Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Giuseppe Rovani
Cento anni

IntraText CT - Lettura del testo

  • LIBRO QUARTO
    • X
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

X

 

Intanto che il conte Algarotti e la contessa attendevano a parlar di scienze esatte, passava quel quarto d'ora o quella mezz'ora di riposo, in cui i vecchi pigliano il tabacco, i giovani susurrano qualche parola all'orecchio delle giovani, e queste pigliano il sorbetto o l'acqua cedrata.

Tartini, cessato di scrollare il braccio ad Amorevoli in segno d'entusiasmo:

- Senti, disse, qui il nostro Luchino Fabris, questa seconda edizione di Egiziello, m'ha raccontato le tue storie e i tuoi amori, e sono contentissimo di te. Così va fatto. Anch'io a vent'anni misi gli occhi addosso ad una fanciulla dell'alto cielo. Hanno tanto orgoglio questi signori che si chiaman lustrissimi, e son così persuasi d'esser fatti di tutt'altra pasta della nostra, che di tanto in tanto conviene che qualcuno metta loro il cervello a partito, e li faccia persuasi che è più nobile di tutti chi è più giovane, più bello e più bravo. Ecco i tre quarti della nobiltà vera; quello che manca a fare i quattro quarti sta nella ricchezza che col merito uno s'acquista. Dunque tu sei un nobile degno del tosone; e giacchè a Milano non avevi amori, hai fatto benissimo a sceglierti qualche stella del cielo superno, e a dar dentro in un marito borioso. Qui Luchino mi ha detto che jeri tu eri prontissimo a batterti con lui, ed egli ha rifiutato per orgoglio, ond'altri ha preso le tue veci. Ma ciò non va bene; voglio conoscerlo io questo signor conte lombardo. Già tu sai che la mia prima professione fu quella dello schermidore, e fu un tempo in cui volevo metter sala d'armi, e anche oggi non so chi abbia occhio più acuto e braccio più fermo del mio. Dunque lascia fare a me a trarre in ballo questo signor conte; che se ricuserà, lo assalirò di tratto, senza dirgli asino, bestia; onde, se gli è cara la vita, dovrà pur mettersi in sulla parata. Chi sa mai, caro Amorevoli, ch'io debba farti il piatto a dovere, e che il conte sia venuto a Venezia per trovarvi una tomba fatta d'acqua salsa e d'alghe marine? Ma a proposito, dov'è questa signora contessa? Io sto scrivendo qualcosa intorno ai principj dell'armonia musicale contenuta nel genere diatonico, e in questo lavoro non posso disimpacciarmi da certe formole numeriche. A lei dunque, ch'è gran matematichessa, come sento dire, vo' dare a leggere il manoscritto. Così farò la sua conoscenza. Io già ho cinquantott' anni, e tu non devi aver gelosia di me.

Ma il maestro Galuppi, a fermare codesta velocissima parlantina del celebre violinista:

- Ora è venuto il momento, signor mago, gli disse scherzando, di evocare il vostro diavolo, e di mettere lo spavento in tutte queste leggiadre gentildonne.

Per comprendere queste parole del maestro Galuppi, dee sapere il lettore che in quella sera Tartini doveva eseguito appunto quella sua celeberrima sonata, così detta del Diavolo da uno strano sogno ch'esso avea fatto, e che gli aveva messo il pensiero di trarne una composizione musicale.

Avendo il Tartini, a queste parole di Galuppi, preso il proprio violino, l'Algarotti dalle matematiche balzò di tratto a parlar di musica; che era una sua speciale ambizione, quando trovavasi con qualche persona nuova, di percorrere tutto quanto l'ambito delle scienze e delle arti, per far maravigliare chi l'ascoltava, della sua straordinaria versatilità.

- Non avete mai, contessa, sentito questo prodigioso violinista?

- Non ancora; bensì ho sentito il Veracini, dal quale dicesi che costui abbia molto appreso.

