VIII
Due palazzi egualmente celebri, che portano il nome dei
Pisani, vi sono in Venezia; quello a San Paolo, che ha la facciata rispondente
sul Canal grande; e quello in Campo San Stefano. Il primo, appartenente a
quello stile archi-acuto veneziano che ha per distintivo caratteristico il foro
quadrilobato interposto agli archi, ma che nei pilastri bugnati e nel basamento
accenna alle prime transazioni tra l'arte del medio evo e il ritorno dello
stile romano, è lodato per l'eleganza nativa dell'ordinamento generale del
primo stile e la felice libertà degli innesti del secondo. Ma il palazzo Pisani
di San Stefano è bestemmiato dalla critica più recente, che lo chiamò
un'insignificante montagna di pietre sagomate. Ognuno ha i suoi gusti, e noi,
sebbene troviamo pessima di stile la facciata di questo palazzo, giudichiam d'altra
parte degnissima di meraviglia la gigantesca grandiosità di tutto l'edificio; i
cortili a molti piani di poderosa struttura, le scale, gli appartamenti, le
sale che ancora oggi, pur nel tristo abbandono in cui giaciono, fanno
rimpiangere allo spettatore quell'avito splendore ove al tempo nostro è
infranta affatto la tradizione. Nelle opere dell'arte, segnatamente
dell'architettura, la grandiosità dell'impianto e l'audacia del concetto sono
elementi che non ponno essere disprezzati, bastando soli a dare importanza agli
edifizj. La miscela di più forme, i giuochi di parole, i bisticci, le freddure
onde pur sono offese le composizioni drammatiche di Shakespeare, non tolgono
ch'egli giganteggi su tutti coloro che non straripano perchè non hanno fantasia
che rigurgita. D'altra parte quella miscela ha un valore, se non per l'arte
almeno per la storia di essa, almeno per le significanze ch'ella serba in molte
parti della storia generale. I drammi di Shakespeare sono l'enciclopedia
storica della grammatica inglese, chè cento autori portarono le diverse loro
acque a quell'oceano; e il medesimo può dirsi di alcune opere dell'edilizia,
fatte innalzare da più volontà e da ingegni diversi, che serbano le varie
impronte dei tempi in cui hanno operato; onde se il gusto squisito,
contemplando il tutto, si offende, non essendo preoccupato che delle linee e
delle forme; l'intelletto abbracciando invece più elementi, non resta offeso
dalle forme imperfette, perchè si lascia preoccupare dai varj significati che
offre l'edificio. Nel vetusto San Marco, la meraviglia massima delle meraviglie
veneziane, è una mescolanza di tutti gli stili e di tutte le idee che quegli
stili, secondo alcuni, dovrebbero rappresentare - l'arte cristiana vi transige
colla pagana, le incondite stranezze dell'impero basso contaminano spesso i
simboli cristiani, la cupola orientale gira sugli archi latini, la colonna
greca posa sulle costruzioni bizantine. - La critica inesorabile che è fida al
bello assoluto e lo trova nella sola unità poderosa, s'indispettisce di tali
mescolanze; ma v'è quell'altra critica più grande, più intellettuale, più
liberale, che trova quell'edificio d'un valore inestimabile, per le sue varietà
appunto, e perchè l'architettura essendo un libro di granito, come disse il
poeta, tanto più quel libro è prezioso, quanto più fatti ricorda della storia
di un popolo. Tutte queste nostre chiacchiere vorrebbero dire che anche il
grandioso palazzo Pisani, imperfetto, difettoso, senza carattere deciso, ha un
merito, se non in faccia alla critica dell'arte, in faccia a quella della
storia, e che per ciò i Pisani che lo hanno fatto innalzare e continuare, non
hanno mal speso i denari, come taluno ha detto. Cominciato alla metà del 1500
dal Sansovino, fu compiuto quasi due secoli dopo dal vicentino Frigimelica,
onde codesto edificio, esaminato in tutte le sue parti, presenta tutte le
vicende della grandezza veneziana negli ultimi suoi secoli, e dei trapassi del
gusto, rappresentati da vari architetti. Che se anche oggi, pur nell'abbandono
in cui è lasciato, serba ancora qualche significato, si figura il lettore quel
che nel secolo passato dovesse parere al visitatore intelligente, in uno di
quei giorni in cui la ricchezza del proprietario Alvise Pisani lo apriva alla
folla dei patrizj e delle altre classi distinte; quel che dovesse parer nella
