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Giacomo Leopardi Operette morali IntraText CT - Lettura del testo |
XXIV DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO
Amico. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito.
Tristano. Sì, al mio solito.
Amico. Malinconico, sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran
brutta cosa.
Tristano. Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia, che la vita umana fosse
infelice.
Amico. Infelice sì forse. Ma pure alla fine . . .
Tristano. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto
libro, io aveva quella pazzia in capo, come vi dico. E n’era tanto persuaso, che tutt’altro
mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva
in quel proposito, parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendere prontissima
testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa dell’utilità
o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le
mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno
che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare,
ma il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere
effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito,
immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro
mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini
sono in generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che
credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del
mondo sa che il vero e tutt’altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene che lo
creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini universalmente,
volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e
si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede
sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere
umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, non crederà mai né di non
saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare. Nessun filosofo che
insegnasse l’una di queste tre cose, avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel
popolo: perché, oltre che tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due
prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono
coraggio e fortezza d’animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli,
d’animo ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a
variare le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi
a render l’arme, come dice il Petrarca, alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a
consolarsi di qualunque sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di
ciò che loro è negato o di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque
condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni
cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le
più vere o le più fondate del mondo. Io per me, come l’Europa meridionale ride dei
mariti innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della
vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi,
ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino.
Parlo sempre degl’inganni non dell’immaginazione, ma dell’intelletto. Se questi miei
sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria
degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio
di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della
vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze
di una filosofia dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura
agli uomini forti la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e
misteriosa crudeltà del destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se
quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti,
come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai
ch’ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più
antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di
sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più
miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire
in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose
infinite su questo andare. E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o
all’altr’ieri, tutti i poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in
un altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo a
maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché
studiando più profondamente questa materia, conobbi che l’infelicità dell’uomo era
uno degli errori inveterati dell’intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la felicità
della vita, era una delle grandi scoperte del secolo decimonono. Allora m’acquetai,
e confesso ch’io aveva il torto a credere quello ch’io credeva.
Amico. E avete cambiata opinione?
Tristano. Sicuro. Volete voi ch’io contrasti alle verità scoperte dal secolo decimonono?
Amico. E credete voi tutto quello che crede il secolo?
Tristano. Certamente. Oh che maraviglia?
Amico. Credete dunque alla perfettibilità indefinita dell’uomo?
Tristano. Senza dubbio.
Amico. Credete che in fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando?
Tristano. Sì certo. E’ ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle
forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l’uomo; perché (lasciando
tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di
godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza
quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi
peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più
chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però anticamente la debolezza del corpo fu
ignominiosa, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione
non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo
spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che
rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse rimediare
in ciò all’educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno
della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata
e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a
conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L’effetto è che a paragone degli
antichi noi siamo poco più che bambini, e che gli antichi a confronto nostro si può
dire più che mai che furono uomini. Parlo così degl’individui paragonati agl’individui,
come delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna) paragonate
alle masse. Ed aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente più virili di noi
anche ne’ sistemi di morale e di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere
da tali piccole obbiezioni, credo costantemente che la specie umana vada sempre
acquistando.
Amico. Credete ancora, già s’intende, che il sapere, o, come si dice, i lumi, crescano
continuamente.
Tristano. Certissimo. Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d’imparare, tanto
scema quella di studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti,
ma veri dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant’anni addietro, e anche
più tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello dell’età presente.
Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in generale le cognizioni non sono
più accumulate in alcuni individui ma divise fra molti; e che la copia di questi compensa
la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le ricchezze, che si dividono e
si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco;
perché la scienza va dietro alla scienza, e non si sparpaglia. L’istruzione superficiale
può essere, non propriamente divisa fra molti, ma comune a molti non dotti. Il resto
del sapere non appartiene se non a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia
dottissimo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente
di un immenso capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre
innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina
non è stata ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini
dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni così per
discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare; non ch’io non sia persuaso di
ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno d’ignoranti impostori
da un lato, e d’ignoranti presuntuosi dall’altro, nondimeno crederei, come credo,
che il sapere e i lumi crescano di continuo.
