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Intanto che il conte Algarotti e la contessa attendevano a
parlar di scienze esatte, passava quel quarto d'ora o quella mezz'ora di
riposo, in cui i vecchi pigliano il tabacco, i giovani susurrano qualche parola
all'orecchio delle giovani, e queste pigliano il sorbetto o l'acqua cedrata.
Tartini, cessato di scrollare il braccio ad Amorevoli in
segno d'entusiasmo:
- Senti, disse, qui il nostro Luchino Fabris, questa seconda
edizione di Egiziello, m'ha raccontato le tue storie e i tuoi amori, e sono
contentissimo di te. Così va fatto. Anch'io a vent'anni misi gli occhi addosso
ad una fanciulla dell'alto cielo. Hanno tanto orgoglio questi signori che si
chiaman lustrissimi, e son così persuasi d'esser fatti di tutt'altra pasta
della nostra, che di tanto in tanto conviene che qualcuno metta loro il
cervello a partito, e li faccia persuasi che è più nobile di tutti chi è più
giovane, più bello e più bravo. Ecco i tre quarti della nobiltà vera; quello
che manca a fare i quattro quarti sta nella ricchezza che col merito uno
s'acquista. Dunque tu sei un nobile degno del tosone; e giacchè a Milano non
avevi amori, hai fatto benissimo a sceglierti qualche stella del cielo superno,
e a dar dentro in un marito borioso. Qui Luchino mi ha detto che jeri tu eri
prontissimo a batterti con lui, ed egli ha rifiutato per orgoglio, ond'altri ha
preso le tue veci. Ma ciò non va bene; voglio conoscerlo io questo signor conte
lombardo. Già tu sai che la mia prima professione fu quella dello schermidore,
e fu un tempo in cui volevo metter sala d'armi, e anche oggi non so chi abbia
occhio più acuto e braccio più fermo del mio. Dunque lascia fare a me a trarre
in ballo questo signor conte; che se ricuserà, lo assalirò di tratto, senza
dirgli nè asino, nè bestia; onde, se gli è cara la vita, dovrà pur mettersi in
sulla parata. Chi sa mai, caro Amorevoli, ch'io debba farti il piatto a dovere,
e che il conte sia venuto a Venezia per trovarvi una tomba fatta d'acqua salsa
e d'alghe marine? Ma a proposito, dov'è questa signora contessa? Io sto
scrivendo qualcosa intorno ai principj dell'armonia musicale contenuta nel
genere diatonico, e in questo lavoro non posso disimpacciarmi da certe formole
numeriche. A lei dunque, ch'è gran matematichessa, come sento dire, vo' dare a
leggere il manoscritto. Così farò la sua conoscenza. Io già ho cinquantott'
anni, e tu non devi aver gelosia di me.
Ma il maestro Galuppi, a fermare codesta velocissima
parlantina del celebre violinista:
- Ora è venuto il momento, signor mago, gli disse
scherzando, di evocare il vostro diavolo, e di mettere lo spavento in tutte
queste leggiadre gentildonne.
Per comprendere queste parole del maestro Galuppi, dee
sapere il lettore che in quella sera Tartini doveva eseguito appunto quella sua
celeberrima sonata, così detta del Diavolo da uno strano sogno ch'esso avea
fatto, e che gli aveva messo il pensiero di trarne una composizione musicale.
Avendo il Tartini, a queste parole di Galuppi, preso il
proprio violino, l'Algarotti dalle matematiche balzò di tratto a parlar di
musica; che era una sua speciale ambizione, quando trovavasi con qualche
persona nuova, di percorrere tutto quanto l'ambito delle scienze e delle arti,
per far maravigliare chi l'ascoltava, della sua straordinaria versatilità.
- Non avete mai, contessa, sentito questo prodigioso
violinista?
- Non ancora; bensì ho sentito il Veracini, dal quale dicesi
che costui abbia molto appreso.
