VI
La condizione degli avvenimenti che abbiamo a raccontare è
tale, che ci conviene viaggiare innanzi e indietro da Venezia a Milano e da
Milano a Venezia, come un conduttore di diligenza. Intanto adunque che a Milano
il Galantino sottoponevasi al primo interrogatorio, a Venezia il tenore
Amorevoli aveva raccolte dal suo gondoliere quante notizie gli bastavano sul
conto della contessa Clelia. Siccome il Bianchi, gondoliere, quando non era al
servizio di lei, stava di consueto al traghetto del molo alla punta dell'isola
della Zueca, così i suoi compagni del traghetto medesimo sapevan benissimo chi
egli serviva di gondola in quegli ultimi giorni. Amorevoli adunque, per quanto
avesse fatto interrogazioni prudenti e velate, venne pure a conoscere ogni
cosa, e della casa ove essa alloggiava, e della famiglia che la ospitava ed
anche delle corse che da qualche giorno ella solea fare a diporto lungo il
Canal grande; perchè il Bianchi, spiccandosi ad ora tarda dal suo posto, ove
stava il più della giornata facendo versi sotto il felze negli intervalli di
riposo, aveva detto più volte:
- Ora andiamo a prendere la nostra bella lombarda.
Però volle anch'egli il tenore recarsi tra l'altre gondole
in canale per vedere se mai gli venisse fatto d'incontrarsi in quella della
contessa. Lo scontro potea benissimo succedere, senza che fossero turbate le
leggi del possibile o del probabile, ma il caso volle che per quel giorno non
se ne facesse nulla, e giuocassero quasi a chi si fuggiva; e anche allora che
furono a pochi tratti di distanza, là verso santa Chiara, l'uno non avesse
sentore dell'altra, e buona notte. Tornò dunque all'albergo e là, messosi in
tutta gala, si portò poi, sempre intendesi in
gondola, a far visita al corregidore Pisani, che aveva la sorveglianza de'
teatri di musica, e dal quale eragli stato fermato il patto di sei sere di
recita a quello di san Moisè, perchè solea tenersi chiuso in primavera ed
estate l'inallora maggior teatro di san Cassiano. Recatosi da quel ricco
patrizio, fu accolto come si poteva accogliere un celeberrimo artista di canto
in un tempo in cui la musica era tenuta necessaria come l'aria e l'acqua. Il
tenore si scusò del ritardo, dandone cagione a' fatti imperiosi, che il
patrizio veneziano, sorridendo, accennò di sapere benissimo, e si dichiarò
pronto ad incominciare i suoi impegni.
Il corregidore gli disse che il teatro sarebbesi aperto fra
poco perchè dovevasi attendere anche la ballerina Gaudenzi, la quale avea fatto
scrivere, le si concedessero alcuni giorni prima di partire da Milano.
- Ed ora, caro mio, ho a supplicarvi di un favore, soggiunse
il conte.
- Vostra eccellenza mi comandi.
- Domani sera, a festeggiar l'arrivo del conte Algarotti, do
un'accademia di musica a cui interverrà tutto il bello e il buono che abbiamo
in Venezia, e molte preziosità che ci son capitate di fuori. Voi avete ad
essere tra queste, e dovreste, se non pretendo troppo, cantare una scena,
un'aria, che so io, un madrigaletto, qualche cosa insomma; v'è qui Luchino
Fabris, l'imitatore di Egiziello, che vuol sentirvi; e nientemeno che la moglie
di Hasse, la celebre Faustina, venuta per certe sue faccende di famiglia dalla
Germania; la Faustina, ora matura fin troppo, ma che, cantando di agilità, è
ancora capace di passar sedici crome in una battuta. V'è qui poi la Turcotti,
che voi dovete conoscere perchè mi parlò di voi con entusiasmo tale che
parrebbe oltrepassare persino i confini delle crome; e il conte sorrideva. E
poi c'è il mago, il gran mago dell'archetto, quel diavolo di Tartini, che v'ha
sentito e vuol risentirvi. Dunque, se mai vi bastasse l'animo di dir no, dovrei
credervi un uomo ben inflessibile...
