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Giacomo Leopardi Operette morali IntraText CT - Lettura del testo |
XX DIALOGO DI TIMANDRO E DI ELEANDRO
Timandro. Io ve lo voglio anzi debbo pur dire liberamente. La sostanza e l’intenzione
del vostro scrivere e del vostro parlare, mi paiono molto biasimevoli.
Eleandro. Quando non vi paia tale anche l’operare, io non mi dolgo poi tanto: perché
le parole e gli scritti importano poco.
Timandro. Nell’operare, non trovo di che riprendervi. So che non fate bene agli altri
per non potere, e veggo che non fate male per non volere. Ma nelle parole e negli
scritti, vi credo molto riprensibile; e non vi concedo che oggi queste cose importino
poco; perché la nostra vita presente non consiste, si può dire, in altro. Lasciamo le
parole per ora, e diciamo degli scritti. Quel continuo biasimare e derider che fate la
specie umana, primieramente è fuori di moda.
Eleandro. Anche il mio cervello è fuori di moda. E non è nuovo che i figliuoli vengano
Timandro. Né anche sarà nuovo che i vostri libri, come ogni cosa contraria all’uso
corrente, abbiano cattiva fortuna.
Eleandro. Poco male. Non per questo andranno cercando pane in sugli usci.
Timandro. Quaranta o cinquant’anni addietro, i filosofi solevano mormorare della
specie umana; ma in questo secolo fanno tutto al contrario.
Eleandro. Credete voi che quaranta o cinquant’anni addietro, i filosofi, mormorando
degli uomini, dicessero il falso o il vero?
Timandro. Piuttosto e più spesso il vero che il falso.
Eleandro. Credete che in questi quaranta o cinquant’anni, la specie umana sia mutata
in contrario da quella che era prima?
Timandro. Non credo; ma cotesto non monta nulla al nostro proposito.
Eleandro. Perché non monta? Forse è cresciuta di potenza, o salita di grado; che gli
scrittori d’oggi sieno costretti di adularla, o tenuti di riverirla?
Timandro. Cotesti sono scherzi in argomento grave.
Eleandro. Dunque tornando sul sodo, io non ignoro che gli uomini di questo secolo,
facendo male ai loro simili secondo la moda antica, si sono pur messi a dirne bene, al
contrario del secolo precedente. Ma io, che non fo male a simili né a dissimili, non
credo essere obbligato a dir bene degli altri contro coscienza.
Timandro. Voi siete pure obbligato come tutti gli altri uomini, a procurar di giovare
alla vostra specie.
Eleandro. Se la mia specie procura di fare il contrario a me, non veggo come mi corra
cotesto obbligo che voi dite. Ma ponghiamo che mi corra. Che debbo io fare, se non
posso?
Timandro. Non potete, e pochi altri possono, coi fatti. Ma cogli scritti, ben potete
giovare, e dovete. E non si giova coi libri che mordono continuamente l’uomo in
generale; anzi si nuoce assaissimo.
Eleandro. Consento che non si giovi, e stimo che non si noccia. Ma credete voi che i
libri possano giovare alla specie umana?
Timandro. Non solo io, ma tutto il mondo lo crede.
Timandro. Di più generi; ma specialmente del morale.
Eleandro. Questo non è creduto da tutto il mondo; perché io, fra gli altri, non lo
credo; come rispose una donna a Socrate. Se alcun libro morale potesse giovare, io
penso che gioverebbero massimamente i poetici: dico poetici, prendendo questo
vocabolo largamente; cioè libri destinati a muovere la immaginazione; e intendo non
meno di prose che di versi. Ora io fo poca stima di quella poesia che letta e meditata,
non lascia al lettore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mezz’ora, gl’impedisca
di ammettere un pensier vile, e di fare un’azione indegna. Ma se il lettore manca
di fede al suo principale amico un’ora dopo la lettura, io non disprezzo perciò
quella tal poesia: perché altrimenti mi converrebbe disprezzare le più belle, più calde
e più nobili poesie del mondo. Ed escludo poi da questo discorso i lettori che vivono
in città grandi: i quali, in caso ancora che leggano attentamente, non possono essere
giovati anche per mezz’ora, né molto dilettati né mossi, da alcuna sorta di poesia.