- E il Giardini torinese? Il Giardini cantava col violino;
ma costui lo fa palpitare e fremere e piangere. Si direbbe che il suo strumento
sia un essere animato e dal quale, più che suoni, si debbano attender parole e
discorsi. Quando venne a Praga, dove io mi trovava col principe di Prussia,
ch'ora è il re Federico II, per l'incoronazione di Carlo VI, nessuno sapeva
spiegare il modo con cui traeva dal violino tanta pienezza e rotondità di
suono. Chi pensava fossero qualità speciali della costruzione e del legno del
suo violino, chi dell'animale che avea date le corde. E nessuno s'accorgeva che
il gran segreto era nell'arco, nel modo di governarlo, nella sua pressione
sulle corde. Mi diceva il medesimo Tartini, che il suo lungo esercizio in gioventù
nel tirare di scherma gli ha comunicata una tal vigoria nel braccio e nel
polso, la quale gli tornò poi utilissima a tenere l'archetto. Ma or ora
l'udrete e lo giudicherete nella suonata del Diavolo; perchè tutto dev'essere
strano e straordinario in costui. La sua vita, le sue vicende, tutto, persino i
titoli delle sue composizioni. Doveva essere un frate, e rubò una fanciulla
patrizia. Studiava a Padova per fare il giureconsulto, e dì e notte tirava di
scherma e ingiuriava or l'uno or l'altro, e li sfidava e li ammazzava a titolo
d'esercizio. Va a sentir Veracini a Firenze, e ne ha tanto avvilimento che si
nasconde in Ancona per sette anni a crearsi uno stile nuovo d'esecuzione, e
fare la famosa scoperta del fenomeno del terzo suono, a scrivervi suonate a
centinaja, e un trattato sulle amenità del canto. Infine, venuto maestro di
cappella al Santo di Padova, vi fa un sogno che lo esalta sino alla pazzia e
gli fa scrivere questa suonata che or ora udrete, e che si chiama del Diavolo.
- Ma come fu?
- Sognò d'aver fatto un patto, e che il diavolo era al suo
servizio. Però gli diede a suonare il proprio violino, per vedere quel che il
diavolo ne avrebbe saputo fare, e ne udì tal cosa che lo fece trasalire.
Risvegliato per così violenta sensazione, dà di piglio al violino per ripetere
quel che aveva udito, ma non seppe riprodurre, com'egli asserisce, che il
trillo del diavolo a piè del letto. Il resto non è che una composizione di sua
fantasia, e una variazione su quel tema, ma è certo la più bella di quante ne
ha scritte sin qui.
A questo punto il maestro Galuppi si mise al pianoforte, e
facendo scorrere due o tre volte le dita sulla tastiera, richiamò l'attenzione
dell'uditorio, il quale fece un silenzio profondo, quando Tartini col violino e
coll'arco comparve al parapetto dell'orchestra.
Nel tempo che Tartini faceva correr l'arco sulle corde e
regolava i bischeri, l'Algarotti ebbe campo di sfoggiare la sua dottrina
archeologica sulla genesi del violino, confutando Aristofane e Ateneo che
fecero il violino coevo ad Orfeo, e confutando quelli che lo vollero inventato
dagli Indiani e donato all'Italia dalle crociate; e piantandosi nell'opinione
che vuole il violino figliuolo dell'occidente, e probabilmente del principato
di Galles, e trascorrendo sui varj tramutamenti della sua forma, dalla viola
primitiva, alla viola da braccio, a quella da gamba; i quali a lungo andare
generarono poi in Francia il piccolo violino.
- Oh che noja, caro signor conte Algarotti. - Per fortuna
che Tartini cominciò l'adagio d'introduzione, e il conte dovette permettere che
la contessa, trasportata dalla seduzione di quello stile incantato,
s'immergesse con tutta l'anima nell'onda voluttuosa della sua passione.
Dall'adagio d'introduzione passò il Tartini al secondo pezzo che è a due tempi
e da questo alla terza parte, la quale consiste appunto nel trillo del diavolo.
