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Giacomo Leopardi Operette morali IntraText CT - Lettura del testo |
IX LA SCOMMESSA DI PROMETEO
L’anno ottocento trentatremila dugento settantacinque del regno di Giove, il collegio
delle Muse diede fuora in istampa, e fece appiccare nei luoghi pubblici della città
e dei sobborghi d’Ipernéfelo, diverse cedole, nelle quali invitava tutti gli Dei maggiori
e minori, e gli altri abitanti della detta città, che recentemente o in antico avessero
fatto qualche lodevole invenzione, a proporla, o effettualmente o in figura o per
iscritto, ad alcuni giudici deputati da esso collegio. E scusandosi che per la sua nota
povertà non si poteva dimostrare così liberale come avrebbe voluto, prometteva in
premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicato più bello o più fruttuoso, una
corona di lauro, con privilegio di poterla portare in capo il dì e la notte, privatamente
e pubblicamente, in città e fuori; e poter essere dipinto, scolpito, inciso, gittato,
figurato in qualunque modo e materia, col segno di quella corona dintorno al capo.
Concorsero a questo premio non pochi dei celesti per passatempo; cosa non meno
necessaria agli abitatori d’Ipernéfelo, che a quelli di altre città; senza alcun desiderio
di quella corona; la quale in sé non valeva il pregio di una berretta di stoppa; e in
quanto alla gloria, se gli uomini, da poi che sono fatti filosofi, la disprezzano, si può
congetturare che stima ne facciano gli Dei, tanto più sapienti degli uomini, anzi soli
sapienti secondo Pitagora e Platone. Per tanto, con esempio unico e fino allora inaudito
in simili casi di ricompense proposte ai più meritevoli, fu aggiudicato questo
premio, senza intervento di sollecitazioni né di favori né di promesse occulte né di
artifizi: e tre furono gli anteposti: cioè Bacco per l’invenzione del vino; Minerva per
quella dell’olio, necessario alle unzioni delle quali gli Dei fanno quotidianamente
uso dopo il bagno; e Vulcano per aver trovato una pentola di rame, detta economica,
che serve a cuocere che che sia con piccolo fuoco e speditamente. Così, dovendosi
fare il premio in tre parti, restava a ciascuno un ramuscello di lauro: ma tutti e tre
ricusarono così la parte come il tutto; perché Vulcano allegò che stando il più del
tempo al fuoco della fucina con gran fatica e sudore, gli sarebbe importunissimo
quell’ingombro alla fronte; oltre che lo porrebbe in pericolo di essere abbrustolato o
riarso, se per avventura qualche scintilla appigliandosi a quelle fronde secche, vi
mettesse il fuoco. Minerva disse che avendo a sostenere in sul capo un elmo bastante,
come scrive Omero, a coprirsene tutti insieme gli eserciti di cento città, non le conveniva
aumentarsi questo peso in alcun modo. Bacco non volle mutare la sua mitra,
e la sua corona di pampini, con quella di lauro: benché l’avrebbe accettata volentieri
se gli fosse stato lecito di metterla per insegna fuori della sua taverna; ma le Muse non
consentirono di dargliela per questo effetto: di modo che ella si rimase nel loro comune
erario.
Niuno dei competitori di questo premio ebbe invidia ai tre Dei che l’avevano conseguito
e rifiutato, né si dolse dei giudici, né biasimò la sentenza; salvo solamente uno,
che fu Prometeo, venuto a parte del concorso con mandarvi il modello di terra che
aveva fatto e adoperato a formare i primi uomini, aggiuntavi una scrittura che dichiarava
le qualità e gli uffici del genere umano, stato trovato da esso. Muove non
poca maraviglia il rincrescimento dimostrato da Prometeo in caso tale, che da tutti
gli altri, sì vinti come vincitori, era preso in giuoco: perciò investigandone la cagione,
si è conosciuto che quegli desiderava efficacemente, non già l’onore, ma bene il privilegio
che gli sarebbe pervenuto colla vittoria. Alcuni pensano che intendesse di
prevalersi del lauro per difesa del capo contro alle tempeste; secondo si narra di
Tiberio, che sempre che udiva tonare, si ponea la corona; stimandosi che l’alloro non
sia percosso dai fulmini. Ma nella città d’Ipernéfelo non cade fulmine e non tuona.
Altri più probabilmente affermano che Prometeo, per difetto degli anni, comincia a
gittare i capelli; la quale sventura sopportando, come accade a molti, di malissima
voglia, e non avendo letto le lodi della calvizie scritte da Sinesio, o non essendone
persuaso, che è più credibile, voleva sotto il diadema nascondere, come Cesare dittatore,
la nudità del capo.
