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Giacomo Leopardi Operette morali IntraText CT - Lettura del testo |
II DIALOGO D’ERCOLE E DI ATLANTE
Ercole. Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti da sua parte, e in caso
che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi per qualche ora, come feci
non mi ricordo quanti secoli sono, tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco.
Atlante. Ti ringrazio, caro Ercolino, e mi chiamo anche obbligato alla maestà di
Giove. Ma il mondo è fatto così leggero, che questo mantello che porto per custodirmi
dalla neve, mi pesa più; e se non fosse che la volontà di Giove mi sforza di stare
qui fermo, e tenere questa pallottola sulla schiena, io me la porrei sotto l’ascella o in
tasca, o me l’attaccherei ciondolone a un pelo della barba, e me n’andrei per le mie
faccende.
Ercole. Come può stare che sia tanto alleggerita? Mi accorgo bene che ha mutato
figura, e che è diventata a uso delle pagnotte, e non è più tonda, come era al tempo
che io studiai la cosmografia per fare quella grandissima navigazione cogli Argonauti:
ma con tutto questo non trovo come abbia a pesare meno di prima.
Atlante. Della causa non so. Ma della leggerezza ch’io dico te ne puoi certificare
adesso adesso, solo che tu voglia torre questa sulla mano per un momento, e provare
il peso.
Ercole. In fe’ d’Ercole, se io non avessi provato, io non poteva mai credere. Ma che è
quest’altra novità che vi scuopro? L’altra volta che io la portai, mi batteva forte sul
dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva
un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta la
molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto.
Atlante. Anche di questo non ti so dire altro, se non ch’egli è già gran tempo, che il
mondo finì di fare ogni moto e ogni romore sensibile: e io per me stetti con grandissimo
sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse col
puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e l’epitaffio che gli dovessi
porre. Ma poi veduto che non marciva, mi risolsi che di animale che prima era, si
fosse convertito in pianta, come Dafne e tanti altri; e che da questo nascesse che non
si moveva e non fiatava: e ancora dubito che fra poco non mi gitti le radici per le
spalle, e non vi si abbarbichi.
Ercole. Io piuttosto credo che dorma, e che questo sonno sia della qualità di quello di
Epimenide, che durò un mezzo secolo e più; o come si dice di Ermotimo, che l’anima
gli usciva del corpo ogni volta che voleva, e stava fuori molti anni, andando a
diporto per diversi paesi, e poi tornava, finché gli amici per finire questa canzona,
abbruciarono il corpo; e così lo spirito ritornato per entrare, trovò che la casa gli era
disfatta, e che se voleva alloggiare al coperto, gliene conveniva pigliare un’altra a
pigione, o andare all’osteria. Ma per fare che il mondo non dorma in eterno, e che
qualche amico o benefattore, pensando che egli sia morto, non gli dia fuoco, io
voglio che noi proviamo qualche modo di risvegliarlo.
Atlante. Bene, ma che modo?
Ercole. Io gli farei toccare una buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo
finirei di schiacciare, e che io non ne facessi una cialda; o che la crosta, atteso che
riesce così leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli mi scricchioli sotto il colpo
come un uovo. E anche non mi assicuro che gli uomini, che al tempo mio combattevano
a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa
tutti in un tratto. Il meglio sarà ch’io posi la clava e tu il pastrano, e facciamo
insieme alla palla con questa sferuzza. Mi dispiace ch’io non ho recato i bracciali o le
racchette che adoperiamo Mercurio ed io per giocare in casa di Giove o nell’orto: ma
le pugna basteranno.
Atlante. Appunto; acciocché tuo padre, veduto il nostro giuoco e venutogli voglia di
entrare in terzo, colla sua palla infocata ci precipiti tutti e due non so dove, come
Fetonte nel Po.
Ercole. Vero, se io fossi, come era Fetonte, figliuolo di un poeta, e non suo figliuolo
proprio; e non fossi anche tale, che se i poeti popolarono le città col suono della lira,
a me basta l’animo di spopolare il cielo e la terra a suono di clava. E la sua palla, con
un calcio che le tirassi, io la farei schizzare di qui fino all’ultima soffitta del cielo
empireo. Ma sta sicuro che quando anche mi venisse fantasia di sconficcare cinque o
sei stelle per fare alle castelline, o di trarre al bersaglio con una cometa, come con una
fromba, pigliandola per la coda, o pure di servirmi proprio del sole per fare il giuoco
del disco, mio padre farebbe le viste di non vedere. Oltre che la nostra intenzione con
questo giuoco e di far bene al mondo, e non come quella di Fetonte, che fu di
mostrarsi leggero della persona alle Ore, che gli tennero il montatoio quando salì sul
carro; e di acquistare opinione di buon cocchiere con Andromeda e Callisto e colle
altre belle costellazioni, alle quali è voce che nel passare venisse gittando mazzolini di
raggi e pallottoline di luce confettate; e di fare una bella mostra di sé tra gli Dei del
cielo nel passeggio di quel giorno, che era di festa. In somma, della collera di mio
padre non te ne dare altro pensiero, che io m’obbligo, in ogni caso, a rifarti i danni;
e senza più cavati il cappotto e manda la palla.
Atlante. O per grado o per forza, mi converrà fare a tuo modo; perché tu sei gagliardo
e coll’arme, e io disarmato e vecchio. Ma guarda almeno di non lasciarla cadere, che
non se le aggiungessero altri bernoccoli, o qualche parte se le ammaccasse, o crepasse,
come quando la Sicilia si schiantò dall’Italia e l’Affrica dalla Spagna; o non ne
saltasse via qualche scheggia, come a dire una provincia o un regno, tanto che ne
nascesse una guerra.
Ercole. Per la parte mia non dubitare.
Atlante. A te la palla. Vedi che ella zoppica, perché l’é guasta la figura.
Ercole. Via dàlle un po’ più sodo, ché le tue non arrivano.
Atlante. Qui la botta non vale, perché ci tira garbino al solito, e la palla piglia vento,
perch’é leggera.
Ercole. Cotesta è sua pecca vecchia, di andare a caccia del vento.
Atlante. In verità non saria mal fatto che ne la gonfiassimo, che veggo che ella non
balza d’in sul pugno più che un popone.
Ercole. Cotesto è difetto nuovo, che anticamente ella balzava e saltava come un capriolo.
Atlante. Corri presto in là; presto ti dico; guarda per Dio, ch’ella cade: mal abbia il
momento che tu ci sei venuto.
Ercole. Così falsa e terra terra me l’hai rimessa, che io non poteva essere a tempo se
m’avessi voluto fiaccare il collo. Oimé, poverina, come stai? ti senti male a nessuna
parte? Non s’ode un fiato e non si vede muovere un’anima e mostra che tutti dormano
come prima.
Atlante. Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle;
e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch’é
seguito per tua cagione.
Ercole. Così farò. E’ molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome
Orazio, ammessoci come poeta di corte ad instanza di Augusto, che era stato deificato
da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo
poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l’altre una dove dice che l’uomo
giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno
giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s’é mosso.
Atlante. Chi dubita della giustizia degli uomini? Ma tu non istare a perder più tempo,
e corri su presto a scolparmi con tuo padre, ché io m’aspetto di momento in
momento un fulmine che mi trasformi di Atlante in Etna.