notte in cui lo dischiuse per festeggiare l'arrivo del conte Algarotti, il
quale in quel tempo, per straordinario beneficio di fortuna, sedeva re di tutti
i regni delle scienze e delle arti. Erano le tre ore di notte; risplendevano
tutte le finestre della facciata che guarda il Campo San Stefano. Le due statue
oziose, che stanno a' fianchi della maggior porta, avevano avuto anch'esse in
quella sera l'incarico di portare un gran fanale sulla testa; risplendeva tutto
il lato del palazzo che guarda il rio; e più servi con torcie a vento stavano
sulle due scalee per cui si ha accesso al palazzo da quella parte appunto; era
tutta illuminata la lunga calletta per la quale il palazzo ha una comunicazione
col Canal grande, sulla scalea della quale stavano pure altri servi con torcie
a vento per ajutare lo sbarco dalle gondole accorrenti. Dalla parte del campo
venivano a frotte di due, di tre, di quattro gentiluomini e gentildonne,
preceduti dai servi col lampione. Il Canal grande, per quanto spazio misura la
linea di due o tre palazzi, era tutto pieno di gondole con gondolieri
schiamazzanti ad aprirsi la via, chi verso l'approdo della calletta, chi verso
il rio interno. Gl'invitati che veniano dal campo, s'incontravano nell'atrio
con quelli che arrivavano dal rio; e quand'erano forestieri o veneti di terra
ferma, si soffermavano a guardare il leone rampante scolpito, che era lo stemma
di casa Pisani, colla spada da un lato, la mazza e l'elmo dall'altro; e i fanò
delle galeazze che già avevano rischiarate le vittorie del glorioso Vittor
Pisani. Tutti costoro poi si incontravano nell'ultimo cortile con quanti vi
approdavano dal canale, e insieme salivano lo scalone e, d'una in altra
anticamera, entravano nella maggior sala, la cui vôlta, dipinta dal Guarana, è
sorretta da molte colonne corinzie, oggi mostranti il gretto legno, allora
tutte splendide d'oro nel capitello, nelle scanalature, nella base.
In quella sala v'era uno scompartimento apposito per
l'orchestra e pei clavicembali.
L'accademia, dovendosi incominciare ad ora più tarda, la
folla dei visitatori traeva di sala in sala ad ammirare gli sfoggi straordinarj
di quel palazzo e di quegli appartamenti: i dipinti di Tiepolo, del Tiepoletto,
del Canal, del Rizzi, del Cignaroli; i damaschi, i sopraricci, gli arazzi della
fabbrica privilegiata, allora celebratissima, delle sorelle Dini, le quali
ritraevano un assegno annuo dalla stessa Repubblica. E segnatamente si
trattenevano ad esaminare a parte a parte le ricchezze d'ogni guisa che
risplendevano nella così detta sala d'Apollo dipinta a chiaroscuro dall'Amigoni
bergamasco. Se non ci tormentasse la noja delle descrizioni, onde amiamo
dipingere a sguazzo con pennello scenografico e in istile piazzoso, piuttosto
che col pennello minuto dei Fiamminghi, vorremmo riprodurre così al vivo il
palazzo Pisani di dentro e di fuori in quella serata musicale, che il lettore
dovrebbe confessare che oggidì per questo lato la ricchezza par miseria; e
quando pure dà il caso che taluno voglia sfidare il passato per superarlo, non
riesce che ad essere la scimia che imita il padrone, e provoca il riso invece
della meraviglia; perchè c'è una cosa, che distingueva i nostri buoni vecchi,
ed è l'armonia che univa la loro persona e i loro vestiti colle proprie
abitazioni, le suppellettili, gli addobbi, le tappezzerie, gli ornati, le
pitture onde si circondavano. Oggi invece il cilindro del secolo decimonono
copre una testa colla barba di Carlo V, o i mustacchi a coda di topo di
Tamerlano. Oggi il monotono e gretto frack di panno nero, e i calzoni attillati
del marito, si smarriscono nelle volute e nelle sinuosità del guardinfante
risuscitato dalla moglie ingrossata. Oggi il signore sotto i soli d'Italia
porta il soprabito di guttaperca, che ci fa sentire il ribrezzo delle nebbie
inglesi impregnate di filigine; mentre poi sul serpe della carrozza parigina il
cocchiere reca l'impronta di una vecchiezza anticipata sotto la parrucca a tre
giri del senator Tredenti; e nelle case la stessa sconcordanza perpetua, e
negli addobbi e negli ornati sempre una
ricchezza senza logica e che rinnova l'immagine oraziana del mostro equino.