Ma per tornare al fatto, un giorno tra gli altri ragionando Prometeo con Momo, si
querelava aspramente che il vino, l’olio e le pentole fossero stati anteposti al genere
umano, il quale diceva essere la migliore opera degl’immortali che apparisse nel mondo.
E parendogli non persuaderlo bastantemente a Momo, il quale adduceva non so che
ragioni in contrario, gli propose di scendere tutti e due congiuntamente verso la
terra, e posarsi a caso nel primo luogo che in ciascuna delle cinque parti di quella
scoprissero abitato dagli uomini; fatta prima reciprocamente questa scommessa: se
in tutti cinque i luoghi, o nei più di loro, troverebbero o no manifesti argomenti che
l’uomo sia la più perfetta creatura dell’universo. Il che accettato da Momo, e convenuti
del prezzo della scommessa, incominciarono senza indugio a scendere verso la
terra; indirizzandosi primieramente al nuovo mondo; come quello che pel nome
stesso, e per non avervi posto piede insino allora niuno degl’immortali, stimolava
maggiormente la curiosità. Fermarono il volo nel paese di Popaian, dal lato settentrionale,
poco lungi dal fiume Cauca, in un luogo dove apparivano molti segni di
abitazione umana: vestigi di cultura per la campagna; parecchi sentieri, ancorché
tronchi in molti luoghi, e nella maggior parte ingombri; alberi tagliati e distesi; e
particolarmente alcune che parevano sepolture, e qualche ossa d’uomini di tratto in
tratto. Ma non perciò poterono i due celesti, porgendo gli orecchi, e distendendo la
vista per ogn’intorno, udire una voce né scoprire un’ombra d’uomo vivo. Andarono,
parte camminando parte volando, per ispazio di molte miglia; passando monti e
fiumi; e trovando da per tutto i medesimi segni e la medesima solitudine. Come
sono ora deserti questi paesi, diceva Momo a Prometeo, che mostrano pure evidentemente
di essere stati abitati? Prometeo ricordava le inondazioni del mare, i tremuoti,
i temporali, le piogge strabocchevoli, che sapeva essere ordinarie nelle regioni calde:
e veramente in quel medesimo tempo udivano, da tutte le boscaglie vicine, i rami
degli alberi che, agitati dall’aria, stillavano continuamente acqua. Se non che Momo
non sapeva comprendere come potesse quella parte essere sottoposta alle inondazioni
del mare, così lontano di là, che non appariva da alcun lato; e meno intendeva per
qual destino i tremuoti, i temporali e le piogge avessero avuto a disfare tutti gli
uomini del paese, perdonando agli sciaguari, alle scimmie, a’ formichieri, a’ cerigoni,
alle aquile, a’ pappagalli, e a cento altre qualità di animali terrestri e volatili, che
andavano per quei dintorni. In fine, scendendo a una valle immensa, scoprirono,
come a dire, un piccolo mucchio di case o capanne di legno, coperte di foglie di
palma, e circondata ognuna da un chiuso a maniera di steccato: dinanzi a una delle
quali stavano molte persone, parte in piedi, parte sedute, dintorno a un vaso di terra
posto a un gran fuoco. Si accostarono i due celesti, presa forma umana; e Prometeo,
salutati tutti cortesemente, volgendosi a uno che accennava di essere il principale,
interrogollo: che si fa?
Selvaggio. Si mangia, come vedi.
Prometeo. Che buone vivande avete?
Selvaggio. Questo poco di carne.
Prometeo. Carne domestica o salvatica?
Selvaggio. Domestica, anzi del mio figliuolo.
Prometeo. Hai tu per figliuolo un vitello, come ebbe Pasifae?
Selvaggio. Non un vitello, ma un uomo, come ebbero tutti gli altri.
Prometeo. Dici tu da senno? mangi tu la tua carne propria?
Selvaggio. La mia propria no, ma ben quella di costui che per questo solo uso io l’ho
messo al mondo, e preso cura di nutrirlo.
Prometeo. Per uso di mangiartelo?
Selvaggio. Che maraviglia? E la madre ancora, che già non debbe esser buona da fare
altri figliuoli, penso di mangiarla presto.
Momo. Come si mangia la gallina dopo mangiate le uova.
Selvaggio. E l’altre donne che io tengo, come sieno fatte inutili a partorire, le mangerò
similmente. E questi miei schiavi che vedete, forse che li terrei vivi, se non fosse
per avere di quando in quando de’ loro figliuoli, e mangiarli? Ma invecchiati che
saranno, io me li mangerò anche loro a uno a uno, se io campo.
Prometeo. Dimmi: cotesti schiavi sono della tua nazione medesima, o di qualche
altra?
Selvaggio. D’un’altra.
