IV
Alessandro Manzoni, nella Colonna infame, lavoro di breve
mole, ma d'importanza grandissima, illustrò per tal modo la condizione della
teoria e della pratica criminale nel ducato di Milano, che dopo di lui non è
più possibile dir cosa nuova su tale argomento; e soltanto ci rimane a far le
meraviglie, quando in taluni fatti avvenuti e prima e dopo l'epoca sulla quale
ei scrisse il profondo suo commento, si scoprono le riprove di quanto per la
prima volta egli annunciò agli studiosi della giurisprudenza e della storia, al
fine di distruggere una credenza invalsa per l'autorità di uomini
riputatissimi; la credenza, vogliamo dire, che le atrocità assunte per antica e
troppo lunga consuetudine nella procedura criminale fossero suggerimenti de'
così detti interpreti del diritto romano. Questa verità dimostrata dal grande
scrittore, costituisce quel che si dice una scoperta; chè, è come una necessità
naturale a quel sommo intelletto di far dono di nuove forme a tutte le sfere
dell'arte a cui si è applicato, e di verità non sospettate prima, e di notizie
peregrine o, per lo meno, di questioni nuove a quelle parti della scienza a cui
ha voluto dare opera. Cento e più anni dopo l'iniquissima condanna degli
untori, ovvero sia nel 1750 e per altri molti anni ancora, vigevano gli Statuta
criminalia Mediolani; ed erano consultati ancora e studiati quei medesimi
interpreti del diritto romano e del diritto comune che erano celebri al tempo
della peste di Milano del 1630. Non v'era dunque nulla di mutato nè nella
scienza, nè nella pratica; la prima non aveva avuto nessun uomo di genio e di
coraggio che avesse potuto scoprire la verità tutta intera e prefinire colla
sapienza della filosofia e collo scrupolo della morale i confini della
giustizia; nella seconda non era penetrata nessuna ordinanza speciale a frenare
la mano pesante del giudice; tuttavia, guardando i processi posteriori a quel
troppo famoso della Colonna infame, se gli arbitrj sono sempre
eccessivi e il poter discrezionale appar troppo corrivo in molte parti della
procedura, non ricompajono più, per quanto almeno ne sappiamo noi, negli atti
preparatorj della tortura... Vogliamo dire che non ricompajono più in quella
maniera che si riscontra nel processo degli untori; chè, dopo, le formalità
vennero seguite; e bene spesso appare essere stati consultati ed obbediti
gl'interpreti, consultando ed obbedendo i quali, il Senato del 1630 avrebbe
dovuto mandare assolti i presunti untori. Chi volesse dunque conoscere quali
norme doveva tenere nel secolo scorso un giudice prima di sottomettere un
imputato alla tortura, e tutte le condizioni che, non volendo varcare i limiti
del dovere, si avevano a seguire per obbedire gl'interpreti della legge,
assunti, per consuetudine diuturna ma pur sempre
provvisoria, in autorità quasi di legislatori, non deve far altro che leggere
il capo II dell'Appendice sulla Colonna infame. Là è dimostrato come la folla degli
scrittori criminalisti non abbiano avuto altra intenzione che di restringere
l'arbitrio del giudice, e di guidarlo secondo la ragione e verso la giustizia;
là son riportate le generose invettive de' più celebri giureconsulti contro i
giudici crudeli che si arrogavano il diritto d'inventar nuovi tormenti; là, per
conseguenza, è provato come non solo debbasi togliere dalla testa dei
giureconsulti interpreti l'odiosità che per tanto tempo le fu lasciata pesar
sopra; ma si debbano anzi riguardare come i primi che iniziarono la via
lunghissima delle riforme; i primi che, costretti a render ragione delle loro
decisioni, richiamaron la materia a principj generali, raccogliendo e ordinando
quelli che sono sparsi nelle leggi romane, e cercandone altri nell'idea
universale del diritto; i primi che prepararono il concetto, indicarono la
possibilità e, in parte, l'ordine d'una legislazione criminale intera ed una.