Timandro. Voi parlate, al solito vostro, malignamente, e in modo che date ad intendere
di essere per l’ordinario molto male accolto e trattato dagli altri: perché questa il
più delle volte è la causa del mal animo e del disprezzo che certi fanno professione di
avere alla propria specie.
Eleandro. Veramente io non dico che gli uomini mi abbiano usato ed usino molto
buon trattamento: massime che dicendo questo, io mi spaccerei per esempio unico.
Né anche mi hanno fatto però gran male: perché, non desiderando niente da loro, né
in concorrenza con loro, io non mi sono esposto alle loro offese più che tanto. Ben vi
dico e vi accerto, che siccome io conosco e veggo apertissimamente di non saper fare
una menoma parte di quello che si richiede a rendersi grato alle persone; e di essere
quanto si possa mai dire inetto a conversare cogli altri, anzi alla stessa vita; per colpa
o della mia natura o mia propria; però se gli uomini mi trattassero meglio di quello
che fanno, io gli stimerei meno di quel che gli stimo.
Timandro. Dunque tanto più siete condannabile: perché l’odio, e la volontà di fare,
per dir così, una vendetta degli uomini, essendone stato offeso a torto, avrebbe qualche
scusa. Ma l’odio vostro, secondo che voi dite, non ha causa alcuna particolare; se
non forse un’ambizione insolita e misera di acquistar fama dalla misantropia, come
Timone: desiderio abbominevole in sé, alieno poi specialmente da questo secolo,
dedito sopra tutto alla filantropia.
Eleandro. Dell’ambizione non accade che io vi risponda; perché ho già detto che non
desidero niente dagli uomini: e se questo non vi par credibile, benché sia vero; almeno
dovete credere che l’ambizione non mi muova a scriver cose che oggi, come voi
stesso affermate, partoriscono vituperio e non lode a chi le scrive. Dall’odio poi verso
tutta la nostra specie, sono così lontano, che non solamente non voglio, ma non
posso anche odiare quelli che mi offendono particolarmente; anzi sono del tutto
inabile e impenetrabile all’odio. Il che non è piccola parte della mia tanta inettitudine
a praticare nel mondo. Ma io non me ne posso emendare: perché sempre penso
che comunemente, chiunque si persuade, con far dispiacere o danno a chicchessia,
far comodo o piacere a se proprio; s’induce ad offendere; non per far male ad altri
(che questo non è propriamente il fine di nessun atto o pensiero possibile), ma per
far bene a sé; il qual desiderio è naturale, e non merita odio. Oltre che ad ogni vizio
o colpa che io veggo in altrui, prima di sdegnarmene, mi volgo a esaminare me
stesso, presupponendo in me i casi antecedenti e le circostanze convenevoli a quel
proposito; e trovandomi sempre o macchiato o capace degli stessi difetti, non mi
basta l’animo d’irritarmene. Riserbo sempre l’adirarmi a quella volta che io vegga
una malvagità che non possa aver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho
potuto vedere. Finalmente il concetto della vanità delle cose umane, mi riempie
continuamente l’animo in modo, che non mi risolvo a mettermi per nessuna di loro
in battaglia; e l’ira e l’odio mi paiono passioni molto maggiori e più forti, che non è
conveniente alla tenuità della vita. Dall’animo di Timone al mio, vedete che diversità
ci corre. Timone, odiando e fuggendo tutti gli altri, amava a accarezzava solo Alcibiade,
come causa futura di molti mali alla loro patria comune. Io, senza odiarlo, avrei
fuggito più lui che gli altri, ammoniti i cittadini del pericolo, e confortati a provvedervi.
