IX
Se il labirinto dedaleo in cui, senza sua colpa, si trovò
impigliata la contessa Clelia, non fosse un fatto incontrastabile, che fece
parlar tanto i nostri buoni vecchi cento anni fa, e che una secca mano registrò
in carta grossa; perchè il tempo e l'umido de' muri solitari non bastasse a
distruggerla, e così potesse pervenire alle mani di un postero incapace di
custodire i segreti; se tal fatto adunque non fosse una verità irrefragabile,
noi gli avremmo negata ogni fede quando lo avessimo udito da uno di quegli
uomini avvezzi a inventar frottole. Perchè, passi pure tutto quello che fin qui
è avvenuto a Milano, passi la maledetta fortuna per cui un semplice
dialogo tagliato in mezzo da un cancello e, fino ad un certo punto, anche
innocente, mise in piazza i pudibondi arcani di una gentildonna; mentre più
spesso quella stessa iniqua fortuna sa conservare intangibile l'aureola
penelopea a chi s'intrattiene a lungo in dialoghi senza cancello; passi dunque
tutto ciò, e passi la fuga, e passi il ricovero di Venezia: ma ciò che
veramente ci fa intolleranti e fremebondi per quella sventurata contessa, è
l'infesta combinazione della scrittura teatrale del tenore che cambiò la sede
della malattia senza distruggerla, anzi aumentandola a più doppj.
Povera Clelia, seduta presso la finestra della sua camera,
colla faccia mestissima e gli sguardi profondi rivolti macchinalmente al cielo,
anzi alla luna, alla luna fredda e incapace d'intenerirsi per nessuno, mentre
pure da tempo immemorabile si gode la fama di pietosa.
Povera infelice Clelia, gettata e trattenuta dalla fortuna
tra un amante fatale e un marito funesto, in una terribile vicinanza e dell'uno
e dell'altro; dell'uno e dell'altro, che pure coraggiosamente e fortemente avea
fuggiti.
Almeno coloro che si picchiano il costato per ogni nonnulla,
e sono inesorabili accusatori delle debolezze altrui, le vogliano tener conto,
per tutto quello che potrebbe succedere in avvenire, di questa prima violenza
usata contro sè stessa!
Chè anzi, nel punto ch'ella guardava la luna, stava
precisamente compiendo contro sè medesima una seconda violenza. Se donna Clelia
fosse cotta e stracotta dal desiderio di rivedere Amorevoli, lo pensino i
giovinotti che non hanno ancora venticinque anni e che, per un occhiata, sì,
per un'occhiata (anche noi abbiamo avuto i nostri verd'anni!) farebbero due
volte di notte, non che una, il traverso dell'Ellesponto; lo pensino le
fanciulle che non hanno innanzi agli occhi che un unico oggetto; lo pensino
anche le donne che hanno più di venticinque anni e son compromesse in qualche
pericoloso contrabbando, mentre la guardia di finanza batte la campagna. Donna
Clelia dunque, ci rincresce dirlo, ma la verità è una sola, desiderava di
vedere Amorevoli con un ardore, con tale ardore, che noi amanti della buona
bottiglia e della coppa di manzo, non possiamo nemmeno concepire. Tuttavia, con
sì smisurato ardore nell'animo, non si mosse dalla sua camera, e resistette
agli inviti della moglie dell'illustrissimo conte Alvise Pisani. Non si mosse
per non incontrarsi in colui, negli occhi suoi, per non sentir la sua voce, per
non provocare nuovi parlari, per non essere cagione di nuovi scandali; nè si
creda che la paura del marito abbia potuto influire sulle sue deliberazioni. No,
al marito non pensava, nè poco nè assai; lo fuggiva colla mente, come
allorquando si torcono gli occhi da una imagine disgustosa, e passava ad altro;
onde il timore non potè mai padroneggiarla. Solo pertanto il fermo proposito di
non voler vedere Amorevoli la trattenne in casa. Però se questa non è virtù,
noi non sapremmo invero dove andarla a pescare. Seduta a canto a quella
finestra, ella sentì suonar due, tre, quattr'ore al campanile di S. Polo,
quando un cameriere venne ad annunciarle che il conte Alvise Pisani domandava
d'essere introdotto.