Rifacendoci coi nostri personaggi, a tre ore di notte
Amorevoli portossi al palazzo Pisani, dove s'incontrò in Luchino Fabris, musico
di gran merito, imitatore fortunato del celebre Egiziello. Essi eransi trovati
insieme viaggiando più volte, e avevano stretta amicizia; ma, per combinazione,
non eran mai stati scritturati a cantare insieme nè in un medesimo teatro nè in
una città medesima, onde si conoscevano per fama, e avevano il desiderio di
sentirsi a vicenda.
- Ho caro assai di vederti qui, disse il Fabris ad
Amorevoli, e finalmente udrò la tua voce.
- Ed io avrò il dispiacere di fartela sentire in un cattivo
momento, disse Amorevoli. Non sto niente di lena, e cento cose mi dan noja.
- So tutto, amico mio, ma sono ingredienti quelli che non
scemano punto il colorito al canto. Tu vedrai la contessa, e...
Amorevoli finse di aver preoccupata l'attenzione a qualche
oggetto, e non rispose.
- Credo bene che la bella lombarda verrà stanotte qui, come
s'è mostrata altrove in questi giorni addietro... Ma tu guardi Apollo in
quadriga, e non ci senti da quest'orecchio. Pure, se tu taci, tutti parlano.
Dammi dunque retta. Sento che c'è qui il marito della contessa...
- Anche questo si sa?
- E che mai? pretenderesti forse che del duello col giovine
Emo non fosse trapelato nulla, quando cameriere e cuoco e guattero sono stati
testimonj della scena?
- E come si racconta la cosa?
- Sta tranquillo; tu ci fai buonissima figura. Ma ora si
vuol sapere come riuscì il duello... è il discorso di tutti... Non sai nulla
tu?
- Nulla affatto. Sono andati in Terra Ferma, fuori un tratto
del territorio della Serenissima per scansare certa legge che li avrebbe colpiti.
Però non se ne sa nulla ancora. Lasciamo dunque che tutto vada a beneficio o
maleficio di fortuna; e dimmi chi è quel cosino là smilzo e pallido, colla
collana e il medaglione e la croce in petto... Tu hai cantato per due stagioni
l'una dopo l'altra a Venezia... e questa che s'innoltra sarà la terza... Devi
dunque avere la città tutta quanta in sul palmo, e saper vita e miracoli di
ciascuno come un barbiere.
- Davvero che di questa città ormai conosco il dritto e il
rovescio come se fosse la mia giubba. Ma non domandarmi chi sia colui, perchè
non l'ho mai veduto nè qui, nè altrove, nè in piazza.
Dicendo questo il Fabris si volse a chi gli passava presso,
e chiese il nome di quel gentiluomo.
- Chi è colui? rispose l'interrogato con un sorriso secco e
amaro. Ma gli è forse permesso ignorarlo? Esso è nientemeno che il re della
festa.
- Chi? il conte Algarotti?