- E il Giardini torinese? Il Giardini cantava col violino; ma costui lo fa palpitare e fremere e piangere. Si direbbe che il suo strumento sia un essere animato e dal quale, più che suoni, si debbano attender parole e discorsi. Quando venne a Praga, dove io mi trovava col principe di Prussia, ch'ora è il re Federico II, per l'incoronazione di Carlo VI, nessuno sapeva spiegare il modo con cui traeva dal violino tanta pienezza e rotondità di suono. Chi pensava fossero qualità speciali della costruzione e del legno del suo violino, chi dell'animale che avea date le corde. E nessuno s'accorgeva che il gran segreto era nell'arco, nel modo di governarlo, nella sua pressione sulle corde. Mi diceva il medesimo Tartini, che il suo lungo esercizio in gioventù nel tirare di scherma gli ha comunicata una tal vigoria nel braccio e nel polso, la quale gli tornò poi utilissima a tenere l'archetto. Ma or ora l'udrete e lo giudicherete nella suonata del Diavolo; perchè tutto dev'essere strano e straordinario in costui. La sua vita, le sue vicende, tutto, persino i titoli delle sue composizioni. Doveva essere un frate, e rubò una fanciulla patrizia. Studiava a Padova per fare il giureconsulto, e e notte tirava di scherma e ingiuriava or l'uno or l'altro, e li sfidava e li ammazzava a titolo d'esercizio. Va a sentir Veracini a Firenze, e ne ha tanto avvilimento che si nasconde in Ancona per sette anni a crearsi uno stile nuovo d'esecuzione, e fare la famosa scoperta del fenomeno del terzo suono, a scrivervi suonate a centinaja, e un trattato sulle amenità del canto. Infine, venuto maestro di cappella al Santo di Padova, vi fa un sogno che lo esalta sino alla pazzia e gli fa scrivere questa suonata che or ora udrete, e che si chiama del Diavolo.

- Ma come fu?

- Sognò d'aver fatto un patto, e che il diavolo era al suo servizio. Però gli diede a suonare il proprio violino, per vedere quel che il diavolo ne avrebbe saputo fare, e ne udì tal cosa che lo fece trasalire. Risvegliato per così violenta sensazione, di piglio al violino per ripetere quel che aveva udito, ma non seppe riprodurre, com'egli asserisce, che il trillo del diavolo a piè del letto. Il resto non è che una composizione di sua fantasia, e una variazione su quel tema, ma è certo la più bella di quante ne ha scritte sin qui.

A questo punto il maestro Galuppi si mise al pianoforte, e facendo scorrere due o tre volte le dita sulla tastiera, richiamò l'attenzione dell'uditorio, il quale fece un silenzio profondo, quando Tartini col violino e coll'arco comparve al parapetto dell'orchestra.

Nel tempo che Tartini faceva correr l'arco sulle corde e regolava i bischeri, l'Algarotti ebbe campo di sfoggiare la sua dottrina archeologica sulla genesi del violino, confutando Aristofane e Ateneo che fecero il violino coevo ad Orfeo, e confutando quelli che lo vollero inventato dagli Indiani e donato all'Italia dalle crociate; e piantandosi nell'opinione che vuole il violino figliuolo dell'occidente, e probabilmente del principato di Galles, e trascorrendo sui varj tramutamenti della sua forma, dalla viola primitiva, alla viola da braccio, a quella da gamba; i quali a lungo andare generarono poi in Francia il piccolo violino.

- Oh che noja, caro signor conte Algarotti. - Per fortuna che Tartini cominciò l'adagio d'introduzione, e il conte dovette permettere che la contessa, trasportata dalla seduzione di quello stile incantato, s'immergesse con tutta l'anima nell'onda voluttuosa della sua passione. Dall'adagio d'introduzione passò il Tartini al secondo pezzo che è a due tempi e da questo alla terza parte, la quale consiste appunto nel trillo del diavolo.

