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Giacomo Leopardi Operette morali IntraText CT - Lettura del testo |
XV DETTI MEMORABILI DI FILIPPO OTTONIERI
Filippo Ottonieri, del quale prendo a scrivere alcuni ragionamenti notabili, che parte
ho uditi dalla sua propria bocca, parte narrati da altri; nacque, e visse il più del
tempo, a Nubiana, nella provincia di Valdivento; dove anche morì poco addietro; e
dove non si ha memoria d’alcuno che fosse ingiuriato da lui, né con fatti né con
parole. Fu odiato comunemente da’ suoi cittadini; perché parve prendere poco piacere
di molte cose che sogliono essere amate e cercate assai dalla maggior parte degli
uomini; benché non facesse alcun segno di avere in poca stima o di riprovare quelli
che più di lui se ne dilettavano e le seguivano. Si crede che egli fosse in effetto, e non
solo nei pensieri, ma nella pratica, quel che gli altri uomini del suo tempo facevano
professione di essere; cioè a dire filosofo. Perciò parve singolare dall’altra gente; benché
non procurasse e non affettasse di apparire diverso dalla moltitudine in cosa
alcuna. Nel quale proposito diceva, che la massima singolarità che oggi si possa trovare
o nei costumi, o negl’instituti, o nei fatti di qualunque persona civile; paragonata
a quella degli uomini che appresso agli antichi furono stimati singolari, non solo e
di altro genere, ma tanto meno diversa che non fu quella, dall’uso ordinario de’
contemporanei, che quantunque paia grandissima ai presenti, sarebbe riuscita agli
antichi o menoma o nulla, eziandio ne’ tempi e nei popoli che furono anticamente
più inciviliti o più corrotti. E misurando la singolarità di Gian Giacomo Rousseau,
che parve singolarissimo ai nostri avi, con quella di Democrito e dei primi filosofi
cinici, soggiungeva, che oggi chiunque vivesse tanto diversamente da noi quanto
vissero quei filosofi dai Greci del loro tempo, non sarebbe avuto per uomo singolare,
ma nella opinione pubblica, sarebbe escluso, per dir così, dalla specie umana. E
giudicava che dalla misura assoluta della singolarità possibile a trovarsi nelle persone
di un luogo o di un tempo qualsivoglia, si possa conoscere la misura della civiltà
degli uomini del medesimo luogo o tempo.
Nella vita, quantunque temperatissimo, si professava epicureo, forse per ischerzo più
che da senno. Ma condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di
colui, molto maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria, che
dall’ozio, dalla negligenza, e dall’uso delle voluttà del corpo; nelle quali cose quegli
riponeva il sommo bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatissima
all’età moderna, fu del tutto aliena dall’antica.
Nella filosofia, godeva di chiamarsi socratico; e spesso, come Socrate, s’intratteneva
una buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e
massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era somministrata
dall’occasione. Ma non frequentava, come Socrate, le botteghe de’ calzolai, de’
legnaiuoli, de’ fabbri e degli altri simili; perché stimava che se i fabbri e i legnaiuoli di
Atene avevano tempo da spendere in filosofare, quelli di Nubiana, se avessero fatto
altrettanto, sarebbero morti di fame. Né anche ragionava, al modo di Socrate, interrogando
e argomentando di continuo; perché diceva che, quantunque i moderni
sieno più pazienti degli antichi, non si troverebbe oggi chi sopportasse di rispondere
a un migliaio di domande continuate, e di ascoltare un centinaio di conclusioni. E
per verità non avea di Socrate altro che il parlare talvolta ironico e dissimulato. E
cercando l’origine della famosa ironia socratica, diceva: Socrate nato con animo assai
gentile, e però con disposizione grandissima ad amare; ma sciagurato oltre modo
nella forma del corpo; verisimilmente fino nella giovanezza disperò di potere essere
amato con altro amore che quello dell’amicizia, poco atto a soddisfare un cuore
delicato e fervido, che spesso senta verso gli altri un affetto molto più dolce. Da altra
parte, con tutto che egli abbondasse di quel coraggio che nasce dalla ragione, non
pare che fosse fornito bastantemente di quello che viene dalla natura, né delle altre
qualità che in quei tempi di guerre e di sedizioni, e in quella tanta licenza degli
Ateniesi, erano necessarie a trattare nella sua patria i negozi pubblici. Al che la sua
forma ingrata e ridicola gli sarebbe anche stata di non piccolo pregiudizio appresso a
un popolo che, eziandio nella lingua, faceva pochissima differenza dal buono al bello,
e oltre di ciò deditissimo a motteggiare. Dunque in una città libera, e piena di
strepito, di passioni, di negozi, di passatempi, di ricchezze e di altre fortune; Socrate
povero, rifiutato dall’amore, poco atto ai maneggi pubblici; e nondimeno dotato di
un ingegno grandissimo, che aggiunto a condizioni tali, doveva accrescere fuor di
modo ogni loro molestia; si pose per ozio a ragionare sottilmente delle azioni, dei
costumi e delle qualità de’ suoi cittadini: nel che gli venne usata una certa ironia;
come naturalmente doveva accadere a chi si trovava impedito di aver parte, per dir
così, nella vita. Ma la mansuetudine e la magnanimità della sua natura, ed anche la
celebrità che egli si venne guadagnando con questi medesimi ragionamenti, e dalla
quale dovette essergli consolato in qualche parte l’amor proprio; fecero che questa
ironia non fu sdegnosa ed acerba, ma riposata e dolce.
Così la filosofia per la prima volta, secondo il famoso detto di Cicerone, fatta scendere
dal cielo, fu introdotta da Socrate nelle città e nelle case; e rimossa dalla speculazione
delle cose occulte, nella quale era stata occupata insino a quel tempo, fu rivolta
a considerare i costumi e la vita degli uomini, e a disputare delle virtù e dei vizi, delle
cose buone ed utili, e delle contrarie. Ma Socrate da principio non ebbe in animo di
fare quest’innovazione, né d’insegnar che che sia, né di conseguire il nome di filosofo;
che a quei tempi era proprio dei soli fisici o metafisici; onde egli per quelle sue tali
discussioni e quei tali colloqui non lo poteva sperare: anzi professò apertamente di
non saper cosa alcuna; e non si propose altro che d’intrattenersi favellando dei casi
altrui; preferito questo passatempo alla filosofia stessa, niente meno che a qualunque
altra scienza ed a qualunque arte, perché inclinando naturalmente alle azioni molto
più che alle speculazioni, non si volgeva al discorrere, se non per le difficoltà che
gl’impedivano l’operare. E nei discorsi, sempre si esercitò colle persone giovani e
belle più volentieri che cogli altri; quasi ingannando il desiderio, e compiacendosi
d’essere stimato da coloro da cui molto maggiormente avrebbe voluto essere amato.