Alcuni dicono che Timone non odiava gli uomini, ma le fiere in sembianza
umana. Io non odio né gli uomini né le fiere.
Timandro. Ma né anche amate nessuno.
Eleandro. Sentite, amico mio. Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto
affetto quanto può mai cadere in anima viva. Oggi, benché non sono ancora, come
vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco tepida; non mi vergogno a dire che
non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è
possibile. Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser
cagione di patimento agli altri. E di questo, per poca notizia che abbiate de’ miei
costumi, credo mi possiate essere testimonio.
Eleandro. Di modo che io non lascio di procurare agli uomini per la mia parte,
posponendo ancora il rispetto proprio, quel maggiore, anzi solo bene che sono ridotto
a desiderare per me stesso, cioè di non patire.
Timandro. Ma confessate voi formalmente, di non amare né anche la nostra specie in
Eleandro. Sì, formalmente. Ma come tuttavia, se toccasse a me, farei punire i colpevoli,
se bene io non gli odio; così, se potessi, farei qualunque maggior benefizio alla
mia specie, ancorché io non l’ami.
Timandro. Bene, sia così. Ma in fine, se non vi muovono ingiurie ricevute, non odio,
non ambizione; che cosa vi muove a usare cotesto modo di scrivere?
Eleandro. Diverse cose. Prima, l’intolleranza di ogni simulazione e dissimulazione:
alle quali mi piego talvolta nel parlare, ma negli scritti non mai; perché spesso parlo
per necessità, ma non sono mai costretto a scrivere; e quando avessi a dire quel che
non penso, non mi darebbe un gran sollazzo a stillarmi il cervello sopra le carte. Tutti
i savi si ridono di chi scrive latino al presente, che nessuno parla quella lingua, e
pochi la intendono. Io non veggo come non sia parimente ridicolo questo continuo
presupporre che si fa scrivendo e parlando, certe qualità umane che ciascun sa che
oramai non si trovano in uomo nato, e certi enti razionali o fantastici, adorati già
lungo tempo addietro, ma ora tenuti internamente per nulla e da chi gli nomina, e
da chi gli ode a nominare. Che si usino maschere e travestimenti per ingannare gli
altri, o per non essere conosciuti; non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati
con una stessa forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo, senza ingannare
l’un l’altro, e conoscendosi ottimamente tra loro; mi riesce una fanciullaggine. Cavinsi
le maschere, si rimangano coi loro vestiti; non faranno minori effetti di prima, e
staranno più a loro agio. Perché pur finalmente, questo finger sempre, ancorché
inutile, e questo sempre rappresentare una persona diversissima dalla propria, non si
può fare senza impaccio e fastidio grande. Se gli uomini dallo stato primitivo, solitario
e silvestre, fossero passati alla civiltà moderna in un tratto, e non per gradi; crediamo
noi che si troverebbero nelle lingue i nomi delle cose dette dianzi, non che
nelle nazioni l’uso di ripetergli a ogni poco, e di farvi mille ragionamenti sopra? In
verità quest’uso mi par come una di quelle cerimonie o pratiche antiche, alienissime
dai costumi presenti, le quali contuttociò si mantengono, per virtù della consuetudine.
Ma io che non mi posso adattare alle cerimonie, non mi adatto anche a quell’uso;
e scrivo in lingua moderna, e non dei tempi troiani. In secondo luogo; non tanto io
cerco mordere ne’ miei scritti la nostra specie, quanto dolermi del fato. Nessuna cosa
credo sia più manifesta e palpabile, che l’infelicità necessaria di tutti i viventi. Se
questa infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e qualunque altro
discorso. Se è vera, perché non mi ha da essere né pur lecito di dolermene apertamente
e liberamente, e dire, io patisco? Ma se mi dolessi piangendo (e questa si è la
terza causa che mi muove), darei noia non piccola agli altri, e a me stesso, senza alcun
frutto. Ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui
nello stesso modo. Se questo non mi vien fatto, tengo pure per fermo che il ridere dei
nostri mali sia l’unico profitto che se ne possa cavare, e l’unico rimedio che vi si trovi.
Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso. Non dovete
pensare che io non compatisca all’infelicità umana. Ma non potendovisi riparare con
nessuna forza, nessuna arte, nessuna industria, nessun patto; stimo assai più degno
dell’uomo, e di una disperazione magnanima, il ridere dei mali comuni; che il mettermene
a sospirare, lagrimare e stridere insieme cogli altri, o incitandoli a fare altrettanto.
In ultimo mi resta a dire, che io desiderio quanto voi, e quanto qualunque
altro, il bene della mia specie in universale; ma non lo spero in nessun modo; non mi
so dilettare e pascere di certe buone aspettative, come veggo fare a molti filosofi in
questo secolo; e la mia disperazione, per essere intera, e continua, e fondata in un
giudizio fermo e in una certezza, non mi lascia luogo a sogni e immaginazioni liete
circa il futuro, né animo d’intraprendere cosa alcuna per vedere di ridurle ad effetto.
E ben sapete che l’uomo non si dispone a tentare quel che egli sa o crede non dovergli
succedere, e quando vi si disponga, opera di mala voglia e con poca forza; e che
scrivendo in modo diverso o contrario all’opinione propria, se questa fosse anco
falsa, non si fa mai cosa degna di considerazione.
Timandro. Ma bisogna ben riformare il giudizio proprio quando sia diverso dal vero;
come è il vostro.
Eleandro. Io giudico quanto a me di essere infelice, e in questo so che non m’inganno.
Se gli altri non sono, me ne congratulo seco loro con tutta l’anima. Io sono anche
sicuro di non liberarmi dall’infelicità, prima che io muoia. Se gli altri hanno diversa
speranza di sé, me ne rallegro similmente.
Timandro. Tutti siamo infelici, e tutti sono stati: e credo non vorrete gloriarvi che
questa vostra sentenza sia delle più nuove. Ma la condizione umana si può migliorare
di gran lunga da quel che ella è, come e già migliorata indicibilmente da quello che
fu. Voi mostrate non ricordarvi, o non volervi ricordare, che l’uomo è perfettibile.
Eleandro. Perfettibile lo crederò sopra la vostra fede; ma perfetto, che e quel che
importa maggiormente, non so quando l’avrò da credere né sopra la fede di chi.
Timandro. Non è giunto ancora alla perfezione, perché gli e mancato tempo; ma non
si può dubitare che non vi sia per giungere.
Eleandro. Né io ne dubito. Questi pochi anni che sono corsi dal principio del mondo
al presente, non potevano bastare; e non se ne dee far giudizio dell’indole, del destino
e delle facoltà dell’uomo: oltre che si sono avute altre faccende per le mani. Ma
ora non si attende ad altro che a perfezionare la nostra specie.
Timandro. Certo vi si attende con sommo studio in tutto il mondo civile. E considerando
la copia e l’efficacia dei mezzi, l’una e l’altra aumentate incredibilmente da
poco in qua, si può credere che l’effetto si abbia veramente a conseguire fra più o
men tempo: e questa speranza è di non piccolo giovamento a cagione delle imprese e
operazioni utili che ella promuove o partorisce. Però se fu mai dannoso e riprensibile
in alcun tempo, nel presente è dannosissimo e abbominevole l’ostentare cotesta vostra
disperazione, e l’inculcare agli uomini la necessità della loro miseria, la vanità
della vita, l’imbecillità e piccolezza della loro specie, e la malvagità della loro natura:
il che non può fare altro frutto che prostrarli d’animo; spogliarli della stima di se
medesimi, primo fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa; e distorli
dal procurare il proprio bene.
Eleandro. Io vorrei che mi dichiaraste precisamente, se vi pare che quello che io credo
e dico intorno all’infelicità degli uomini, sia vero o falso.