Le cose nuove, e le cose vere, e quelle che costringono la
ragione a dir di sì, dopo averla collocata nel più giusto punto di veduta, sono
tali e tante in quell'opuscolo, che lo si legge con sempre
crescente meraviglia; alla quale vien compagna un'altra meraviglia, quando si
considera che un tale opuscolo, perchè non conta molte centinaja di pagine, fu
poco letto e peggio sentenziato; mentre altre opere d'altri autori, le quali
assomigliano a' magazzini di Lambro pirata, pieni zeppi di roba rubata, sono
spacciate per tutta Italia, anzi per tutta Europa, a togliere lo spazio che,
pur troppo, manca ai libri ottimi! Ma questa digressione ha tanto a che fare
col nostro libro, quanto col regno della luna, onde rientrando in casa, diremo
ai nostri lettori, per dilucidare quel passo della stessa Colonna infame, dove,
richiamando gli Statuti di Milano, è detto che essi non prescrivevano altre
norme alla facoltà di mettere un uomo alla tortura, se non che l'accusa fosse
confermata dalla fama, e il delitto portasse pena di sangue; diremo dunque che
da queste ultime parole non bisogna lasciarsi trarre a credere che la tortura
non si potesse infliggere che agli imputati di omicidio o d'alto tradimento:
no, le categorie dei delitti portanti pena di sangue erano molte, anzi erano
troppe, prova ne siano gli statuti criminali, dove alla rubrica De forma
citationis, ecc., e al capo De tormentis, espressamente si dichiara che la
tortura può essere ministrata "in Casibus infrascriptis videlicet: in
crimine haeresis, sodomiae, turbationis pacifici Status domini nostri...
crimine homicidii, assassinamenti, adulterii, veneficii, privati carceris
falsitatis; schachi, seu robariae, furti, ecc.". Il che basta per
dimostrare che il delitto ond'era imputato il lacchè Suardi era di quelli per
cui gli statuti avevan decretato, all'uopo, l'uso della tortura.
Dalla materia giuridica venendo ora agli uomini che la
professavano: dottissimo fra i giureconsulti milanesi era il conte Gabriele
Verri, il padre del nostro Pietro. - Il diritto romano, gli statuti, le opere
dei più autorevoli interpreti eran talmente famigliari a lui, che, nei casi dubbj,
nelle controversie, egli citava a memoria e si diffondeva con facondia e con
tutti i saliscendi della dialettica. Però gli ammiratori lo chiamavano la
biblioteca ambulante del Senato; gli avversi lo chiamavano il sofista. Una
testimonianza della di lui dottrina sono le Constitutiones decretis et
senatusconsultis illustrata curante Comite Gabriele Verro; quibus accessit
Prodromus de origine et progressu Juris Mediol., eodem Verro auctore, stampate
a Milano dal Malatesta nel 1747. Ma è cosa strana a pensarsi che quell'uomo
così dotto, e che aveva sotto mano, a dir così, il processo lungo e lento del
tempo e i lavori interminabili dei legisti per cui la verità e l'assoluta
giustizia si sforzavano a tentar il varco per uscire all'aperto, pur si
mantenne sempre stazionario ostinato e quasi
feroce nelle consuetudini vecchie; mentre il figlio suo, che applicatosi ad
altri rami della scienza e dell'amministrazione pubblica, era di tanto men
profondo di lui nella materia giuridica, ebbe tuttavia lo spontaneo intuito del
vero e del giusto; - tanto nelle cose che interessano il bene dell'umanità,
basta il sentimento a far trovare i rimedj! tanto, spesse volte, la dottrina
soverchia e frammentaria, non rischiarita nè da un vasto concetto, nè
dall'amore degli uomini, è impaccio alla scoperta del vero!