- Il vostro desiderio, eccellenza, basta perch'io m'induca a
far ciò che di solito non faccio di buona voglia; perchè, prima di farmi
sentire in camera, amo che mi si conosca in teatro...
- Vi comprendo benissimo, e tanto più vi ringrazio; ma io
so, e me lo disse più d'uno, che voi siete padrone dell'arte in modo, che la
governate a vostro arbitrio e in camera e in teatro. Dunque v'attendo domani,
così verso le quattro di notte...
- Io vi sarò senz'altro... e Amorevoli si licenziava, il
quale non avrebbe certo accettato di far la sua prima comparsa in Venezia a
quel modo, se non lo avesse sollecitato la brama di vedervi la contessa. In
questo pensiero, giacchè erasi fatto tardi e per quella notte ei non sapeva in
che luogo ridursi di Venezia, ritornò al suo alloggio allo Scudo di Francia.
Là, giacchè l'albergatore gli aveva fatto portare in camera, siccome ne avea
avuto l'ordine, una spinetta da nolo; trasse dal baule la sua biblioteca
musicale portatile, e si mise a sfogliazzarla, onde cercarvi qualche cosa che
potesse fare all'uopo per l'accademia del giorno successivo. Un'aria della
Merope di Jomelli, per la quale il celebre napoletano tre anni prima aveva
fatto impazzire tutta Venezia e gli era stato offerto un posto di direttore nel
Conservatorio delle fanciulle povere; un'altr'aria dell'Achille in Sciro dello
stesso maestro; l'aria celeberrima dell'Olimpiade di Pergolese, che già
l'udimmo cantare nelle carceri del Pretorio a Milano. Un grande recitativo
dell'Artaserse del Vinci, il maestro perfezionatore dei recitativi obbligati.
Alcuni madrigali dell'abate Steffani, passato da Venezia in Germania ad
educarvi Haendel, il quale si assimilò le più care imagini melodiche del
maestro, e infuse per tal modo la psiche italica nell'astrusa compagine
germanica; alcuni altri celeberrimi madrigaletti dell'abate Clari, sposati per
lo più a giuocherelli di poesia erotica, ma squisitissimi di stile melodico.
D'una in altra cosa, Amorevoli cominciò a provare qualche frase sottovoce,
accompagnandosi alla spinetta; ma quando dalle arie passò al recitativo di
Vinci, la musica declamata eccitandolo ad entusiasmo, gli fece mandar fuori
tutta la sua voce piena, come se fosse alla ribalta d'un grande teatro.
Era la terza volta che Amorevoli riprovava una nota tenuta,
un sibemolle prodigioso, alla risoluzione del sublime recitativo di Vinci,
quando sentì batter crudamente alla porta della camera. Interrompere
chicchessia, foss'anco l'uomo il più placido, nel fitto d'un'occupazione a cui
mette tutto l'interesse e tutta l'anima, è il vero segreto di farlo prorompere
in atti d'ira, di quell'ira che è deposta in petto a tutti i mortali anche i
più linfatici, non essendovi differenza che nella dose. Amorevoli aveva avuto
dalla natura una dose d'ira, come suol dirsi, normale, ma gli era stata
accresciuta dalle suscettività teatrali e dalle diverse liti cogli impresarj, e
dalle controversie coi vestiaristi, sempre
incapaci ad accontentare un cantante; per di più essendo romano, da
Transtevere, dov'era nato, aveva portato seco ne' suoi viaggi tutti que' modi
risoluti e troppo espressivi onde quella frazione di popolo sa imprecare più di
tutti i popoli del mondo. Quando adunque si sentì rotto in due il suo
preziosissimo sibemolle da quell'importuna picchiata, mandò fuori una di quelle
tali frasi, e in quel tono acuto e vibrato che gli era rimasto in gola... e nel
tempo stesso andò ad aprire. Era un servo in livrea, con baffi, distintivo
rarissimo in quel tempo, e che per lo più soleano portar coloro che, dopo aver
servito a lungo nella milizia, si riducevano a mestieri ed a servigj comuni
della vita, press'a poco come al tempo nostro, in cui quanti hanno portato
sciabola o fucile al reggimento, o hanno inforcato un arcione, serbano
nell'aspetto qualche marchio indelebile, pel quale si può quasi indovinare se
furon soldati di cavalleria o di fanteria. Quel servo pertanto, con un
accentaccio lombardo e con parole nelle quali, per indefinibili combinazioni,
si sentiva un'incondita fusione di Milano, di Spagna e di Veneto:
- Il mio padrone, disse, è stracco, e vorrebbe dormire, e
gli danno gran noia i vostri gridi. Però uomo avvisato, mezzo salvato.