La forza, la soavità, il fremito, la grazia, l'estensione incalcolabile della voce che usciva dal suo violino, erano cose che non si erano mai udite anteriormente a lui, e infatti egli era stato il primo a trovare come la forza che deve spingere l'arco debba radunarsi tutta nelle falangi delle dita; e a far in modo che la mano, all'attaccatura, sia così pieghevole che sembri slogata. Da questi segreti venne senza limite accresciuta la potenza del violino, il quale, allorchè viene sotto la pressione di una mano così ammaestrata, ma che riceva l'impulso da un gran talento musicale, da una fibra nervosa e da un cuore agitato dalla tempesta delle passioni, come avveniva appunto in Tartini, e come lo fu poi in Viotti alcuni anni dopo, e al grado massimo, e fuori quasi dei limiti naturali, in Paganini mezzo secolo dopo, è lo strumento che più fruga ne' precordj a mettere in esaltazione lo spirito. Non era dunque codesto il farmaco migliore pei nervi in parossismo della contessa!

Dopo il pezzo di Tartini, Luchino Fabris, l'imitatore di Egiziello, ebbe la disgrazia di cantare l'arione dell'Euridice, che per verità era il suo cavallo di battaglia, ma dopo, non diremo l'entusiasmo, ma le convulsioni provocate dalla suonata del Diavolo non fece freddo caldo. Tant'è vero che a questo mondo le cose bisogna saperle fare a tempo. Se la sua voce di musico fosse stata sentita in quella sera prima delle oscillazioni tremende delle minugie incantate del violino di Tartini, avrebbe fatto l'effetto che di solito produceva in teatro; ma pur troppo dovette restarsene avvilito e pieno di dispetto.

E qui un altro riposo succedette all'esecuzione di que' due pezzi, durante il quale il doge Grimani si alzò, e recossi vicino alla contessa Clelia.

- Io attendeva, serenissimo principe, che l'accademia terminasse, e questi egregi signori si dilungassero in altre sale, per potervi parlare, e sentir dal vostro labbro per che grave cagione mi avete mandata a chiamare.

- Io spero che mi vorrete perdonare, contessa, se vi ho fatta venir qui forse contro vostro genio. Ma d'altra parte, anche per adesione dei signori Dieci, ho creduto di non dover farvi chiamare a Palazzo, come pure avrebbe portato il debito. L'eccellentissimo Senato di Milano scrisse al Senato di qui, e supplicandoci ad usar con voi tutti i riguardi a che la vostra alta condizione e i vostri meriti speciali hanno diritto, ci diede incumbenza di provvedere, come ci sarebbe parso meglio, a mandarvi tosto a Milano.

- Io non comprendo, altezza. Chi mi può impedire di vivere in Venezia?

- Noi no; ma il Senato di Milano dev'essere stato costretto a questa determinazione da qualche circostanza straordinaria che noi ignoriamo, e che non potete forse congetturare nemmeno voi. Il Senato di Milano, serbando il silenzio anche colla nostra Repubblica, quantunque per verità avrebbe dovuto parlar più chiaro, ci ha fatto intendere, essere insorta così grave circostanza, per cui è necessario che voi siate sentita in giudizio.

- In giudizio io?

- Dalla lettera dell'eccellentissimo Senato appare che la necessità di sentirvi in giudizio sia una conseguenza della cattura fatta di quel lacchè che voi ben sapete aver dimorato per troppo lungo tempo a Venezia. Non crederei che si tratti di cagione più grave. In ogni modo è bene che non se ne sappia nulla qui... Se noi vi avessimo fatta chiamare a Palazzo, la città tutta quanta sarebbesi tosto gettata in un mare di congetture e di dicerie, e non crediamo che questo v'avrebbe potuto far piacere. Però abbiateci per iscusati se abbiamo colta l'occasione di questa accademia musicale, per mettervi a parte del fatto, e per significarvi che domani occorre che vi mettiate subito in viaggio per Milano. Per verità che, ad adempiere al mandato in modo che non vengano frustrate le intenzioni del Senato di Milano, sarebbe obbligo nostro, dovete perdonarci l'amara parola, di assicurarci della vostra persona. Ma giacchè il Senato milanese ci prega di avervi ogni riguardo, così interpretiamo la cosa più ampiamente che sia possibile, e mettiamo la nostra fede in voi. Il Senato veneto è così persuaso, contessa, dell'incomparabile vostra lealtà che vi lascia in piena balìa di voi stessa.