- L'Algarotti... sì signori... plebeo di Venezia, conte di
Prussia, ciambellano di S. M. il Re Federico, cavaliere del Merito, consigliere
intimo del Re di Polonia, consultore del duca di Savoja, di quello di Parma,
del Papa; membro di tutte le università, socio di tutte le accademie che
furono, che sono e che saranno: astronomo, poeta, pittore, architetto,
suonatore di violino... Di molti si suol dire che cosa è... di costui bisogna
dire che cosa non è... Tuttavia quel ch'ei valga davvero, lo si conoscerà da
qui a cinquanta e meglio ancora da qui a cento anni. Intanto ha la tosse, e un
polmone che si rifiuta a fare il suo solito servizio. Padroni riveriti.
Così dicendo, quel gentiluomo si mescolava tra folla e
folla.
- Che costui sia un qualche letterato o poeta, razza
invidiosa e malefica? disse il musico Fabris, il quale scontrandosi in quel
punto faccia faccia con un uomo tutto vestito di nero, alto e magro, ch'ei ben
conosceva:
- Signor abate, disse, vorrei sapere il nome di quel
giovinotto lì alto e stecchito, con cui testè ho parlato e che or sorride a
quella dama.
- Se non amate ch'altri vi tagli i panni addosso, fate di
scansarlo... Egli è il conte Carlo Gozzi, il quale ha il cervello fatto di
fegato, onde se schizza fiele e bile ad ogni parola, la cosa è naturale.
- Addio Luchino, e via.
- Chi è questo prete? domandò Amorevoli al Fabris.
- È il celebre abate Chiari.
- Ma perchè non presentarmi a lui, che lo avrei ringraziato?
- Di che?
- Del favore che da qualche anno mi fa tutte le notti. Sullo
stipo accanto al letto io tengo sempre una
tazza d'acqua di gomma e un romanzo dell'abate. Prima di dormire bevo due
goccie di gomma, e leggo due pagine di romanzo. La gomma mi fa morbida la gola,
le pagine mi fan morbido il sonno. Se mi sveglio, bevo altre due goccie di
gomma e leggo due altre pagine di romanzo; così conservo la voce e la salute,
rintuzzando la veglia. Se c'incontriamo ancora in lui, ti prego di presentarmi.
È un mio benefattore.
- Se tu metti i suoi romanzi insieme coll'acqua di gomma,
buon padrone. Ma non si fa così a Venezia; parlo delle donne e del pubblico che
legge avidamente i suoi libri; che corre in folla alle sue commedie, e
schiamazza d'entusiasmo; e lo supplica a dar sempre
qualcosa di nuovo; e sì che l'abate sembra una
fontana intermittente, che cala per crescer sempre,
e annaffia tutti quanti; eppure tutti si senton arsi.
A questo punto un maggiordomo della casa s'accostò al
Fabris, significandogli che il signor conte padrone chiedeva di lui e
dell'amico suo. Questi lo seguirono nella massima sala, dove il conte Alvise
Pisani sedeva accanto al conte Algarotti, intorno al quale facevano ampia
corona molte persone.
V'era il Canaletto, a lui particolarmente devoto per la
protezione che ne aveva avuto. Esso tornava allora dall'Inghilterra, dove aveva
raccolto molto danaro; e dalla Sassonia, dov'erasi recato a portarvi due suoi
quadri per interposizione appunto dell'Algarotti, il quale aveva avuto
incumbenza dall'Elettore di acquistar opere ad arricchire la galleria di
Dresda. Con lui stava discorrendo l'amico suo Tiepolo, quegli che di stupende
macchiette gli ornava le prospettive animandole di vita e rendendole più
importanti per lo studio dei costumi e delle foggie. Il Tiepolo era tornato di
fresco da Milano, dove avea dipinta la vôlta della maggior sala in casa
Clerici. De' letterati, v'era il Gozzi Gaspare, e il senatore Seghezzi, il
quale stava in quel punto presentando all'Algarotti un fanciullo di undici
anni, autore in quella così giovane età di due o tre poesie in dialetto
veneziano, che aveano fatto il giro della città. Ed era quel Gritti che doveva
poi riuscire nel vernacolo veneziano ciò che il Maggi era stato nel milanese.