La forza, la soavità, il fremito, la grazia, l'estensione
incalcolabile della voce che usciva dal suo violino, erano cose che non si
erano mai udite anteriormente a lui, e infatti egli era stato il primo a
trovare come la forza che deve spingere l'arco debba radunarsi tutta nelle
falangi delle dita; e a far in modo che la mano, all'attaccatura, sia così
pieghevole che sembri slogata. Da questi
segreti venne senza limite accresciuta la potenza del violino, il quale,
allorchè viene sotto la pressione di una mano così ammaestrata, ma che riceva
l'impulso da un gran talento musicale, da una fibra nervosa e da un cuore
agitato dalla tempesta delle passioni, come avveniva appunto in Tartini, e come
lo fu poi in Viotti alcuni anni dopo, e al grado massimo, e fuori quasi dei
limiti naturali, in Paganini mezzo secolo dopo, è lo strumento che più fruga
ne' precordj a mettere in esaltazione lo spirito. Non era dunque codesto il
farmaco migliore pei nervi in parossismo della contessa!
Dopo il pezzo di Tartini, Luchino Fabris, l'imitatore di
Egiziello, ebbe la disgrazia di cantare l'arione dell'Euridice, che per verità
era il suo cavallo di battaglia, ma dopo, non diremo l'entusiasmo, ma le
convulsioni provocate dalla suonata del Diavolo non fece nè freddo nè caldo.
Tant'è vero che a questo mondo le cose bisogna saperle fare a tempo. Se la sua
voce di musico fosse stata sentita in quella sera prima delle oscillazioni
tremende delle minugie incantate del violino di Tartini, avrebbe fatto
l'effetto che di solito produceva in teatro; ma pur troppo dovette restarsene
avvilito e pieno di dispetto.
E qui un altro riposo succedette all'esecuzione di que' due
pezzi, durante il quale il doge Grimani si alzò, e recossi vicino alla contessa
Clelia.
- Io attendeva, serenissimo principe, che l'accademia
terminasse, e questi egregi signori si dilungassero in altre sale, per potervi
parlare, e sentir dal vostro labbro per che grave cagione mi avete mandata a
chiamare.
- Io spero che mi vorrete perdonare, contessa, se vi ho
fatta venir qui forse contro vostro genio. Ma d'altra parte, anche per adesione
dei signori Dieci, ho creduto di non dover farvi chiamare a Palazzo, come pure
avrebbe portato il debito. L'eccellentissimo Senato di Milano scrisse al Senato
di qui, e supplicandoci ad usar con voi tutti i riguardi a che la vostra alta
condizione e i vostri meriti speciali hanno diritto, ci diede incumbenza di
provvedere, come ci sarebbe parso meglio, a mandarvi tosto a Milano.
- Io non comprendo, altezza. Chi mi può impedire di vivere
in Venezia?
- Noi no; ma il Senato di Milano dev'essere stato costretto
a questa determinazione da qualche circostanza straordinaria che noi ignoriamo,
e che non potete forse congetturare nemmeno voi. Il Senato di Milano, serbando
il silenzio anche colla nostra Repubblica, quantunque per verità avrebbe dovuto
parlar più chiaro, ci ha fatto intendere, essere insorta così grave
circostanza, per cui è necessario che voi siate sentita in giudizio.
- In giudizio io?
- Dalla lettera dell'eccellentissimo Senato appare che la
necessità di sentirvi in giudizio sia una conseguenza della cattura fatta di
quel lacchè che voi ben sapete aver dimorato per troppo lungo tempo a Venezia. Non
crederei che si tratti di cagione più grave. In ogni modo è bene che non se ne
sappia nulla qui... Se noi vi avessimo fatta chiamare a Palazzo, la città tutta
quanta sarebbesi tosto gettata in un mare di congetture e di dicerie, e non
crediamo che questo v'avrebbe potuto far piacere. Però abbiateci per iscusati
se abbiamo colta l'occasione di questa accademia musicale, per mettervi a parte
del fatto, e per significarvi che domani occorre che vi mettiate subito in
viaggio per Milano. Per verità che, ad adempiere al mandato in modo che non
vengano frustrate le intenzioni del Senato di Milano, sarebbe obbligo nostro,
dovete perdonarci l'amara parola, di assicurarci della vostra persona. Ma
giacchè il Senato milanese ci prega di avervi ogni riguardo, così interpretiamo
la cosa più ampiamente che sia possibile, e mettiamo la nostra fede in voi. Il
Senato veneto è così persuaso, contessa, dell'incomparabile vostra lealtà che
vi lascia in piena balìa di voi stessa.
