa naturale.
Morto. E il morire non ti pare naturale? mostrami un uomo, o una bestia, o una
Ruysch. Non mi maraviglio più che andiate cantando e parlando, se non vi accorgeste
di morire.
Cosi colui, del colpo non accorto,
Andava combattendo, ed era morto,
dice un poeta italiano. Io mi pensava che sopra questa faccenda della morte, i vostri
pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi. Ma dunque, tornando sul sodo, non
sentiste nessun dolore in punto di morte?
Morto. Che dolore ha da essere quello del quale chi lo prova, non se n’accorge?
Ruysch. A ogni modo, tutti si persuadono che il sentimento della morte sia dolorosissimo.
Morto. Quasi che la morte fosse un sentimento, e non piuttosto il contrario.
Ruysch. E tanto quelli che intorno alla natura dell’anima si accostano col parere degli
Epicurei, quanto quelli che tengono la sentenza comune, tutti, o la più parte, concorrono
in quello ch’io dico; cioè nel credere che la morte sia per natura propria, e
senza nessuna comparazione, un dolore vivissimo.
Morto. Or bene, tu domanderai da nostra parte agli uni e agli altri: se l’uomo non ha
facoltà di avvedersi del punto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minor parte,
gli restano non più che interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope o per
qualunque causa; come si avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessano
del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può
essere che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia
per propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di sentire è, non solo
debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla,
credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo
estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba essere un sentimento grandissimo?
Vedete pure che anche quelli che muoiono di mali acuti e dolorosi, in
sull’appressarsi della morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si quietano e si
riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita, ridotta a piccola quantità,
non e più sufficiente al dolore, sicché questo cessa prima di quella. Tanto dirai da
parte nostra a chiunque si pensa di avere a morir di dolore in punto di morte.
Ruysch. Agli Epicurei forse potranno bastare coteste ragioni. Ma non a quelli che
giudicano altrimenti della sostanza dell’anima; come ho fatto io per lo passato, e farò
da ora innanzi molto maggiormente, avendo udito parlare e cantare i morti. Perché
stimando che il morire consista in una separazione dell’anima dal corpo, non comprenderanno
come queste due cose, congiunte e quasi conglutinate tra loro in modo,
che constituiscono l’una e l’altra una sola persona, si possano separare senza una
grandissima violenza, e un travaglio indicibile.
Morto. Dimmi: lo spirito è forse appiccato al corpo con qualche nervo, o con qualche
muscolo o membrana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spirito si
parte? o forse è un membro del corpo, in modo che n’abbia a essere schiantato o
reciso violentemente? Non vedi che l’anima in tanto esce di esso corpo, in quanto
solo è impedita di rimanervi, e non v’ha più luogo; non già per nessuna forza che ne
la strappi e sradichi? Dimmi ancora: forse nell’entrarvi, ella vi si sente conficcare o
allacciare gagliardamente, o come tu dici, conglutinare? Perché dunque sentirà spiccarsi
all’uscirne, o vogliamo dire proverà una sensazione veementissima? Abbi per
fermo, che l’entrata e l’uscita dell’anima sono parimente quiete, facili e molli.
Ruysch. Dunque che cosa è la morte, se non è dolore?
Morto. Piuttosto piacere che altro. Sappi che il morire, come l’addormentarsi, non si
fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è che questi gradi sono più o meno, e
maggiori o minori, secondo la varietà delle cause e dei generi della morte. Nell’ultimo
di tali istanti la morte non reca né dolore né piacere alcuno, come né anche il
sonno. Negli altri precedenti non può generare dolore perché il dolore è cosa viva, e
i sensi dell’uomo in quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono moribondi,
che è quanto dire estremamente attenuati di forze. Può bene esser causa di piacere:
perché il piacere non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte dei diletti umani
consistono in qualche sorta di languidezza. Di modo che i sensi dell’uomo sono
capaci di piacere anche presso all’estinguersi; atteso che spessissime volte la stessa
languidezza è piacere; massime quando vi libera da patimento; poiché ben sai che la
cessazione di qualunque dolore o disagio, è piacere per se medesima. Sicché il languore
della morte debbe esser più grato secondo che libera l’uomo da maggior patimento.
Per me, se bene nell’ora della morte non posi molta attenzione a quel che io
sentiva, perché mi era proibito dai medici di affaticare il cervello; mi ricordo però
che il senso che provai, non fu molto dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini
dal languore del sonno, nel tempo che si vengono addormentando.
Gli altri morti. Anche a noi pare di ricordarci altrettanto.
Ruysch. Sia come voi dite: benché tutti quelli coi quali ho avuta occasione di ragionare
sopra questa materia, giudicavano molto diversamente: ma, che io mi ricordi, non
allegavano la loro esperienza propria. Ora ditemi: nel tempo della morte, mentre
sentivate quella dolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto fosse una cortesia
della morte; o pure immaginaste qualche altra cosa?
Morto. Finché non fui morto, non mi persuasi mai di non avere a scampare di quel
pericolo; e se non altro, fino all’ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che
mi avanzasse di vita un’ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono.
Gli altri morti. A noi successe il medesimo.
Ruysch. Così Cicerone dice che nessuno è talmente decrepito, che non si prometta di
vivere almanco un anno. Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito
del corpo? Dite: come conosceste d’essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non
m’intendete? Sarà passato il quarto d’ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben
bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un’altra volta: torniamocene a