La contessa Clelia stette per qualche tempo in silenzio, percossa da quelle parole del doge, poi rispose:

- Non mi sarebbe difficile, serenità, indovinare la cagione di tutto ciò, se il Senato di Milano mi avesse scritto direttamente. La cattura del lacchè dev'essere successa per una lettera ch'io scrissi a Milano; onde parrebbe probabile che il Senato volesse sentirmi per raccogliere indizj in una questione gravissima, che adesso non occorre menzionare; ma l'avere incaricato di ciò il Senato di Venezia, senza far scrivere nulla a me stessa, distrugge al tutto una tale congettura. Però, altezza, mi pare come di essere caduta in un abisso, senza sapere chi m'abbia dato la spinta. Abbiate però la mia fede che io sarò a Milano religiosamente nel più breve tempo possibile, per quanto dipende da me.

Può parere strano come in questo breve dialogo la contessa abbia mai parlato del conte marito, adducendo al doge il fatto ch'ei trovavasi in Venezia; il doge, che pur sapeva tutto, non le abbia mai toccato un tal tasto. Ma la contessa naturalmente scansò di nominare chi poteva farla arrossire. E il doge a cui era stato riferito il fatto del duello, tacque perchè e l'autorità suprema di Venezia e tutte le altre autorità subalterne avevan l'obbligo di ignorare una cosa che, nota, doveva provocare una pena a danno degli infrattori di una legge della Repubblica contro il duello. Chè tanto allora, come prima, e come dopo, e come ora, non possiam dire come sempre, il duello costituiva un fenomeno sui generis del codice criminale, pel quale era esso proibito e punito; e nel tempo stesso era punito e svergognato chi non lo accettava, e non adempiva agli obblighi assurdi che traeva seco. Onde l'autorità, come una mamma innamorata dei figli, chiudeva un occhio, quando sapeva che un Veneziano dava od accettava un duello, e si compiaceva del suo coraggio; mentre poi esagerava nelle ordinanze pubbliche la severità delle frasi contro i trasgressori delle leggi.

Un'altra cosa poi dobbiamo far osservare ai lettori che della Repubblica di Venezia e dei Dieci si son fatti un'idea convenzionale, tutta nera e tutta cupa. Essi avran fatto le maraviglie a vedere il doge parlare in tanta dimestichezza, e quasi da privato, alla contessa. Ma delle terribili apparenze dell'autorità la Repubblica facea conto nelle gravi bisogne della patria, e non in tutte le circostanze della vita pubblica e privata. D'altra parte la serenissima, è forza confessarlo, non era più quella de' secoli antecedenti. La lettera degli statuti era intangibile, ma le costumanze s'erano venute attiepidendo. In una parola, s'era messa anch'ella in cipria e parrucca ad onta del canal Orfano e del Ponte de' Sospiri, che sono gli spauracchi perpetui de' drammaturghi stranieri e de' nostrali che scrivono per gli anfiteatri.

Tornando ora al doge e alla contessa, essendosi mostrato il P. Vallotti a batter la solfa, perchè doveva aver luogo, a chiuder l'accademia, un suo coro fugato, si disgiunsero con atto di reciproco rispetto.

E il coro fugato venne eseguito tra gli sbadigli dell'adunanza, chè esso stava alla musica come il Pape Satan Aleppe alla poesia, sebbene Tartini lo ammirasse e ne fosse compunto.

A notte alta le sale a poco a poco si vuotarono. Quando Tartini si volse per cercare Amorevoli, questi era già scomparso; scomparso prima che la contessa uscisse dalla sala.

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License