E perciocché tutte le scuole dei filosofi greci nate da indi in poi, derivarono in qualche
modo dalla socratica, concludeva l’Ottonieri, che l’origine di quasi tutta la filosofia
greca, dalla quale nacque la moderna, fu il naso rincagnato, e il viso da satiro, di
un uomo eccellente d’ingegno e ardentissimo di cuore. Anche diceva, che nei libri
dei Socratici, la persona di Socrate è simile a quelle maschere, ciascuna delle quali
nelle nostre commedie antiche, ha da per tutto un nome, un abito, un’indole; ma nel
rimanente varia in ciascuna commedia.
Non lasciò scritta cosa alcuna di filosofia, né d’altro che non appartenesse a uso
privato. E dimandandolo alcuni perché non prendesse a filosofare anche in iscritto,
come soleva fare a voce, e non deponesse i suoi pensieri nelle carte, rispose: il leggere
è un conversare, che si fa con chi scrisse. Ora, come nelle feste e nei sollazzi pubblici,
quelli che non sono o non credono di esser parte dello spettacolo, prestissimo si
annoiano; così nella conversazione è più grato generalmente il parlare che l’ascoltare.
Ma i libri per necessità sono come quelle persone che stando cogli altri, parlano
sempre esse, e non ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro dica molto
buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocché dai lettori gli sia perdonato quel
parlar sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro, come ogni
Non ammetteva distinzione dai negozi ai trastulli; e sempre che era stato occupato in
qualunque cosa, per grave che ella fosse, diceva d’essersi trastullato. Solo se talvolta
era stato qualche poco d’ora senza occupazione, confessava non avere avuto in quell’intervallo
alcun passatempo.
Diceva che i diletti più veri che abbia la nostra vita, sono quelli che nascono dalle
immaginazioni false; e che i fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il
niente nel tutto.
Assomigliava ciascuno de’ piaceri chiamati comunemente reali, a un carciofo di cui,
volendo arrivare alla castagna, bisognasse prima rodere e trangugiare tutte le foglie. E
soggiungeva che questi tali carciofi sono anche rarissimi; che altri in gran numero se
ne trovano, simili a questi nel di fuori, ma dentro senza castagna; e che esso, potendosi
difficilmente adattare a ingoiarsi le foglie, era contento per lo più di astenersi
dagli uni e dagli altri.
Rispondendo a uno che l’interrogò, qual fosse il peggior momento della vita umana,
disse: eccetto il tempo del dolore, come eziandio del timore, io per me crederei che i
peggiori momenti fossero quelli del piacere: perché la speranza e la rimembranza di
questi momenti, le quali occupano il resto della vita, sono cose migliori e più dolci
assai degli stessi diletti. E paragonava universalmente i piaceri umani agli odori: perché
giudicava che questi sogliano lasciare maggior desiderio di sé, che qualunque
altra sensazione, parlando proporzionatamente al diletto; e di tutti i sensi dell’uomo,
il più lontano da potere esser fatto pago dai propri piaceri, stimava che fosse l’odorato.
Anche paragonava gli odori all’aspettativa de’ beni; dicendo che quelle cose
odorifere che sono buone a mangiare, o a gustare in qualunque modo, ordinariamente
vincono coll’odore il sapore; perché gustati piacciono meno ch’a odorarli, o
meno di quel che dall’odore si stimerebbe. E narrava che talvolta gli era avvenuto di
sopportare impazientemente l’indugio di qualche bene, che egli era già certo di conseguire;
e ciò non per grande avidità che sentisse di detto bene, ma per timore di
scemarsene il godimento con fare intorno a questo troppe immaginazioni, che glielo
rappresentassero molto maggiore di quello che egli sarebbe riuscito. E che intanto
aveva fatta ogni diligenza, per divertire la mente dal pensiero di quel bene, come si fa
Diceva altresì che ognuno di noi, da che viene al mondo, è come uno che si corica in
un letto duro e disagiato: dove subito posto, sentendosi stare incomodamente, comincia
a rivolgersi sull’uno e sull’altro fianco, e mutar luogo e giacitura a ogni poco;
e dura così tutta la notte, sempre sperando di poter prendere alla fine un poco di
sonno, e alcune volte credendo essere in punto di addormentarsi; finché venuta l’ora,
senza essersi mai riposato, si leva.
Osservando insieme con alcuni altri certe api occupate nelle loro faccende, disse:
beate voi se non intendete la vostra infelicità.
Non credeva che si potesse né contare tutte le miserie degli uomini, né deplorarne
una sola bastantemente.
A quella questione di Orazio, come avvenga che nessuno è contento del proprio
stato, rispondeva: la cagione è, che nessuno stato è felice. Non meno i sudditi che i
principi, non meno i poveri che i ricchi, non meno i deboli che i potenti, se fossero
felici, sarebbero contentissimi della loro sorte, e non avrebbero invidia all’altrui:
perocché gli uomini non sono più incontentabili, che sia qualunque altro genere: ma
non si possono appagare se non della felicità. Ora, essendo sempre infelici, che
maraviglia è che non sieno mai contenti?
Notava che posto caso che uno si trovasse nel più felice stato di questa terra, senza
che egli si potesse promettere di avanzarlo in nessuna parte e in nessuna guisa; si può
quasi dire che questi sarebbe il più misero di tutti gli uomini. Anche i più vecchi
hanno disegni e speranze di migliorar condizione in qualche maniera. E ricordava un
luogo di Senofonte, dove consiglia che avendosi a comperare un terreno, si compri di
quelli che sono male coltivati; perché, dice, un terreno che non è per darti più frutto
di quello che dà, non ti rallegra tanto, quanto farebbe se tu lo vedessi andare di bene
in meglio; e tutti quegli averi che noi veggiamo che vengono vantaggiando, ci danno
molto più contento che gli altri.
