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Giacomo Leopardi Operette morali IntraText CT - Lettura del testo |
XVIII CANTICO DEL GALLO SILVESTRE
Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire
mezzo nell’uno e mezzo nell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla
terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo. Questo gallo gigante, oltre a
varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione;
o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir
parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in
lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica,
un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo
silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare più d’un rabbino,
cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d’intendere, e
di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se
questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; o fosse
cantato una volta sola; e chi l’oda cantare, o chi l’abbia udito; e se la detta lingua sia
proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qualche altra. Quanto
si è al volgarizzamento infrascritto; per farlo più fedele che si potesse (del che mi
sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la prosa piuttosto che
il verso, se bene in cosa poetica. Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio, non
mi dovrà essere imputato; essendo conforme a quello del testo originale: il qual testo
corrisponde in questa parte all’uso delle lingue e massime dei poeti, d’oriente.
Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra e partonsene le immagini
vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.
Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll’animo tutti i pensieri della sua vita
presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i diletti e gli
affanni che gli sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in
questo tempo è più desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente aspettative
gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il
risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità
sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia o
speranza. L’una e l’altra insino alla vigilia del dì seguente, conservasi intera e salva;
ma in questa, o manca o declina.
Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto
l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non
apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le
foreste, né canto di uccelli per l’aria, né sussurro d’api o di farfalle scorresse per la
campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste,
sorgesse in alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe
o copia minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova? Io
dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello spazio dei secoli
da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo
infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute finora,
pensi tu che pur una ottenesse l’intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o
transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu di presente o vedesti mai
la felicità dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in
qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti
che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede
nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del mare? Qual cosa animata
ne partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o
sfornita di virtù vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile,
velocemente, dì e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino
che ti è prescritto; sei tu beato o infelice?
Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che niuna forza di
fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella
sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto
in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella.
Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non fosse interrotta frequentemente.
Troppo lungo difetto di questo sonno breve e caduco, è male per sé mortifero,
e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad
ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una
particella di morte.
Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non
potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono.
Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero e
che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da
niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando
sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere
a questo solo intento della natura, che è la morte.
A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile.
Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi
tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in quell’ora, eziandio
senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o
sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando
fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi,
accetta novamente nell’animo la speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga.
Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono
in quel tempo minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce
del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso, come effetto di
errori, e d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario,
il principio del mattino somiglia alla giovanezza: questo per lo più racconsolato e
confidente; la sera trista, scoraggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gioventù
della vita intera, così quella che i mortali provano in ciascun giorno, è brevissima
e fuggitiva; e prestamente anche il dì si riduce per loro in età provetta.
Il fior degli anni, se bene e il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto,
anche questo povero bene manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più
segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la
perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già
scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un
appassire. Tanto in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte: poiché
non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì gran lunga, nella
vita e nel mondo. Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte,
con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l’universo medesimo apparisce immune
dallo scadere e languire: perocché se nell’autunno e nel verno si dimostra quasi infermo
e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i
mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di
giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l’universo,
benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia.
Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo
che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi
in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo
intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un
vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso.
Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di
essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.