Timandro. Voi riponete mano alla vostra solita arme; e quando io vi confessi che
quello che dite è vero, pensate vincere la questione. Ora io vi rispondo, che non ogni
verità è da predicare a tutti, né in ogni tempo.
Eleandro. Di grazia, soddisfatemi anche di un’altra domanda. Queste verità che io
dico e non predico, sono nella filosofia, verità principali, o pure accessorie?
Timandro. Io, quanto a me, credo che sieno la sostanza di tutta la filosofia.
Eleandro. Dunque s’ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la
perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono
dalle opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere umano allora finalmente sarà
felice, quando ciascuno o i più degli uomini conosceranno il vero e a norma di quello
solo comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco meno
che tutti i filosofi antichi e moderni. Ecco che a giudizio vostro, quelle verità che
sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare alla maggior parte degli
uomini; e credo che facilmente consentireste che debbano essere ignorate o dimenticate
da tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo, non possono altro che nuocere. Il
che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo. Io non ignoro che
l’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bisogna
filosofare. Dal che s’inferisce che la filosofia, primieramente è inutile, perché a questo
effetto di non filosofare, non fa di bisogno esser filosofo; secondariamente è dannosissima,
perché quella ultima conclusione non vi s’impara se non alle proprie spese,
e imparata che sia, non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio degli
uomini dimenticare le verità conosciute, e deponendosi più facilmente qualunque
altro abito che quello di filosofare. In somma la filosofia, sperando e promettendo a
principio di medicare i nostri mali, in ultimo si riduce a desiderare invano di rimediare
a se stessa. Posto tutto ciò, domando perché si abbia da credere che l’età presente
sia più prossima e disposta alla perfezione che le passate. Forse per la maggior
notizia del vero; la quale si vede essere contrarissima alla felicità dell’uomo? O forse
perché al presente alcuni pochi conoscono che non bisogna filosofare, senza che però
abbiano facoltà di astenersene? Ma i primi uomini in fatti non filosofarono, e i selvaggi
se ne astengono senza fatica. Quali altri mezzi o nuovi, o maggiori che non
ebbero gli antenati, abbiamo noi, di approssimarci alla perfezione?
Timandro. Molti, e di grande utilità: ma l’esporgli vorrebbe un ragionamento infinito.
Eleandro. Lasciamoli da parte per ora: e tornando al fatto mio, dico, che se ne’ miei
scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo dell’animo, o per consolarmene
col riso, e non per altro; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare,
sconsigliare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del
quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità e
disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto
quelle opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi,
virtuosi, ed utili al ben comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché
vane, che danno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo; e in fine gli errori
antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali solamente, e non quelli, sarebbero
dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia. Ma queste, secondo
me, trapassando i termini (come è proprio e inevitabile alle cose umane); non molto
dopo sollevati da una barbarie, ci hanno precipitati in un’altra, non minore della
prima; quantunque nata dalla ragione e dal sapere, e non dall’ignoranza; e però meno
efficace e manifesta nel corpo che nello spirito, men gagliarda nelle opere, e per dir
così, più riposta ed intrinseca. In ogni modo, io dubito, o inclino piuttosto a credere,
che gli errori antichi, quanto sono necessari al buono stato delle nazioni civili, tanto
sieno, e ogni dì più debbano essere, impossibili a rinnovarveli. Circa la perfezione
dell’uomo, io vi giuro, che se fosse già conseguita, avrei scritto almeno un tomo in
lode del genere umano. Ma poiché non è toccato a me di vederla, e non aspetto che
mi tocchi in mia vita, sono disposto di assegnare per testamento una buona parte
della mia roba ad uso che quando il genere umano sarà perfetto, se gli faccia e
pronuncisi pubblicamente un panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzato un
tempietto all’antica, o una statua, o quello che sarà creduto a proposito.