Introdotto ch'esso fu:
- Mi rincresce, contessa, egli disse, d'essere stato
costretto a rompere il silenzio della vostra camera. Ma voi non avete voluto
appagare il desiderio vivissimo che avevamo della vostra presenza nella mia
casa in questa sera; vi supplico a voler essere cortese all'invito che per mia
bocca vi manda il doge.
- Il doge?... e che... non ho io nessuna volontà, caro
conte, di occuparmi stasera in discorsi d'astronomia.
Perchè il lettore possa comprendere queste parole, dee
sapere che il doge Grimani, uomo dottissimo, era particolarmente versato
nell'astronomia, e però la prima volta che gli venne presentata, in un'altra
serata musicale, la contessa Clelia, sapendo quant'ella fosse istrutta in
codesta scienza, s'era compiaciuto di intrattenersi con lei in argomenti
affini; e per quel discorso, che s'era prolungato più di quello che parea
comportare una conversazione di diporto, esso avea fatto una così alta stima
della contessa, che parlandone poi a molti, avea contribuito ad accrescere più
che mai la voga in che era venuta la bella lombarda.
- Mi pare che non si tratti d'astronomia, rispose il conte
Pisani. Il doge ha bisogno di parlarvi per cosa d'importanza.
- Il doge? ma perchè il doge? domandò allora la contessa
alquanto turbata, e alzandosi da sedere.
- Vogliate essere tranquilla, contessa. Il doge non mi disse
veramente di che si trattasse, ma il suo aspetto era calmo. Onde non è a temere
di nulla. Forse, chi sa, sarebbe occorso che vi presentaste ai Dieci. Ma i
Dieci e il doge hanno forse voluto cogliere l'occasione di un ritrovo quasi
pubblico e di una spontanea intervista per potervi parlare. Del rimanente un
tale desiderio del doge è noto a me solo. A voi pertanto non resta che di
accettare l'invito della contessa mia moglie, e onorare l'accademia della
vostra presenza, come naturalmente avreste dovuto fare se foste stata un po'
più amica di noi.
La contessa stette un istante in silenzio, poi disse:
- Ebbene, verrò...
E un impeto di gioja occultamente le innondò l'animo; la
gioja del trovarsi costretta a far quello che assolutamente non avrebbe mai
fatto per sè stessa, ma che aveva desiderato con ansia affannosa.
Il conte Alvise partì. Ella chiamò le cameriere, e:
- Mi è forza andare in casa Pisani; ajutatemi come si può
meglio e di gran fretta a vestirmi.
Ella tremava in tutta la persona, e il fuoco dalle membra
convulse le era salito sul volto. La pupilla erasele fatta ardente più del
consueto, e un raggio insolito le lampeggiava tra ciglio e ciglio.
A recarsi in casa Pisani per volontà propria erale in prima sembrato
una colpa gravissima, onde s'era trattenuta in casa; ma le parole del conte
Pisani le avean fatto parer quella visita un atto indispensabile; sicchè il
desiderio le fece afferrare con cieca fidanza quel pretesto per illudersi da sè
medesima. Non rifletteva, no, che, fermamente volendo, non aveva nessun obbligo
di piegare nemmeno all'invito del doge. Ma provava un'esaltazione piena
d'ebbrezza e quasi voluttuosa nel pensare d'aver quell'obbligo, e d'essere
costretta a rivedere colui; d'altra parte, per le consuete arcane fantasie
della mente, le pareva quello un decreto espresso del destino, e si consolava
come di un presagio felice.
Non bastandole il tempo e mancandole la voglia, si scelse
vesti e acconciatura semplicissima. Avvolse i
capelli, che aveva in gran disordine e non potevansi così presto disporre a
parata, in molti giri di una ciarpa di pizzo bianco di Gand, foggia allora
parimenti usata; puntandola davanti in sul confine della fronte, con un grosso
diamante che solo bastava a dar splendore ed aura d'Olimpo a tutta la figura, e
senza più se ne uscì.