Prometeo. Molto lontana di qua?
Selvaggio. Lontanissima: tanto che tra le loro case e le nostre, ci correva un rigagnolo.
E additando un collicello, soggiunse: ecco là il sito dov’ella era; ma i nostri l’hanno
distrutta. In questo parve a Prometeo che non so quanti di coloro lo stessero mirando
con una cotal guardatura amorevole, come è quella che fa il gatto al topo: sicché,
per non essere mangiato dalle sue proprie fatture, si levò subito a volo; e seco similmente
Momo: e fu tanto il timore che ebbero l’uno e l’altro, che nel partirsi, corruppero
i cibi dei barbari con quella sorta d’immondizia che le arpie sgorgarono per
invidia sulle mense troiane. Ma coloro, più famelici e meno schivi de’ compagni di
Enea, seguitarono il loro pasto; e Prometeo, malissimo soddisfatto del mondo nuovo,
si volse incontanente al più vecchio, voglio dire all’Asia: e trascorso quasi in un
subito l’intervallo che è tra le nuove e le antiche Indie, scesero ambedue presso ad
Agra in un campo pieno d’infinito popolo, adunato intorno a una fossa colma di
legne: sull’orlo della quale, da un lato, si vedevano alcuni con torchi accesi, in procinto
di porle il fuoco; e da altro lato, sopra un palco, una donna giovane, coperta di
vesti suntuosissime, e di ogni qualità di ornamenti barbarici, la quale danzando e
vociferando, faceva segno di grandissima allegrezza. Prometeo vedendo questo, immaginava
seco stesso una nuova Lucrezia o nuova Virginia, o qualche emulatrice
delle figliuole di Eretteo, delle Ifigenie, de’ Codri, de’ Menecei, dei Curzi e dei Deci,
che seguitando la fede di qualche oracolo, s’immolasse volontariamente per la sua
patria. Intendendo poi che la cagione del sacrificio della donna era la morte del
marito, pensò che quella, poco dissimile da Alceste, volesse col prezzo di se medesima,
ricomperare lo spirito di colui. Ma saputo che ella non s’induceva ad abbruciarsi
se non perché questo si usava di fare dalle donne vedove della sua setta, e che aveva
sempre portato odio al marito, e che era ubbriaca, e che il morto, in cambio di
risuscitare, aveva a essere arso in quel medesimo fuoco; voltato subito il dosso a
quello spettacolo, prese la via dell’Europa; dove intanto che andavano, ebbe col suo
compagno questo colloquio.
Momo. Avresti tu pensato quando rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal
cielo per comunicarlo agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per cuocersi
l’un l’altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi spontaneamente?
Prometeo. No per certo. Ma considera, caro Momo, che quelli che fino a ora abbiamo
veduto, sono barbari: e dai barbari non si dee far giudizio della natura degli uomini;
ma bene dagl’inciviliti: ai quali andiamo al presente: e ho ferma opinione che tra loro
vedremo e udremo cose e parole che ti parranno degne, non solamente di lode, ma di
stupore.
Momo. Io per me non veggo, se gli uomini sono il più perfetto genere dell’universo,
come faccia di bisogno che sieno inciviliti perché non si abbrucino da se stessi, e non
mangino i figliuoli propri: quando che gli altri animali sono tutti barbari, e ciò non
ostante, nessuno si abbrucia a bello studio, fuorché la fenice, che non si trova; rarissimi
si mangiano alcun loro simile; e molto più rari si cibano dei loro figliuoli, per
qualche accidente insolito, e non per averli generati a quest’uso. Avverti eziandio,
che delle cinque parti del mondo una sola, né tutta intera, e questa non paragonabile
per grandezza a veruna delle altre quattro, è dotata della civiltà che tu lodi; aggiunte
alcune piccole porzioncelle di un’altra parte del mondo. E già tu medesimo non
vorrai dire che questa civiltà sia compiuta, in modo che oggidì gli uomini di Parigi o
di Filadelfia abbiano generalmente tutta la perfezione che può convenire alla loro
specie. Ora, per condursi al presente stato di civiltà non ancora perfetta, quanto
tempo hanno dovuto penare questi tali popoli? Tanti anni quanti si possono numerare
dall’origine dell’uomo insino ai tempi prossimi. E quasi tutte le invenzioni che
erano o di maggiore necessità o di maggior profitto al conseguimento dello stato
civile, hanno avuto origine, non da ragione, ma da casi fortuiti: di modo che la
civiltà umana è opera della sorte più che della natura: e dove questi tali casi non sono
occorsi, veggiamo che i popoli sono ancora barbari; con tutto che abbiano altrettanta
età quanta i popoli civili. Dico io dunque: se l’uomo barbaro mostra di essere inferiore
per molti capi a qualunque altro animale; se la civiltà, che è l’opposto della