All’incontro notava che niuno stato è così misero, il quale non possa peggiorare; e
che nessun mortale, per infelicissimo che sia, può consolarsi né vantarsi, dicendo
essere in tanta infelicità, che ella non comporti accrescimento. Ancorché la speranza
non abbia termine, i beni degli uomini sono terminati; anzi a un di presso il ricco e
il povero, il signore e il servo, se noi compensiamo le qualità del loro stato colle
assuefazioni e coi desiderii loro, si trovano avere generalmente una stessa quantità di
bene. Ma la natura non ha posto alcun termine ai nostri mali; e quasi la stessa immaginativa
non può fingere alcuna tanta calamità, che non si verifichi di presente, o già
non sia stata verificata, o per ultimo non si possa verificare, in qualcuno della nostra
specie. Per tanto, laddove la maggior parte degli uomini non hanno in verità che
sperare alcuno aumento della quantità di bene che posseggono; a niuno mai nello
spazio di questa vita, può mancar materia non vana di timore: e se la fortuna presto
si riduce in grado, che ella veramente non ha virtù di beneficarci da vantaggio, non
perde però in alcun tempo la facoltà di offenderci con danni nuovi e tali da vincere e
rompere la stessa fermezza della disperazione.
Ridevasi spesse volte di quei filosofi che stimarono che l’uomo si possa sottrarre
dalla potestà della fortuna, disprezzando e riputando come altrui tutti i beni e i mali
che non è in sua propria mano il conseguire o evitare, il mantenere o liberarsene; e
non riponendo la beatitudine e l’infelicità propria in altro, che in quel che dipende
totalmente da esso lui. Sopra la quale opinione, tra le altre cose, diceva: lasciamo
stare che se anche fu mai persona che cogli altri vivesse da vero e perfetto filosofo,
nessuno visse né vive in tal modo seco medesimo; e che tanto è possibile non curarsi
delle cose proprie più che delle altrui, quanto curarsi delle altrui come fossero proprie.
Ma dato che quella disposizione d’animo che dicono questi filosofi, non solo
fosse possibile, che non è, ma si trovasse qui vera ed attuale in uno di noi; vi fosse
anche più perfetta che essi non dicono, confermata e connaturata da uso lunghissimo,
sperimentata in mille casi; forse perciò la beatitudine e l’infelicità di questo tale,
non sarebbero in potere della fortuna? Non soggiacerebbe alla fortuna quella stessa
disposizione d’animo, che questi presumono che ce ne debba sottrarre? La ragione
dell’uomo non e sottoposta tutto giorno a infiniti accidenti? innumerabili morbi che
recano stupidità, delirio, frenesia, furore, scempiaggine, cento altri generi di pazzia
breve o durevole, temporale o perpetua; non la possono turbare, debilitare, stravolgere,
estinguere? La memoria, conservatrice della sapienza, non si va sempre logorando
e scemando dalla giovanezza in giù? quanti nella vecchiaia tornano fanciulli di
mente! e quasi tutti perdono il vigore dello spirito in quella età. Come eziandio per
qualunque mala disposizione del corpo, anco salva ed intera ogni facoltà dell’intelletto
e della memoria, il coraggio e la costanza sogliono, quando più, quando meno,
languire; e non di rado si spengono. In fine, è grande stoltezza confessare che il
nostro corpo è soggetto alle cose che non sono in facoltà nostra, e contuttociò negare
che l’animo, il quale dipende dal corpo quasi in tutto, soggiaccia necessariamente a
cosa alcuna fuori che a noi medesimi. E conchiudeva, che l’uomo tutto intero, e
sempre, e irrepugnabilmente, è in potestà della fortuna.
Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia
più spediente il non esser nato.
In proposito di certa disavventura occorsagli, disse: il perdere una persona amata, per
via di qualche accidente repentino, o per malattia breve e rapida, non è tanto acerbo,
quanto è vedersela distruggere a poco a poco (e questo era accaduto a lui) da una
infermità lunga, dalla quale ella non sia prima estinta, che mutata di corpo e d’animo,
e ridotta già quasi un’altra da quella di prima. Cosa pienissima di miseria: perocché
in tal caso la persona amata non ti si dilegua dinanzi lasciandoti, in cambio di sé, la
immagine che tu ne serbi nell’animo, non meno amabile che fosse per lo passato; ma
ti resta in sugli occhi tutta diversa da quella che tu per l’addietro amavi: in modo che
tutti gl’inganni dell’amore ti sono strappati violentemente dall’animo; e quando ella
poi ti si parte per sempre dalla presenza, quell’immagine prima, che tu avevi di lei nel
pensiero, si trova essere scancellata dalla nuova. Così vieni a perdere la persona amata
interamente; come quella che non ti può sopravvivere né anche nella immaginativa:
la quale, in luogo di alcuna consolazione, non ti porge altro che materia di tristezza.
E in fine, queste simili disavventure non lasciano luogo alcuno di riposarsi in sul
Dolendosi uno di non so qual travaglio, e dicendo: se potessi liberarmi da questo,
tutti gli altri che ho, mi sarebbero leggerissimi a sopportare; rispose: anzi allora ti
sarebbero gravi, ora ti sono leggeri.
Dicendo un altro: se questo dolore fosse durato più, non sarebbe stato sopportabile;
rispose: anzi, per l’assuefazione, l’avresti sopportato meglio.