Amico. In conseguenza, credete che questo secolo sia superiore a tutti i passati.
Tristano. Sicuro. Così hanno creduto di sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così
crede il mio secolo, ed io con lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli
altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi
rimetterei alle cose dette dianzi.
Amico. In somma, per ridurre il tutto in due parole, pensate voi circa la natura e i
destini degli uomini e delle cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di politica)
quello che ne pensano i giornali?
Tristano. Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia de’ giornali, i quali uccidendo
ogni altra letteratura e ogni altro studio, massimamente grave e spiacevole,
sono maestri e luce dell’età presente. Non è vero?
Amico. Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da burla, voi siete diventato
de’ nostri.
Tristano. Sì certamente, de’ vostri.
Amico. Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada ai posteri con quei
sentimenti così contrari alle opinioni che ora avete?
Tristano. Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse possibile che non
ischerzaste, più riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d’individui o di cose
individuali del secolo decimonono, intendete bene che non v’é timore di posteri, i
quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli antenati. Gl’individui sono spariti
dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’é
inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito,
né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in
sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo
composte d’individui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui
e di masse, che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de’
posteri, i libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che non
ne bisogna a leggerli, vedete bene che, siccome costano quel che vagliono, così durano
a proporzione di quel che costano. Io per me credo che il secolo venturo farà un
bellissimo frego sopra l’immensa bibliografia del secolo decimonono; ovvero dirà: io
ho biblioteche intere di libri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fatiche,
e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggiamo questi prima, perché la
verisimiglianza è che da loro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sorta non
avrò più che leggere, allora metterò mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo
secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono
andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di
zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi
hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche
preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l’indole
del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in perpetuo da ogni
necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. Mi diceva, pochi giorni
sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende, che anche la mediocrità è
divenuta rarissima: quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a
quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che
consista in parte la differenza ch’é da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in
questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in
questo la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che
non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali,
nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. E
così, mentre tutti gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene
il fato comune e degl’infimi e de’ sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze
economiche, morali e politiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle
creazioni del nostro secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose,
ma ricchissimo e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E
consoliamoci, che per altri sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che parli, e dica
le sue ragioni.
Amico. Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all’ultimo
ricordarvi che questo è un secolo di transizione.
Tristano. Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e
saranno di transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà
secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o
non iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli.
Resta a cercare, andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire,
cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio. Forse
volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da
uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo
licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni conviene
che sieno fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo
si torna indietro, per poi rifarle a grado a grado. Così è accaduto sempre. La ragione
è, che la natura non va a salti, e che forzando la natura, non si fanno effetti che
durino, Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni
apparenti, ma non reali.
Amico. Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete
molti nemici.
Tristano. Poco importa. Oramai né nimici né amici mi faranno gran male.
Amico. O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia
moderna, e poco curante del progresso della civiltà e dei lumi.
Tristano. Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di
consolarmene.
Amico. Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che s’ha egli a fare di questo
libro?
Tristano. Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di
sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione
dell’infelicità dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e
felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo;
e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il
contrario.
Amico. Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che dite. Ma se uno sia felice o
infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di
questa non può fallare.
Tristano. Verissimo. E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia
infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini;
e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con
tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se
non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto
non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla
mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico
non sia lontana. Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile
di dovere, così morto come sono spiritualmente, così conchiusa in me da ogni
parte la favola della vita, durare ancora quaranta o cinquant’anni, quanti mi sono
minacciati dalla natura. Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci
avviene di tutti quei mali che vincono, per così dire, la forza immaginativa, così
questo mi pare un sogno e un’illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi
parla di un avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal
sorridere fra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi resta a compiere non sia
lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi, che
spesso mi maraviglio d’aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze di gloria
e d’immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni
e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni miglior
successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il
buon volere: ma non invidio però i posteri, né quelli che hanno ancora a vivere
lungamente. In altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un
gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro.
Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti.
Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole,
ogni pensiero dell’avvenire ch’io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo
passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo desiderio
la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d’esser vissuto invano, mi turbano
più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo e così contento,
come se mai null’altro avessi sperato né desiderato al mondo. Questo e il solo benefizio
che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama
di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro di morir oggi, e che
dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.