Ma di tutti mancava il primo, mancava il Goldoni, il quale era andato a Torino
a mettere in iscena il Molière. L'Algarotti dava belle e graziose parole a
tutti, ma con quel fare di affabilità convenzionale che, se indispettiva
fieramente Carlo Gozzi, non piaceva troppo nemmeno al più mite Gaspare, che
giuocava di scherma coi complimenti onde il conte gli era cortese riguardo alla
fondazione di quell'accademia de' Granelleschi che, fin dal 1740 iniziata per
celia e portando sempre la maschera della
matta giovialità, nel fatto era però diventata il conservatorio della buona
lingua italiana.
- Ella, signor conte, mi dà lodi che son dovute ad altri,
così diceva Gaspare Gozzi. Ecco il vero fondatore dell'accademia, il suo
massimo sostegno, il suo principe perpetuo; e dalla schiera circostante,
pigliando pel braccio un pretino rachitico, lo presentò al conte dicendogli:
- Questi è il celebre abate Sachellari, l'arcigranellone; si
provi, signor conte, a interrogarlo, e sentirà parole di sapienza.
Quel Sachellari era un originale curiosissimo, pieno di
goffaggine e di orgoglio. Quando parlava faceva smascellar tutti dalle risa, e
più quando recitava gli stolidissimi suoi scritti. Tuttavia quello scimunito
aveva data l'occasione perchè si adunassero le migliori intelligenze di
Venezia. In prima era stata una gara a chi lodavalo di più con componimenti
berneschi; poi da quella gara nacque la celebre accademia in cui risplendette
più che mai l'ingegno, la vena poetica, il brio, lo spirito satirico di Gaspare
Gozzi.
- La testa di costui, caro Algarotti, è come quella de' miei
detrattori.
Chi diceva tali parole era il padre Carlo Lodoli, che nel
convento di san Francesco della Vigna teneva aperta scuola privata a molti
giovani patrizj e facoltosi, ed era stato maestro anche all'Algarotti. Istrutto
in molte scienze e lingue e nell'arte architettonica, egli aveva ottenuta
grande rinomanza per avere tentato di distruggere tutti i principj fin allora
invalsi nell'architettura, negando obbedienza all'autorità, detronizzando
Vitruvio, e introducendo quella filosofia architettonica, che turbò di
sottigliezze e astruserie le menti, onde per libidine di opposizione fece poi
più tenaci dell'imitazione gli architetti pratici. Del resto, quelle parole
ch'esso aveva pronunciate erano dirette a due architetti là presenti: il Poleni
che avrebbe battuto moneta falsa per Vitruvio, e il Temanza che aveva scritto
un opuscolo contro di lui e di quelle, secondo il parer suo, dementi dottrine.
Il Temanza non rispondeva, e ammiccava allo zio Scalfurotto, l'architettore di
san Simone Maggiore, mentre ridevan tra loro il Massari, che stava in quel
tempo edificando i Gesuati, ed il Lucchesi che eresse san Giovanni in Oleo e
l'Ospedaletto di san Giovanni e Paolo. Per altro se il Temanza s'accontentava
d'ammiccare e tacere e lasciar che svampasse l'iracondo e dotto frate,
dipendeva da ciò, ch'ei sapea assai bene come nessuno desse ragione al suo
avversario, mentr'egli era lodato ed ammirato dai più celebri architetti ed
archeologhi d'Italia, ed invitato dai più facoltosi patrizj di Venezia, delle
cui mense ei teneva gran conto, perchè s'egli era celebre come architetto
civile e idraulico, lo era pure come insaziabile mangiatore. Ma il conte
Pisani, visti il Fabris ed Amorevoli, li presentò in prima all'Algarotti, poi
al P. Vallotti, il celebre maestro suonator d'organo del Santo di Padova, ed a
Tartini, e disse loro:
- Or tocca a voi. A momenti sarà qui il doge e il
procuratore Foscarini e i signori Dieci, e converrà incominciare.