Per la sua qualità adunque di biblioteca legale ambulante,
il senatore Verri, ogni qualvolta trattavasi di qualche fatto fuor
dell'ordinario, complicato, inestricabile, veniva sempre
consultato confidenzialmente, e come suol dirsi, in camera charitatis. Però se
già era stato interrogato in prevenzione dal pretore e dal capitano di
giustizia relativamente ai costituiti Amorevoli e Bruni, tanto più lo si volle
sentire quando il lacchè venne catturato, e prima che lo si sottomettesse
all'interrogatorio. Il nome del conte F... era già corso, il lettore lo sa,
sulle labbra e del capitano e del conte Gabriele. Ma questi s'affannò a
dimostrare che del conte non era punto a far parola, come se nemmeno fosse
esistito, e ciò fino a tanto, ei soggiungeva, che ei non fosse stato messo
innanzi espressamente dal costituito Suardi. Prima di aprire la procedura
contro il quale, credette bene di sfoderare tutte le sentenze dei trattatisti,
e specialmente quelle relative alla qualità ed alla quantità degli indizj
necessarj per poter mettere un imputato alla tortura, ed ai limiti onde si
doveva intendere ristretto l'arbitrio del giudice dall'osservanza scrupolosa
del diritto comune; insistendo segnatamente sull'autorità del Farinaccio, dove
questo legista raccomandava che il giudice deve inclinare alla parte più mite,
e regolare l'arbitrio colla disposizione generale della legge e con la dottrina
dei dotti approvati; e riferendo molti passi di quei giurisperiti che avevano
stabilita la regola contraria a quella più comunemente ammessa
sull'arbitrarietà dei giudizj. - Il Claro, il Bartolo, il Pozzo, il Bossi, il
Marsiglio, il Casoni, oltre al Farinaccio, autore prediletto del conte
Gabriele, furono fatti passare tutti innanzi alla memoria del marchese
Recalcati, in via di conversazione amichevole e affatto casalinga, ma col fine
di predisporlo all'indulgenza, all'indulgenza, s'intende, compatibile colla
giustizia, e ciò con tanto più d'insistenza quanto più forte era la sua
convinzione che il Galantino fosse il vero e materiale autore del delitto, e
che un altro, interessato all'eredità del marchese defunto, fosse stato
necessariamente la volontà occulta che aveva guidato i movimenti del lacchè.
Se il conte Gabriele Verri avesse vissuto cento venti anni
prima, e fosse stato senatore, e fosse stato interpellato in prevenzione sul
fatto degli untori; avrebbe sfoggiata quella medesima dottrina? avrebbe
inculcata la scrupolosa osservanza del diritto comune? l'obbedienza alle norme
raccomandate da' giurisperiti interpreti? avrebbe insinuata l'indulgenza? Non è
facile a rispondere, se non aderendo a quanto fa osservare il Manzoni, che cioè
nel 1630 l'universalità del pubblico credeva e voleva le unzioni, e pretendeva
che l'autorità scoprisse il delitto; che per ciò era comune e prepotente
l'interesse e del pubblico e della magistratura di trovare i rei laddove nel
caso nostro l'interesse non è più comune; anzi da parte del Senato e della
classe patrizia è quello di non trovare il colpevole; è una preoccupazione
gelosa di far scomparire, se fosse possibile, tutte le pedate, a dir così,
impresse nel terreno, seguendo le quali, si può giungere al punto donde il vero
colpevole s'è mosso; è dunque il caso in cui l'osservanza scrupolosa di tutte
le formalità degli statuti criminali, dei principj del diritto comune, della
mitezza raccomandata dai giuristi; l'indulgenza, in una parola, può soltanto
far sperare di raggiungere quell'intento... E in tal caso, c'è l'uomo di buona
memoria e di gran dottrina che fa conoscere tutto ciò che la teoria legale
raccomanda alla pratica, e che converte, dove precisamente meno occorre, in un
sistema di prudenza guardinga e mite, un sistema di procedura che generalmente,
pel modo onde il più delle volte veniva adottato, faceva spavento a tutti.
Tanto è necessario che la lettera della legge sia precisa, inesorabile,
geometrica, e che i codici scansino al possibile il bisogno
dell'interpretazione, se si vuole che la giustizia non sia il balocco della
dialettica ambidestra. - Ma veniamo al Galantino.
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