barbarie, non è posseduta né anche oggi se non da una piccola parte del genere
umano; se oltre di ciò, questa parte non è potuta altrimenti pervenire al presente
stato civile, se non dopo una quantità innumerabile di secoli, e per beneficio massimamente
del caso, piuttosto che di alcun’altra cagione; all’ultimo, se il detto stato
civile non è per anche perfetto; considera un poco se forse la tua sentenza circa il
genere umano fosse più vera acconciandola in questa forma: cioè dicendo che esso è
veramente sommo tra i generi, come tu pensi; ma sommo nell’imperfezione, piuttosto
che nella perfezione; quantunque gli uomini nel parlare e nel giudicare, scambino
continuamente l’una coll’altra; argomentando da certi cotali presupposti che si
hanno fatto essi, e tengonli per verità palpabili. Certo che gli altri generi di creature
fino nel principio furono perfettissimi ciascheduno in se stesso. E quando eziandio
non fosse chiaro che l’uomo barbaro, considerato in rispetto agli altri animali, è
meno buono di tutti; io non mi persuado che l’essere naturalmente imperfettissimo
nel proprio genere, come pare che sia l’uomo, s’abbia a tenere in conto di perfezione
maggiore di tutte l’altre. Aggiungi che la civiltà umana, così difficile da ottenere, e
forse impossibile da ridurre a compimento, non è anco stabile in modo, che ella non
possa cadere: come in effetto si trova essere avvenuto più volte, e in diversi popoli,
che ne avevano acquistato una buona parte. In somma io conchiudo che se tuo
fratello Epimeteo recava ai giudici il modello che debbe avere adoperato quando
formò il primo asino o la prima rana, forse ne riportava il premio che tu non hai
conseguito. Pure a ogni modo io ti concederò volentieri che l’uomo sia perfettissimo,
se tu ti risolvi a dire che la sua perfezione si rassomigli a quella che si attribuiva da
Plotino al mondo: il quale, diceva Plotino, è ottimo e perfetto assolutamente; ma
perché il mondo sia perfetto, conviene che egli abbia in sé, tra le altre cose, anco tutti
i mali possibili: però in fatti si trova in lui tanto male, quanto vi può capire. E in
questo rispetto forse io concederei similmente al Leibnizio che il mondo presente
fosse il migliore di tutti i mondi possibili.
Non si dubita che Prometeo non avesse a ordine una risposta in forma distinta,
precisa e dialettica a tutte queste ragioni; ma è parimente certo che non la diede:
perché in questo medesimo punto si trovarono sopra alla città di Londra: dove scesi,
e veduto gran moltitudine di gente concorrere alla porta di una casa privata, messisi
tra la folla, entrarono nella casa: e trovarono sopra un letto un uomo disteso supino,
che avea nella ritta una pistola; ferito nel petto, e morto; e accanto a lui giacere due
fanciullini, medesimamente morti. Erano nella stanza parecchie persone della casa, e
alcuni giudici, i quali le interrogavano, mentre che un officiale scriveva.
Prometeo. Chi sono questi sciagurati?
Un famiglio. Il mio padrone e i figliuoli.
Prometeo. Chi gli ha uccisi?
Famiglio. Il padrone tutti e tre.
Prometeo. Tu vuoi dire i figliuoli e se stesso?
Famiglio. Appunto.
Prometeo. Oh che è mai cotesto! Qualche grandissima sventura gli doveva essere
accaduta.
Famiglio. Nessuna, che io sappia.
Prometeo. Ma forse era povero, o disprezzato da tutti, o sfortunato in amore, o in
corte?
Famiglio. Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo stimassero; di amore non se ne curava,
e in corte aveva molto favore.
Prometeo. Dunque come è caduto in questa disperazione?
Famiglio. Per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto.
Prometeo. E questi giudici che fanno?
Famiglio. S’informano se il padrone era impazzito o no: che in caso non fosse impazzito,
la sua roba ricade al pubblico per legge: e in verità non si potrà fare che non
ricada.
Prometeo. Ma, dimmi, non aveva nessun amico o parente, a cui potesse raccomandare
questi fanciullini, in cambio d’ammazzarli?
Famiglio. Sì aveva; e tra gli altri, uno che gli era molto intrinseco, al quale ha raccomandato
il suo cane.
Momo stava per congratularsi con Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà, e
sopra la contentezza che appariva ne risultasse alla nostra vita; e voleva anche
rammemorargli che nessun altro animale fuori dell’uomo, si uccide volontariamente
esso medesimo, né spegne per disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo lo
prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mondo che rimanevano, gli pagò
la scommessa.