La contessa Clelia stette per qualche tempo in silenzio,
percossa da quelle parole del doge, poi rispose:
- Non mi sarebbe difficile, serenità, indovinare la cagione
di tutto ciò, se il Senato di Milano mi avesse scritto direttamente. La cattura
del lacchè dev'essere successa per una lettera ch'io scrissi a Milano; onde
parrebbe probabile che il Senato volesse sentirmi per raccogliere indizj in una
questione gravissima, che adesso non occorre menzionare; ma l'avere incaricato
di ciò il Senato di Venezia, senza far scrivere nulla a me stessa, distrugge al
tutto una tale congettura. Però, altezza, mi pare come di essere caduta in un
abisso, senza sapere chi m'abbia dato la spinta. Abbiate però la mia fede che
io sarò a Milano religiosamente nel più breve tempo possibile, per quanto
dipende da me.
Può parere strano come in questo breve dialogo nè la
contessa abbia mai parlato del conte marito, adducendo al doge il fatto ch'ei
trovavasi in Venezia; nè il doge, che pur sapeva tutto, non le abbia mai
toccato un tal tasto. Ma la contessa naturalmente scansò di nominare chi poteva
farla arrossire. E il doge a cui era stato riferito il fatto del duello, tacque
perchè e l'autorità suprema di Venezia e tutte le altre autorità subalterne
avevan l'obbligo di ignorare una cosa che, nota, doveva provocare una pena a danno
degli infrattori di una legge della Repubblica contro il duello. Chè tanto
allora, come prima, e come dopo, e come ora, non possiam dire come sempre,
il duello costituiva un fenomeno sui generis del codice criminale, pel quale
era esso proibito e punito; e nel tempo stesso era punito e svergognato chi non
lo accettava, e non adempiva agli obblighi assurdi che traeva seco. Onde
l'autorità, come una mamma innamorata dei figli, chiudeva un occhio, quando
sapeva che un Veneziano dava od accettava un duello, e si compiaceva del suo
coraggio; mentre poi esagerava nelle ordinanze pubbliche la severità delle
frasi contro i trasgressori delle leggi.
Un'altra cosa poi dobbiamo far osservare ai lettori che
della Repubblica di Venezia e dei Dieci si son fatti un'idea convenzionale,
tutta nera e tutta cupa. Essi avran fatto le maraviglie a vedere il doge
parlare in tanta dimestichezza, e quasi da privato, alla contessa. Ma delle
terribili apparenze dell'autorità la Repubblica facea conto nelle gravi bisogne
della patria, e non in tutte le circostanze della vita pubblica e privata.
D'altra parte la serenissima, è forza confessarlo, non era più quella de'
secoli antecedenti. La lettera degli statuti era intangibile, ma le costumanze
s'erano venute attiepidendo. In una parola, s'era messa anch'ella in cipria e
parrucca ad onta del canal Orfano e del Ponte de' Sospiri, che sono gli
spauracchi perpetui de' drammaturghi stranieri e de' nostrali che scrivono per
gli anfiteatri.
Tornando ora al doge e alla contessa, essendosi mostrato il
P. Vallotti a batter la solfa, perchè doveva aver luogo, a chiuder l'accademia,
un suo coro fugato, si disgiunsero con atto di reciproco rispetto.
E il coro fugato venne eseguito tra gli sbadigli
dell'adunanza, chè esso stava alla musica come il Pape Satan Aleppe alla
poesia, sebbene Tartini lo ammirasse e ne fosse compunto.
A notte alta le sale a poco a poco si vuotarono. Quando
Tartini si volse per cercare Amorevoli, questi era già scomparso; scomparso
prima che la contessa uscisse dalla sala.
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