A quell'intemerata così improvvisa e così villana, Amorevoli
s'accontentò in prima di guardare quel servitore con tutto il veleno che gli
potea schizzare dagli occhi, poi soggiunse:
- E chi è codesto capo di popone che ti dà simili incarichi?
Esci tosto, o non avrai tempo di contare i gradini di questa scala, tanto di
fretta io te li farò fare. - E senza più, richiuse i battenti dell'uscio sulla
faccia del servitore, e rimessosi alla spinetta, tornò al suo recitativo,
azzardando un do sopracuto di petto, che parea voler trapassare il soffitto
della camera...
Ma chi era quel servo, e a nome di chi veniva? Già noi non
intendiamo di fare una sorpresa; son cose presto indovinate. Lo Scudo di
Francia era allora tra' più sontuosi alberghi di Venezia. Il conte V... ch'era
entrato la sera in città, in quella barca precisamente della quale la contessa
Clelia, non presaga di nulla, aveva veduto alla lontana luccicare il fanale,
era disceso a prendere alloggio a quell'albergo appunto, e in compagnia del suo
più fido servo, il quale era già stato suo caporale al reggimento. Preso uno
degli appartamenti più ricchi dell'albergo, abitava il piano superiore a quello
ove Amorevoli s'era acconciato. La combinazione può parere strana per coloro a
cui tutto riesce improbabile. Ma il tenore non era poi obbligato a prendere
alloggio in una bettola, e il conte, per quanto fosse conte e colonnello, non
aveva diritto nessuno di alloggiare nelle camere del Doge. Onde se si trovarono
ambedue in quell'albergo, la cosa è tanto verosimile, che quasi sarebbe
inverosimile la sua contraria. Ma di ciò non è questione. Il conte V... era
dunque venuto a Venezia con intenzioni terribili... in questo almeno era
logico: o non muoversi affatto da Milano e bever l'onda di Lete, ciò che invero
sarebbe stato atto prudentissimo, chè il suo decoro, non ne andava di mezzo per
nulla; o, giacchè erasi mosso, doveva averlo fatto per qualche cosa. Lungo il
viaggio aveva meditati, come sappiamo, o almeno come si può congetturare, cento
progetti, che tutti gli pareano eseguibili e tosto: ma appena furon tolte le
distanze, che a lui erano sembrate il solo
ostacolo all'ira sua ed alla sua vendetta, se gli rimase l'ira, si trovò
impacciato sul modo di scaricarla agli altrui danni. Bastonare, frustare,
sfregiare in qualche modo l'effeminato e petulante e plebeo cantore, com'esso
lo chiamava, era il voto supremo della sua mente in ebollizione, ma bisognava
pure che si presentasse un'occasione. Bene si ricordava dello sfregio fatto a
Voltaire da quel tal duca irritato dalle sue punture; ma cogliere un uomo
all'impensata e farlo bastonare da mani prezzolate gli pareva un'azione
vilissima, e indegna di cavaliere e di soldato. Dovevasi pertanto cogliere
un'occasione plausibile; ma per coglierla era necessario che l'occasione
venisse e spontanea e tale, che il mondo potesse dire: - È giusto che colui sia
stato bastonato. - E in quanto alla contessa?... Ahimè, che pensando a lei il
colonnello si smarriva in un abisso di dubbj.
