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Carlo Gozzi L'Augellino belverde IntraText CT - Lettura del testo |
Scena prima
Qui in questa soglia dal rigor de' nembi,
dalle rigide brume, dalle nevi,
dal sol cocente, amato simulacro,
salvo ti rendo. Quelle ricche vesti,
donde le belle membra ricopersi,
effetto son di gelosia crudele,
ch'altri, mirando tua bellezza intera,
nella felicitade a me s'uguagli.
Odi i lamenti miei. Deh, se la vista
di questi occhi beasti, il tuo bel labbro,
come Calmon, non è molto, promise,
soavemente dall'udito al core
mandi la voce a ravvivar quest'alma.
Dimmi, idol mio, sei grata a tanto affetto?
Fanciul, cambia favella. Il tuo discorso
risveglia in me di mille accenti il suono
d'adulatori iniqui, di zerbini,
vaselli di delizie, di profumi,
dorati nelle spoglie, e nell'interno
d'ogni vizio sepolcri, e d'ignoranza,
oggetti del tormento, in cui mi vedi.
O cara voce, quanto a questo seno
doni conforto! Ah, dimmi, tu non sei
dunque fattura di scarpello industre,
ma donna fosti? Qual poté cambiarti
magica forza? E chi sí bell'oggetto
disanimar poté? Prive di sensi
far le flessibil carni al mondo sole,
spegner di que' begli occhi il divin raggio.
E tor le rose alle fiorite guance?
Fanciul, cambia favella. Oh Dio, son questi
de' scellerati adulator gli accenti,
a' quali vana, tumida, superba
divenni troppo, un idol di me stessa
a me stessa facendo. Ah, non avessi
per stolte insidie di leggiere menti,
di sospir sciocchi, interminabil lodi,
scordato il cielo, e disprezzati i saggi,
che non saria trascorso d'improvviso
il gelo punitor per queste vene,
per queste fibre, che mi tolse a un punto
moto, senso, color, respiro, e vista.
Deh almen non fosse il carcer, che mi chiude,
arido sí, che il mio dolore interno
sfogar potessi
soccorritrici lagrime, a questi occhi
ristoro acerbo, e pur bramato, e invano.
Misera! Tu m'uccidi. Almen t'accerta,
che il mio dolor di tua sventura, uguagli,
e forse avanzi il tuo dolor. Ben posso,
come vedi, versar dagli occhi il pianto,
che tu non puoi. Potessi almen comune,
com'è l'angoscia, far che fosse il pianto,
che tu brami, ch'io verso in larga vena
senza sollievo aver, come tu accenni.
Non mi chiamare adulator. Nol sono,
simulacro adorato. Deh, mi narra,
chi ti dié vita, la tua patria, e il nome.
Il mio nome è Pompea. Di sangue illustre
fu la nascita mia. Diede l'Italia
aura al mio respirar. Dove piú regna
voluttà smoderata, ove si sprezza
piú la saggia canizie, ove si cerca
leggierezza ne' libri, e corruttela,
piú che soda virtú, s'ergon le mura
della città, dov'ebbi albergo, e vita;
(piangente) quella vita, che vedi, e che piú vita
chiamar non posso, e sol chiamar si deve
vita, morte, sepolcro, e inferno insieme.
Ben mi disse Calmon: «Il tuo tormento
farà maggiore il bel sasso, che parli».
Dimmi, Pompea; se fossi in carne umana,
che nodo coniugal strigner potesse
la nostra sorte, m'ameresti, o cara?
(piangente).
Deh, ingrato, almeno
non destar un desio vano a sperarsi
per raddoppiar le angosce a un'infelice.
Tu m'ami? Ah voce, che il mio cor rallegri,
e laceri in un punto. Io sofferire
dovrò, che duro marmo sien le vaghe
membra di lei, che m'ama? Ah no; si cerchi
l'Augel, da cui dipende il sacro arcano
del cambiamento di costei, che adoro.
Tu promettesti pure, il so, esser pago
d'udir sol la mia voce, ed or nol sei.
Generoso garzon, lascia, ch'io sola
soffra la sorte, all'error mio castigo.
Non espor la tua vita al gran cimento.
Ben spietato sarei, se t'ubbidissi (in atto di partire).