Il maestro Galuppi, che in que' giorni era passato a Venezia
a concertarvi l'opera in musica, si alzò, e volgendosi con grande rispetto al
P. Vallotti, il quale allora era stimato nell'arte dei suoni quel che oggi il
professor Bordoni è stimato nella scienza dei numeri, lo supplicò a volere
esaminare i pezzi di musica da eseguirsi in quella sera.
Vallotti si volse a Tartini, e:
- Avete visto, voi? gli disse.
- Io conosco la musica che devo eseguir io, dell'altra non
so. Ma chi ha a cantare dee far quello che più gli piace.
- Però sarebbe ottimo, soggiunse il P. Vallotti, che alla
musica di camera non si mescolasse mai la musica di teatro.
- Io ho alcuni madrigali dell'abate Clari e dell'abate
Stefani, disse Amorevoli.
- Ecco un artista di buon senso.
- Per metà, maestro. Perchè ho anche un recitativo di Vinci,
e due arie del Pergolese e di Jomelli; il pubblico vuol essere accontentato
anch'esso, e se dieci gustano Clari e Stefani, mille comprendono la musica teatrale,
anche perchè l'hanno sentita ad eseguire più volte, e vi recano un giudizio più
ammaestrato dall'esperienza.
- È questa un'ottima ragione, disse l'Algarotti.
- Pessima, entrò a rispondere il P. Vallotti che aveva la
stizza del frate, del vecchio e del profondo scienziato, disprezzatore degli
uomini superficiali e che, in quanto all'Algarotti, non avea potuto sopportar
la lettura di quel suo trattatello sulla musica.
Ma l'Algarotti non si scontorse punto a quella cruda
opposizione, ma sorridendo blandamente:
- Ognuno porta l'opinione sua, disse. Bensì mi rincresce di
averne una che sia opposta a quella di un sì grand'uomo qual siete voi.
L'Algarotti era stato, già ognun lo sa, alla Corte del Re
filosofo, la cui filosofia consisteva nel volere all'ultimo essere adulato. Era
stato col Re di Polonia, il quale non amava certo di essere strapazzato dai
letterati. S'era trovato in Francia con Voltaire, con Diderot, con tutte le
altre colonne della Francia nuova, e seppe sì ben fare che quei grandi uomini
avevano lui in conto d'uomo grandissimo. La società di mutuo incensamento non è
una invenzione di questi ultimi anni. Essa fioriva anche nel secolo passato, e
l'Algarotti ne poteva a buon diritto essere il presidente.
Ma intanto che i signori virtuosi maschi e femmine, e i
signori maestri di musica e i signori professori di violino, di viola, di
violoncello, di contrabasso, di clarino, di clarone, di fluta, d'oboè, ecc.,
recavansi nello scompartimento a loro assegnato nella gran sala delle colonne;
il maggiordomo e i camerieri facevano un giro per gli appartamenti dov'erano
disperse le dame co' loro cavalieri, onde invitarle a sedere nella gran sala.
E in poco tempo s'eran tutte infatti messe a seder là in più
file disposte a semicerchio intorno al
seggiolone del doge e della dogaressa, press'a poco come le deità dell'Olimpo
intorno al Giove nel quadro d'Appiani. E per verità ch'era quello un nuovo
olimpo, olimpo terrestre e palpabile, migliore assai del mitologico. Olimpo di
ricchezza, di splendore, di gioventù e di bellezza.
Amorevoli, che stava più in alto sulla gradinata
dell'orchestra, innanzi al clavicembalo, volse lo sguardo in quella via lattea
di pupille tremule; ma nella patria dei grandi occhi lucenti non vide gli occhi
che cercava. La contessa Clelia non c'era. L'estro, che un momento prima lo
aveva eccitato, leggendo col P. Vallotti un madrigale erotico del Clari, gli
svampò in quell'infelice ricerca e chinò la testa avvilito. In quel punto
entrava il doge che, girata intorno la testa e messosi a sedere vicino al conte
Alvise, tosto gli domandò con grande sollecitudine:
- Non avete ancora veduta la contessa Clelia V... di Milano?
Or che relazioni potesse avere il doge Grimani colla
contessa e qual cosa lo sollecitasse a di lei riguardo vedremo fra poco.
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