Ei non era nè determinato, nè focoso, nè innamorato, nè
geloso come Otello. Non era assassino come Pietro de' Medici; non efferato come
il duca di Guisa; non era cupo e taciturno come Nello della Pietra; non
longanime come il Lopez dalla vendetta segreta; bensì in quel suo testone di
ceppo e in quel suo cuoraccio da galantuomo era una miscela di tutti questi
ingredienti. Ma val più una goccia di acido prussico a produrre i subiti
effetti, che dodici elementi che si faccian guerra a vicenda; onde egli si
affannava senza costrutto e senza mai sapersi determinare a cosa nessuna; al
pari del tenore Amorevoli aveva anch'esso, in quella sera, pagato lautamente,
se non un gondoliere, un servitore di piazza, per sapere tutto quello che gli
occorreva di sapere; nè per questo i denari erano stati mal spesi; col verboso
cicerone era stato in gondola a visitare i luoghi, il rio san Polo, il palazzo Salomon,
la scalea, la finestra, la porta del lato della calle, tutto. Ma più
raccoglieva notizie e mezzi, insomma più innoltrava nella via ch'egli aveva
cercato, e più crescevano le sue irresoluzioni. Se non che, nel fitto appunto
di quelle sue accalorate consulte, sente un suono di spinetta di sotto a sè,
poi un cantare sommesso, poi una voce che si snoda e si alza, e si diffonde in
vibrazioni acute.
Gli pare e non gli pare; chiede a sè stesso: chi è mai
costui? e, chiamato il servitore, fa domandare il cameriere.
- Chi è costui che a quest'ora grida come se fosse in
teatro?...
Il cameriere mal comprende, non tanto le parole del conte,
quanto il piglio sdegnoso onde le pronuncia.
- Eccellenza... è uno dei più celebri cantanti del giorno...
Tutti i forestieri che alloggiano qui... son discesi tutti nel salone che è
presso le sue camere, per sentirlo più dappresso, e tutti fanno le meraviglie e
vanno in solluchero, e si chiamano fortunati d'essere venuti ad alloggiare qui,
e poterlo udire prima che canti in teatro, chè egli è la prima volta ch'ei ci
capita a Venezia.
- Ma chi è dunque?
- È il tenore Amorevoli, per servirla.
E il conte che già ne avea un sentore, non fece atto di
meraviglia nessuna; e rivolto al servo-caporale ch'era lì presente:
- Va tosto abbasso, gli disse, e di' a costui che a
quest'ora altri dorme qui, e non vuol essere messo in soprassalto da' suoi
strilli.
Il cameriere s'intrometteva per impedire un tale atto, ma il
conte-colonnello:
- Va dunque, ruggì al servo-caporale, e bada di non far complimenti.
Parla chiaro e risoluto... e se non obbedisce la vedremo.
Il servo, come sappiamo, fece quel che fece, ma quando venne
respinto dal tenore, non sapendo che risolvere, perchè di fuori erano molti
camerieri che adocchiavano, risalì agli appartamenti del padrone a riferirgli
la risposta... Il conte stava in ascolto... quando gli giunse all'orecchio quel
do di petto sopracuto che lo fece spiritare, onde, senza rispondere, discese
precipitoso e formidabile, come un orso che affamato si rotola dal monte se mai
gli venga veduto un giovenco sbandato alla campagna. Discese e bussò sì forte,
che Amorevoli dovette aprire... e si vide innanzi, non certamente aspettato...
il conte grande e grosso e fiero, il conte che molte volte dalla ribalta aveva
veduto in palchetto.
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