E in molte cose attenenti alla natura degli uomini, si discostava dai giudizi comuni
della moltitudine, e da quelli anco dei savi talvolta. Come, per modo di esempio,
negava che al dimandare e al pregare, sieno opportuni i tempi di qualche insolita
allegrezza di quelli a cui le dimande o le preghiere sono da porgere. Massimamente,
diceva, quando la instanza non sia tale, che ella, per la parte di chi è pregato o richiesto,
si possa soddisfare presentemente, con solo o poco più che un semplice
acconsentirla; io reputo che nelle persone il giubilo, sia cosa, a impetrar che che sia
da esse, non manco inopportuna e contraria, che il dolore. Perciocché l’una e l’altra
passione riempiono parimente l’uomo del pensiero di se medesimo in guisa, che non
lasciano luogo a quelli delle cose altrui. Come nel dolore il nostro male, così nella
grande allegrezza il bene, tengono intenti e occupati gli animi, e inetti alla cura dei
bisogni e desiderii d’altri. Dalla compassione specialmente, sono alienissimi l’uno e
l’altro tempo; quello del dolore, perché l’uomo è tutto volto alla pietà di se stesso;
quello della gioia, perché allora tutte le cose umane, e tutta la vita, ci si rappresentano
lietissime e piacevolissime; tanto che le sventure e i travagli paiono quasi immaginazioni
vane, o certo se ne rifiuta il pensiero, per essere troppo discorde dalla presente
disposizione del nostro animo. I migliori tempi da tentar di ridurre alcuno a operar
di presente, o a risolversi di operare, in altrui beneficio, sono quelli di qualche
allegrezza placida e moderata, non istraordinaria, non viva; o pure, ed anco maggiormente,
quelli di una cotal gioia, che, quantunque viva, non ha soggetto alcuno determinato,
ma nasce da pensieri vaghi, e consiste in una tranquilla agitazione dello
spirito. Nel quale stato, gli uomini sono più disposti alla compassione che mai, più
facili a chi li prega, e talvolta abbracciano volentieri l’occasione di gratificare gli altri,
e di volgere quel movimento confuso e quel piacevole impeto de’ loro pensieri, in
Negava similmente che l’infelice, narrando o come che sia dimostrando i suoi mali,
riporti per l’ordinario maggior compassione e maggior cura da quelli che hanno con
lui maggiore conformità di travagli. Anzi questi in udire le tue querele, o intendere la
tua condizione in qualunque modo, non attendono ad altro, che ad anteporre seco
stessi, come più gravi, i loro a’ tuoi mali: e spesso accade che, quando più ti pensi che
sieno commossi sopra il tuo stato, quelli t’interrompono narrandoti la sorte loro, e
sforzandosi di persuaderti che ella sia meno tollerabile della tua. E diceva che in tali
casi avviene ordinariamente quello che nella Iliade si legge di Achille, quando Priamo
supplichevole e piangente gli e prostrato ai piedi: il quale finito che ha quel suo
lamento miserabile, Achille si pone a piangere seco, non già dei mali di quello, ma
delle sventure proprie, e per la ricordanza del padre, e dell’amico ucciso. Soggiungeva,
che ben suole alquanto conferire alla compassione l’avere sperimentato altre volte in
sé quegli stessi mali che si odono o veggono essere in altri, ma non il sostenerli al
Diceva che la negligenza e l’inconsideratezza sono causa di commettere infinite cose
crudeli o malvage; e spessissimo hanno apparenza di malvagità o crudeltà: come, a
cagione di esempio, in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo,
lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per animo duro e
spietato, ma non pensandovi, o non misurando colla mente il loro disagio. E stimava
che negli uomini l’inconsideratezza sia molto più comune della malvagità, della
inumanità e simili; e da quella abbia origine un numero assai maggiore di cattive
opere: e che una grandissima parte delle azioni e dei portamenti degli uomini che si
attribuiscono a qualche pessima qualità morale, non sieno veramente altro che
Disse in certa occasione, essere manco grave al benefattore la piena ed espressa ingratitudine,
che il vedersi rimunerare di un beneficio grande con uno piccolo, col quale
il beneficato, o per grossezza di giudizio o per malvagità, si creda o si pretenda sciolto
dall’obbligo verso lui; ed esso apparisca ricompensato, o per civiltà gli convenga far
dimostrazione di tenersi tale: in modo che dall’una parte, venga ad essere defraudato
anche della nuda e infruttuosa gratitudine dell’animo, la quale verisimilmente egli si
aveva promessa in qualunque caso; dall’altra parte, gli sia tolta la facoltà di liberamente
querelarsi dell’ingratitudine, o di apparire, siccome egli è nell’effetto, male e
Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo inclinati e soliti a
presupporre in quelli coi quali ci avviene di conversare, molta acutezza e maestria per
iscorgere i nostri pregi veri, o che noi c’immaginiamo, e per conoscere la bellezza o
qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta profondità, ed
un abito grande di meditare, e molta memoria, per considerare esse virtù ed essi
pregi, e tenerli poi sempre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non
iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra noi di scoprirvele.
Notava che talora gli uomini irresoluti sono perseverantissimi nei loro propositi, non
ostante qualunque difficoltà; e questo per la stessa loro irresolutezza; atteso che a
lasciare la deliberazione fatta, converrebbe si risolvessero un’altra volta. Talora sono
prontissimi ed efficacissimi nel mettere in opera quello che hanno risoluto: perché
temendo essi medesimi d’indursi di momento in momento ad abbandonare il partito
preso, e di ritornare in quella travagliosissima perplessità e sospensione d’animo,
nella quale furono prima di determinarsi; affrettano la esecuzione, e vi adoprano
ogni loro forza; stimolati più dall’ansietà e dall’incertezza di vincere se medesimi, che
dal proprio oggetto dell’impresa, e dagli altri ostacoli che essi abbiano a superare per
Diceva alle volte ridendo, che le persone assuefatte a comunicare di continuo cogli
altri i propri pensieri e sentimenti, esclamano, anco essendo sole, se una mosca le
morde, o che si versi loro un vaso, o fugga loro di mano; e che per lo contrario quelle
che sono usate di vivere seco stesse e di contenersi nel proprio interno, se anco si
sentono cogliere da un’apoplessia, trovandosi pure in presenza d’altri, non aprono
Stimava che una buona parte degli uomini, antichi e moderni, che sono riputati
grandi o straordinari, conseguissero questa riputazione in virtù principalmente dell’eccesso
di qualche loro qualità sopra le altre. E che uno in cui le qualità dello spirito
sieno bilanciate e proporzionate fra loro; se bene elle fossero o straordinarie o grandi
oltre modo, possa con difficoltà far cose degne dell’uno o dell’altro titolo, ed apparire
ai presenti o ai futuri né grande né straordinario.