Venuta in Canal grande, erano affollate tante gondole nello
spazio che correva presso al luogo dell'approdo dalla parte del canale, che il
suo gondoliere piegò verso il rio e si fermò alla prima scalea.
La contessa discese, preceduta dal servo, e s'indugiò
perplessa sotto l'atrio che mette allo scalone...
E soffrirò che sia
Sì barbara mercede
Premio della tua fede, anima mia?
Tanto amor, tanti doni!
Ah! pria ch'io t'abbandoni
Pera l'Italia, il mondo.
La prima sillaba della parola mondo del celebre recitativo
della Didone di Vinci, usciva dalle finestre del piano superiore, portata a
volo da quel medesimo do sopracuto onde Amorevoli la sera prima aveva fatto
salire in furore il conte V... La contessa subì la sorte di chi s'affaccia per
veder la battaglia, e senza più è colto nel petto da una palla che fischia. Fu
per cadere, sì le forze le mancarono, a quella vibrazione sonora, e dovette
appoggiarsi al servo.
Applausi frenetici seguirono quel do privilegiato, che aveva
il dono della forza insieme e della soavità. E il recitativo continuò, e venne
la cadenza alle parole Numi, consiglio, in cui la nota tenuta di un si bemolle
di prodigiosa limpidezza e, come dicono i maestri, di argentina sonorità,
attraversò gli spazi dell'aria, e non pareva voce da uomo, no, ma quella bensì
di un essere soprannaturale, incaricato di dar qualche buona notizia ai mortali.
Insistiamo su codeste qualità della voce d'Amorevoli, in
prima perchè i suoi contemporanei ne parlano come d'un fenomeno non mai più
udito; poi per far comprendere ai lettori che non v'è nulla al mondo di più
penetrante negli umani petti di una voce in quella chiave; intendasi sempre
quando è bella, perchè non bastano i soli suoni a renderla pregevole. Molti
uomini storici denno ascrivere la loro fortuna all'avere avuto in dono una voce
in chiave di tenore. Il re Davide sarebbe stato trapassato dalla lancia di
Saulle impazzito, s'egli non lo avesse placato col sol, col la e col si d'una
soavità arcangelica. Eginardo lo storico fu per la stessa ragione se invaghì
Emma, la figlia di Carlo Magno. Rizio e Monaldeschi erano tenori di mezzo
carattere, e innamorarono due regine. Sarebbe però stato meglio per loro l'aver
avuto tutt'altra voce, chè probabilmente sarebber morti in pace al loro letto.
Ma ciò non significa nulla contro il nostro assunto. La voce di soprano sfogato
ferisce le orecchie, ma non lascia nulla nel cuore; la voce di basso provoca il
rispetto ma non l'affetto; ci sarebbe la voce di contralto, ma nei sùbiti
trabalzi dai suoni gravi agli acuti compromette troppo sovente i buoni
successi. Soltanto la voce di tenore impera sugli animi. Il gobbo Tacchinardi,
gobbo e nano, ed arieggiante più il mandrillo che l'uomo, potè ai suoi bei
tempi dispiegare la lista di Don Giovanni, tanti capi femminili ei fece girare!
chè l'orecchio, lusingato dal suono maliardo della sua voce, lavorava
insidiosamente sugli occhi, innanzi a' quali, come a' tempi del mago Merlino,
usciva il silfo dal nano, il genio alato dal diavolo colle corna. Dopo tutto,
vogliam dire con ciò, che se una donna s'innamora d'un tenore, non pretenda di
poter bere l'oblio nemmeno in Acheronte; e se qualche giovinotto ha per rivale
un tenore, faccia conto d'esser tisico in quarto grado, e di dovergli senza più
far la regolare cessione del suo tesoro.
Non creda però il lettore che codesta sia una malizia di chi
scrive, per far le lodi della propria voce; tutt'altro; chi scrive ebbe in
sorte la voce di basso; soltanto gli toccò in dono, quasi a titolo di compenso,
un fa diesis squillante, di cui si giova per aver ragione nelle dispute
fracassose cogli amici.