Distingueva nelle moderne nazioni civili tre generi di persone. Il primo, di quelle in
cui la natura propria, ed anco in gran parte la natura comune degli uomini, si trova
mutata e trasformata dall’arte, e dagli abiti della vita cittadinesca. Di questo genere
di persone diceva essere tutte quelle che sono atte ai negozi privati o pubblici; a
partecipare con diletto nel commercio gentile degli uomini, e riuscire scambievolmente
grate a quelli coi quali si abbattono a convivere, o a praticare personalmente
in uno o altro modo; in fine, all’uso della presente vita civile. E a questo solo genere,
parlando universalmente, diceva toccare ed appartenere nelle dette nazioni la stima
degli uomini. Il secondo, essere di quelli in cui la natura non si trova mutata
bastantemente dalla sua prima condizione; o per non essere stata, come si dice, coltivata;
o perciocché, per sua strettezza e insufficienza, fu poco atta a ricevere e a
conservare le impressioni e gli effetti dell’arte, della pratica e dell’esempio. Questo
essere il più numeroso dei tre; ma disprezzato non manco da se medesimo che dagli
altri, degno di piccola considerazione; e in somma consistere in quella gente che ha o
merita nome di volgo, in qualunque ordine e stato sia posta dalla fortuna. Il terzo,
incomparabilmente inferiore di numero agli altri due, quasi così disprezzato come il
secondo, e spesso anco maggiormente, essere di quelle persone in cui la natura per
soprabbondanza di forza, ha resistito all’arte del nostro presente vivere, ed esclusala e
ributtata da sé; non ricevutone se non così piccola parte, che questa alle dette persone
non è bastante per l’uso dei negozi e per governarsi cogli uomini, né per sapere
anco riuscire conversando, né dilettevoli, né pregiate. E suddivideva questo genere in
due specie: l’una al tutto forte e gagliarda; disprezzatrice del disprezzo che le è portato
universalmente, e spesso più lieta di questo, che se ella fosse onorata; diversa dagli
altri non per sola necessità di natura, ma eziandio per volontà e di buon grado;
rimota dalle speranze o dai piaceri del commercio degli uomini, e solitaria nel mezzo
delle città, non meno perché fugge essa dall’altra gente, che per essere fuggita. Di
questa specie soggiungeva non si trovare se non rarissimi. Nella natura dell’altra,
diceva essere congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e di timidità; in
modo che essa natura combatte seco medesima. Perocché gli uomini di questa seconda
specie, non essendo di volontà punto alieni dal conversare cogli altri, desiderando
in molte e diverse cose di rendersi conformi o simili a quelli del primo genere,
dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui si veggono essere, e di parere da
meno di uomini smisuratamente inferiori a sé d’ingegno e d’animo; non vengono a
capo, non ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all’uso pratico
della vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a sé, non che altrui. Tali
essere stati negli ultimi tempi, ed essere all’età nostra, se bene l’uno più, l’altro meno,
non pochi degl’ingegni maggiori e più delicati. E per un esempio insigne, recava
Gian Giacomo Rousseau; aggiungendo a questo un altro esempio, ricavato dagli
antichi, cioè Virgilio: del quale nella Vita latina che porta il nome di Donato grammatico,
è riferito coll’autorità di Melisso pure grammatico, liberto di Mecenate, che
egli fu nel favellare tardissimo, e poco diverso dagl’indotti. E che ciò sia vero, e che
Virgilio, per la stessa maravigliosa finezza dell’ingegno, fosse poco atto a praticare
cogli uomini, gli pareva si potesse raccorre molto probabilmente, sì dall’artificio sottilissimo
e faticosissimo del suo stile, e sì dalla propria indole di quella poesia: come
anche da ciò che si legge in sulla fine del secondo delle Georgiche. Dove il poeta,
contro l’uso dei Romani antichi, e massimamente di quelli d’ingegno grande, si professa
desideroso della vita oscura e solitaria; e questo in una cotal guisa, che si può
comprendere che egli vi e sforzato dalla sua natura, anzi che inclinato; e che l’ama
più come rimedio o rifugio, che come bene. E perciocché, generalmente parlando,
gli uomini di questa e dell’altra specie, non sono avuti in pregio, se non se alcuni
dopo morte, e quelli del secondo genere vivi, non che morti, sono in poco o niun
conto; giudicava potersi affermare in universale, che ai nostri tempi, la stima comune
degli uomini non si ottenga in vita con altro modo, che con discostarsi e tramutarsi
di gran lunga dall’essere naturale. Oltre di questo, perciocché nei tempi presenti
tutta, per dir così, la vita civile consiste nelle persone del primo genere, la natura del
quale tiene come il mezzo tra quelle de’ due rimanenti; conchiudeva che anche per
questa via, come per altre mille, si può conoscere che oggidì l’uso, il maneggio, e la
potestà delle cose, stanno quasi totalmente nelle mani della mediocrità.
Distingueva ancora tre stati della vecchiezza considerata in rispetto alle altre età dell’uomo.
Nei principii delle nazioni, quando di costumi e d’abito, tutte le età furono
giuste e virtuose; e mentre la esperienza e la cognizione degli uomini e della vita, non
ebbero per proprietà di alienare gli animi dall’onesto e dal retto; la vecchiezza fu
venerabile sopra le altre età: perché colla giustizia e con simili pregi, allora comuni a
tutte, concorreva in essa, come è natura che vi si trovi, maggior senno e prudenza che
nelle altre. In successo di tempo, per lo contrario, corrotti e pervertiti i costumi,
niuna età fu più vile ed abbominabile della vecchiezza; inclinata coll’affetto al male
più delle altre, per la più lunga consuetudine, per la maggior conoscenza e pratica
delle cose umane, per gli effetti dell’altrui malvagità, più lungamente e in maggior
numero sopportati, e per quella freddezza che ella ha da natura; e nel tempo stesso
impotente a operarlo, salvo colle calunnie, le frodi, le perfidie, le astuzie, le simulazioni,
e in breve con quelle arti che tra le scellerate sono abbiettissime. Ma poiché la
corruttela delle nazioni ebbe trapassato ogni termine, e che il disprezzo della rettitudine
e della virtù precorse negli uomini l’esperienza e la cognizione del mondo e del
tristo vero; anzi, per dir così, l’esperienza e la cognizione precorsero l’età, e l’uomo
già nella puerizia fu esperto, addottrinato e guasto; la vecchiezza divenne, non dico
già venerabile, che da indi innanzi molto poche cose furono capaci di questo titolo,
ma più tollerabile delle altre età. Perocché il fervore dell’animo e la gagliardia del
corpo, che per l’addietro, giovando all’immaginativa, ed alla nobiltà dei pensieri,
non di rado erano state in qualche parte cagione di costumi, di sensi e di opere
virtuose; furono solamente stimoli e ministri del mal volere o del male operare, e
diedero spirito e vivezza alla malvagità: la quale nel declinare degli anni, fu mitigata
e sedata dalla freddezza del cuore, e dall’imbecillità delle membra; cose per altro più
conducenti al vizio che alla virtù. Oltre che la stessa molta esperienza e notizia delle
cose umane, divenute al tutto inamabili, fastidiose e vili; in luogo di volgere all’iniquità
i buoni come per lo passato, acquistò forza di scemarne e talvolta spegnerne
l’amore nei tristi. Laonde, in quanto ai costumi, parlando della vecchiezza a comparazione
delle altre età, si può dire che ella fosse nei primi tempi, come è al buono il
migliore; nei corrotti, come al cattivo il pessimo; nei seguenti e peggiori, al contrario.
Ragionava spesso di quella qualità di amor proprio che oggi è detta egoismo;
porgendosegli, credo io, frequentemente l’occasione di entrarne in parole. Nella qual
materia narrerò qualcuna delle sue sentenze. Diceva che oggidì, qualora ti è lodato
alcuno, o vituperato, di probità o del contrario, da persona che abbia avuto a fare
seco, o che di presente abbia; tu non ricevi di quel tale altra contezza, se non che
questa persona che lo biasima o loda, è bene o male soddisfatta di lui: bene, se lo
rappresenta per buono; male, se per malvagio.
Negava che alcuno a questi tempi possa amare senza rivale; e dimandato del perché,
rispondeva: perché certo l’amato o l’amata è rivale ardentissimo dell’amante.
Facciamo caso, diceva, che tu richiegga di un piacere una qualsivoglia persona; della
qual dimanda non ti si possa soddisfare senza incorrere nell’odio o nella mala volontà
di un terzo; e questo terzo, tu e la persona richiesta, supponghiamo che in istato e in
potere, siete tutti e tre uguali, poco più o meno. Io dico che verisimilmente la tua
dimanda non ti verrà conseguita per nessun modo; posto eziandio che il gratificartene
avesse dovuto obbligarti grandemente al gratificatore, e fargli anche più benevolo
te, che inimico quel terzo. Ma dall’odio e dall’ira degli uomini si teme assai più che
dall’amore e dalla gratitudine non si spera: e ragionevolmente: perché in generale si
vede, che quelle due prime passioni operano più spesso, e nell’operare mostrano
molto maggiore efficacia, che le contrarie. La cagione è, che chi si sforza di nuocere
a quelli che egli odia, e chi cerca vendetta, opera per sé; chi si studia di giovare a
quelli che egli ama, e chi rimerita i benefizi ricevuti, opera per gli amici e i benefattori.
Diceva che universalmente gli ossequi e i servigi che si fanno agli altri con isperanze
e disegni di utilità propria, rade volte conseguiscono il loro fine; perché gli uomini,
massimamente oggi, che hanno più scienza e più senno che per l’addietro, sono facili
a ricevere e difficili a rendere. Nondimeno, che di tali ossequi e servigi, quelli che
sono prestati da alcuni giovani a vecchie ricche o potenti, ottengono il loro fine, non
solo più spesse volte che gli altri, ma il più delle volte.
Queste considerazioni infrascritte, che concernono principalmente i costumi moderni,
mi ricordo averle udite dalla sua bocca. Oggi non è cosa alcuna che faccia
vergogna appresso agli uomini usati e sperimentati nel mondo, salvo che il vergognarsi;
né di cosa alcuna questi sì fatti uomini si vergognano, fuorché di questa, se a
caso qualche volta v’incorrono.
Maraviglioso potere è quel della moda: la quale, laddove le nazioni e gli uomini sono
tenacissimi delle usanze in ogni altra cosa, e ostinatissimi a giudicare, operare e procedere
secondo la consuetudine, eziandio contro ragione e con loro danno; essa sempre
che vuole, in un tratto li fa deporre, variare, assumere usi, modi e giudizi, quando
pur quello che abbandonano sia ragionevole, utile, bello e conveniente, e quello che
abbracciano, il contrario.
D’infinite cose che nella vita comune, o negli uomini particolari, sono ridicole veramente,
è rarissimo che si rida; e se pure alcuno vi si prova, non gli venendo fatto di
comunicare il suo riso agli altri, presto se ne rimane. All’incontro, di mille cose o
gravissime o convenientissime, tutto giorno si ride, e con facilità grande se ne muovono
le risa negli altri. Anzi le più delle cose delle quali si ride ordinariamente, sono
tutt’altro che ridicole in effetto; e di moltissime si ride per questa cagione stessa, che
elle non sono degne di riso o in parte alcuna o tanto che basti.
Diciamo e udiamo dire a ogni tratto: i buoni antichi, i nostri buoni antenati; e uomo
fatto all’antica, volendo dire uomo dabbene e da potersene fidare. Ciascuna generazione
crede dall’una parte, che i passati fossero migliori dei presenti; dall’altra parte,
che i popoli migliorino allontanandosi dal loro primo stato ogni giorno più; verso il
quale se eglino retrocedessero, che allora senza dubbio alcuno peggiorerebbero.