Ma tornando a donna Clelia, conquisa dalla voce d'Amorevoli,
ella si trattenne sotto l'atrio premendosi il cuore, finchè il recitativo si
svolse nell'aria:
Se resto sul lido,
Se sciolgo le vele,
Infido, crudele
Mi sento chiamar.
E intanto, confuso
Nel dubbio funesto,
Non parto, non resto -
Ma provo il martire
Che avrei nel partire,
Che avrei nel restar.
Dove appar chiaro come i fervori della passione congelassero
nell'anima fredda di Metastasio in tante formole precise e quasi aritmetiche,
avverse al genio della poesia e del dramma.
Ma la musica di Vinci aveva l'abbandono e lo slancio e il
sentimento che mancava a quelle strofe; e Amorevoli vi mise nel renderla la
duplice virtù dell'arte più squisita e dell'animo il più ardente.
Donna Clelia, come i battimani rintuonarono nei cortili:
- Or si può ascendere, pensò, e fatto lo scalone, entrò
nelle sale.
I servi di casa Pisani, che la stavano aspettando, mossero a
dimandare il conte padrone, che accorse tosto a riceverla.
Preceduta da lui fece l'ingresso nella maggior sala. Il
fremito dell'applauso e dell'entusiasmo recente che ancor durava là entro,
cessò di colpo alla sua comparsa, e vi successe un profondissimo silenzio.
Tutti gli occhi furono fissi in lei. Il conte Pisani, per toglierla
dall'imbarazzo in cui la vedeva impigliata, si volse tosto al conte Algarotti
dicendogli:
- Ecco la contessa Clelia V..., de' cui talenti avete
sentito a parlare. E l'Algarotti si alzò e venne a sedersi vicino a lei. Anche
il doge la guardò da lunge, con atto di affabilissima cortesia, e parve dirle:
- Ci parleremo dopo con maggior comodo.
La contessa intanto, rispondendo macchinalmente alle
gentilezze del conte Algarotti, guardava di furto allo scompartimento
dell'orchestra, dove Amorevoli era investito dalle congratulazioni de' suoi
colleghi: da Luchino Fabris, dall'Aschieri, dalla Turcotti, dal P. Vallotti,
che nella sua severità gli batteva una spalla in atto di protezione; dal
violinista Tartini, uomo di febbrile vivacità, che ad attestargli la sua
soddisfazione gli andava squassando un braccio. Nè Amorevoli erasi ancora
accorto della comparsa di donna Clelia. Bensì il musico Fabris gli parlò
all'orecchio, e l'avvisò dell'arrivo di lei.
Amorevoli si volse lentamente, quasi che non fosse fatto
suo...
Medesimamente la contessa Clelia non fece atto nessuno, e
stette immobile come un simulacro marmoreo. Solo incontraronsi i raggi delle
loro pupille, e benchè gli astanti, che da quell'incontro s'erano atteso una
catastrofe, dicessero fra loro: Bada ch'ei pare, non si conoscano nemmeno, pure
l'effetto dell'incontro di que' raggi non può esser reso che in parte da quella
strofa fremebonda della Parisina,
Un sospiro, un senso arcano
D'un amor maggior d'amore
Trapassò da cuore a cuore
E di gioja l'inondò.
Intanto il conte Algarotti andava circuendo di domande scientifiche
la contessa, e d'una in altra notizia, rispondendogli ella pure alcun che
macchinalmente, la intrattenne dell'astronomo Lieberkam conosciuto da lui a
Dresda, quegli che nel 1743 aveva inventato il microscopio solare; e le parlò
del celebre Clairut, colui che avea fatta la dimostrazione dello schiacciamento
della terra, mediante l'attrazione e la forza centrifuga. E la contessa, alla
sua volta, si trovò costretta a chiedergli conto di Bouger, l'inventore
dell'astrometro, e ad informarlo d'un lavoro che in que' giorni il P. Frisi di
Milano stava meditando sul moto diurno della terra, facendo uso dell'analisi
geometrica di Newton, per mostrare che un tal moto non poteva essere impedito
dalle maree. Ma se il microscopio e l'astrometro e la forza centrifuga e
l'analisi geometrica di Newton fossero compatibili collo stato dell'animo di
donna Clelia, ognuno lo può pensare.
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