Certamente il vero non è bello. Nondimeno anche il vero può spesse volte porgere
qualche diletto: e se nelle cose umane il bello è da preporre al vero, questo, dove
manchi il bello, è da preferire ad ogni altra cosa. Ora nelle città grandi, tu sei lontano
dal bello: perché il bello non ha più luogo nessuno nella vita degli uomini. Sei lontano
anche dal vero: perché nelle città grandi ogni cosa è finta, o vana. Di modo che
ivi, per dir così, tu non vedi, non odi, non tocchi, non respiri altro che falsità, e
questa brutta e spiacevole. Il che agli spiriti delicati si può dire che sia la maggior
Quelli che non hanno necessità di provvedere essi medesimi ai loro bisogni, e però
ne lasciano la cura agli altri, non possono per l’ordinario provvedere, o in guisa alcuna,
o solo con grandissima difficoltà, e meno suffcientemente che gli altri, a un
bisogno principalissimo che in ogni modo hanno. Dico quello di occupare la vita: il
quale è maggiore assai di tutti i bisogni particolari ai quali, occupandola, si provvede;
e maggiore eziandio che il bisogno di vivere. Anzi il vivere, per se stesso, non è
bisogno; perché disgiunto dalla felicità, non è bene. Dove che posta la vita, è sommo
e primo bisogno il condurla con minore infelicità che si possa. Ora dall’una parte, la
vita disoccupata o vacua, è infelicissima. Dall’altra parte, il modo di occupazione col
quale la vita si fa manco infelice che con alcun altro, si è quello che consiste nel
provvedere ai propri bisogni.
Diceva che il costume di vendere e comperare uomini, era cosa utile al genere umano:
e allegava che l’uso dell’innestare il vaiuolo venne in Costantinopoli, donde passò
in Inghilterra, e di là nelle altre parti d’Europa, dalla Circassia; dove l’infermità del
vaiuolo naturale, pregiudicando alla vita o alle forme dei fanciulli e dei giovani, danneggiava
molto il mercato che fanno quei popoli delle loro donzelle.
Narrava di se medesimo, che quando prima uscì delle scuole ed entrò nel mondo,
propose, come giovanetto inesperto e amico della verità, di non voler mai lodare né
persona né cosa che gli occorresse nel commercio degli uomini, se non se qualora ella
fosse tale, che gli paresse veramente lodevole. Ma che passato un anno, nel quale,
mantenendo il proposito fatto, non gli venne lodata né cosa né persona alcuna; temendo
non si dimenticare al tutto, per mancamento di esercizio, quello che nella
rettorica non molto prima aveva imparato circa il genere encomiastico o lodativo,
ruppe il proposito; e indi a poco se ne rimosse totalmente.
Usava di farsi leggere quando un libro quando un altro, per lo più di scrittore antico;
e interponeva alla lettura qualche suo detto, e quasi annotazioncella a voce, sopra
questo o quel passo, di mano in mano. Udendo leggere nelle Vite dei filosofi scritte
da Diogene Laerzio, che interrogato Chilone in che differiscano gli addottrinati dagl’indotti,
rispose che nelle buone speranze; disse: oggi è tutto l’opposto; perché
gl’ignoranti sperano, e i conoscenti non isperano cosa alcuna.
Similmente, leggendosi nelle dette Vite come Socrate affermava essere al mondo un
solo bene, e questo essere la scienza; e un solo male, e questo essere l’ignoranza; disse:
della scienza e dell’ignoranza antica non so; ma oggi io volgerei questo detto al contrario.
Nello stesso libro riportandosi questo dogma della setta degli Egesiaci: il sapiente, che
che egli si faccia, farà ogni cosa a suo beneficio proprio; disse: se tutti quelli che procedono
in questo modo sono filosofi, oramai venga Platone, e riduca ad atto la sua
repubblica in tutto il mondo civile.
Commendava molto una sentenza di Bione boristenite, posta dal medesimo Laerzio;
che i più travagliati di tutti, sono quelli che cercano le maggiori felicità. E soggiungeva
che, all’incontro, i più beati sono quelli che più si possono e sogliono pascere delle
minime, e anco da poi che sono passate, rivolgerle e assaporarle a bell’agio colla
Recava alle varie età delle nazioni civili quel verso greco che suona: i giovani fanno, i
mezzani consultano, i vecchi desiderano; dicendo che in vero non rimane all’età presente
altro che desiderio.
A un passo di Plutarco, che è trasportato da Marcello Adriani giovane in queste
parole: molto meno arieno ancora gli Spartani patito l’insolenza e buffonerie di Stratocle:
il quale avendo persuaso il popolo (ciò furono gli Ateniesi) a sacrificare come vincitore;
che poi, sentito il vero della rotta, si sdegnava; disse: qual ingiuria riceveste da me, che
seppi tenervi in festa ed in gioia per ispazio di tre giorni? soggiunse l’Ottonieri: il simile
si potrebbe rispondere molto convenientemente a quelli che si dolgono della natura,
gravandosi che ella, per quanto è in sé, tenga celato a ciascuno il vero, e coperto con
molte apparenze vane, ma belle e dilettevoli: che ingiuria vi fa ella a tenervi lieti per
tre o quattro giorni? E in altra occasione disse, potersi appropriare alla nostra specie
universalmente, avendo rispetto agli errori naturali dell’uomo, quello che del fanciullo
ridotto ingannevolmente a prendere la medicina, dice il Tasso: e da l’inganno
Nei Paradossi di Cicerone essendogli letto un luogo, che in volgare si ridurrebbe
come segue: forse le voluttà fanno la persona migliore o più lodevole? e hacci per avventura
alcuno che del goderle si magnifici o pavoneggi? disse: caro Cicerone, che i moderni
divengano per la voluttà o migliori o più lodevoli, non ardisco dire; ma più lodati,
sì bene. Anzi hai da sapere che oggi questo solo cammino di lode si propongono e
seguono quasi tutti i giovani; cioè quello che mena per le voluttà. Delle quali non
pure si vantano, ottenendole, e ne fanno infinite novelle cogli amici e cogli strani,
con chi vuole e con chi non vorrebbe udire; ma oltre di ciò moltissime ne appetiscono
e ne procacciano, non come voluttà, ma come cagione di lode e di fama, e come
materia da gloriarsi; moltissime eziandio se ne attribuiscono o non ottenute, o anco
pure non cercate, o finte del tutto.
Notava nell’istoria che scrisse Arriano delle imprese di Alessandro Magno, che alla
giornata dell’Isso, Dario collocò i soldati mercenari greci nella fronte dell’esercito, e
Alessandro i suoi mercenari pur greci alle spalle; e stimava che da questa circostanza
sola senza più, si fosse potuto antivedere il successo della battaglia.
Non riprendeva, anzi lodava ed amava, che gli scrittori ragionassero molto di se
medesimi: perché diceva che in questo, sono quasi sempre e quasi tutti eloquenti, e
hanno per l’ordinario lo stile buono e convenevole, eziandio contro il consueto o del
tempo, o della nazione, o proprio loro. E ciò non essere maraviglia; poiché quelli che
scrivono delle cose proprie, hanno l’animo fortemente preso e occupato dalla materia;
non mancano mai né di pensieri né di affetti nati da essa materia e nell’animo
loro stesso, non trasportati di altri luoghi, né bevuti da altre fonti, né comuni e triti;
e con facilità si astengono dagli ornamenti frivoli in sé, o che non fanno a proposito,
dalle grazie e dalle bellezze false, o che hanno più di apparenza che di sostanza,
dall’affettazione, e da tutto quello che è fuori del naturale. Ed essere falsissimo che i
lettori ordinariamente si curino poco di quello che gli scrittori dicono di se medesimi:
prima, perché tutto quello che veramente è pensato e sentito dallo scrittore stesso,
e detto con modo naturale e acconcio, genera attenzione, e fa effetto; poi, perché
in nessun modo si rappresentano o discorrono con maggior verità ed efficacia le cose
altrui, che favellando delle proprie: atteso che tutti gli uomini si rassomigliano tra
loro, sì nelle qualità naturali, e sì negli accidenti, in quel che dipende dalla sorte; e
che le cose umane, a considerarle in se stesso, si veggono molto meglio e con maggior
sentimento che negli altri. In confermazione dei quali pensieri adduceva, tra le altre
cose, l’aringa di Demostene per la Corona, dove l’oratore parlando di sé continuamente,
vince se medesimo di eloquenza: e Cicerone, al quale, il più delle volte, dove
tocca le cose proprie, vien fatto altrettanto: il che si vede in particolare nella Miloniana,
tutta maravigliosa, ma nel fine maravigliosissima, dove l’oratore introduce se stesso.
Come similmente bellissimo ed eloquentissimo nelle orazioni del Bossuet sopra tutti
gli altri luoghi, è quello dove chiudendo le lodi del Principe di Condé, il dicitore fa
menzione della sua propria vecchiezza e vicina morte. Degli scritti di Giuliano imperatore,
che in tutti gli altri è sofista, e spesso non tollerabile, il più giudizioso e più
lodevole è la diceria che s’intitola Misopogone, cioè contro alla barba; dove risponde
ai motti e alle maldicenze di quelli di Antiochia contro di lui. Nella quale operetta,
lasciando degli altri pregi, egli non è molto inferiore a Luciano né di grazia comica,
né di copia, acutezza e vivacità di sali; laddove in quella dei Cesari, pure imitativa di
Luciano, è sgraziato, povero di facezie, ed oltre alla povertà, debole e quasi insulso.
Tra gl’Italiani, che per altro sono quasi privi di scritture eloquenti, l’apologia che
Lorenzino dei Medici scrisse per giustificazione propria, è un esempio di eloquenza
grande e perfetta da ogni parte; e Torquato Tasso ancora è non di rado eloquente
nelle altre prose, dove parla molto di se stesso, e quasi sempre eloquentissimo nelle
lettere, dove non ragiona, si può dire, se non de’ suoi propri casi.
Si ricordano anche parecchi suoi motti e risposte argute: come fu quella ch’ei diede a
un giovanetto, molto studioso delle lettere, ma poco esperto del mondo; il quale
diceva, che dell’arte del governarsi nella vita sociale, e della cognizione pratica degli
uomini, s’imparano cento fogli il dì. Rispose l’Ottonieri: ma il libro fa cinque milioni
di fogli.
A un altro giovane inconsiderato e temerario, il quale per ischermirsi da quelli che gli
rimproveravano le male riuscite che faceva giornalmente, e gli scorni che riportava,
era usato rispondere, che della vita non è da fare più stima che di una commedia;
disse una volta l’Ottonieri: anche nella commedia è meglio riportare applausi che
fischiate; e il commediante male instrutto nell’arte sua, o mal destro in esercitarla,
Preso dai sergenti della corte un ribaldo omicida, il quale per essere zoppo, commesso
il misfatto, non era potuto fuggire; disse: vedete, amici, che la giustizia, se bene si
dice che sia zoppa, raggiunge però il malfattore, se egli è zoppo.
Viaggiando per l’Italia, essendogli detto, non so dove, da un cortigiano che lo voleva
mordere: io ti parlerò schiettamente, se tu me ne dai licenza; rispose: anzi avrò caro
assai di ascoltarti; perché viaggiando si cercano le cose rare.
Costretto da non so quale necessità una volta, a chiedere danari in prestanza a uno, il
quale scusandosi di non potergliene dare, concluse affermando, che se fosse stato
ricco, non avrebbe avuto maggior pensiero che delle occorrenze degli amici; esso
replicò: mi rincrescerebbe assai che tu stessi in pensiero per causa nostra. Prego Dio
Da giovane, avendo composto alcuni versi, e adoperatovi certe voci antiche; dicendogli
una signora attempata, alla quale, richiesto da essa, li recitava, non li sapere
intendere, perché quelle voci al tempo suo non correvano; rispose: anzi mi credeva
che corressero; perché sono molto antiche.
Di un avaro ricchissimo, al quale era stato fatto un furto di pochi danari, disse, che si
era portato avaramente ancora coi ladri.
Di un calcolatore, che sopra qualunque cosa gli veniva udita o veduta, si metteva a
computare, disse: gli altri fanno le cose, e costui le conta.
Ad alcuni antiquari che disputavano insieme dintorno a una figurina antica di Giove,
formata di terra cotta; richiesto del suo parere; non vedete voi, disse, che questo è un
Di uno sciocco il quale presumeva saper molto bene raziocinare, e ne’ suoi discorsi,
a ogni due parole, ricordava la logica; disse: questi è propriamente l’uomo definito
alla greca; cioè un animale logico.
Vicino a morte, compose esso medesimo questa inscrizione, che poi gli fu scolpita
sopra la sepoltura.
E ALLA GLORIA
NE’ DELLA FORTUNA
SUA