XI
Abbiamo lasciato il conte V... e il giovane Angelo Emo
intenti ad adempire alle prammatiche preliminari di un duello: di questo mezzo
assurdo di riparare le ingiurie, il quale, nato in seno alla barbarie, si è
prolungato insino a noi, e vi s'è piantato in guisa che moralisti e filosofi e
legisti non arriveranno forse mai a sradicarlo del tutto. Almeno i Barbari
erano più logici di noi. Dipartivano bensì da una falsa premessa nell'assegnare
i motivi a tale costumanza, ma, dopo la premessa, cessava l'assurdo e le
deduzioni camminavano regolarmente. Nel duello, che per loro non era altro che
un modo dei giudizj di Dio, essi ponevano per principio che la divinità avrebbe
data la vittoria a chi aveva la ragione. Codesta credenza spiega la causa
primitiva del duello, il quale poteva sussistere fin che le menti rimanevano
acciecate dal pregiudizio; ma non si sa più conciliarlo con verun fine logico
dal giorno che tutti furono persuasi che la vittoria dipende dalla fortuna e
dalla vigoria, non mai nè dalla giustizia, nè dall'intervento divino. Anzi il
fatto diventa ancora più inesplicabile quando si pensa che, precisamente allora
che il mondo fu persuaso che Dio non interveniva in codeste prove a fiaccare il
braccio di chi aveva torto, e a dar forza al debole che aveva ragione;
precisamente allora, ossia nel secolo decimoquinto, quando la civiltà sembrò
avviata verso la sua massima altezza, sorsero scrittori a decine per comporre
quella che chiamarono scienza dell'onore e del duello.
I legisti di quel secolo, volendo giustificare il duello, si
piantarono sull'idea dell'onore convenzionale, senza riguardo nessuno alle
leggi invariabili della morale; onde i celebri giureconsulti Passevino, Paride
del Pozzo, Baldi, Grimaldi e gli altri seguaci, offrono il miserando spettacolo
della scienza intenta ad accrescere occasione alle aberrazioni dello spirito
umano. Così il duello, nato spontaneamente in seno a popoli barbari, come un
mal frutto d'una mala pianta, fu innalzato all'onore di sistema scientifico
dalla civiltà, per cui l'errore insegnato dalle cattedre accrebbe i modi e i
mezzi delle offese. Bensì quarant'anni prima del tempo in cui il nostro conte
colonnello dovette accettare il guanto dal giovane Angelo Emo, quell'autorità
dei vecchi legisti era stata messa in brani da un grande e coraggiosissimo
ingegno, dal marchese Scipione Maffei, col suo libro della scienza
cavalleresca, a cui appose il bel motto nos nostra corrigimus; e quel libro
fece senso in Italia e fece senso in Francia, e trovò sostenitore del nuovo
assunto Rousseau; e forse Luigi XIV, forte della sapienza dell'uno e
dell'altro, multò il duello colla pena di morte, e instituì il tribunale de'
marescialli; e il suo successore accrebbe nell'applicazione la severità alla
lettera stessa dell'editto. Ma per quanto in quegli otto lustri si fosse
fulminato e scritto e parlato contro il duello, il duello era tuttavia
all'ordine del giorno; chè il prestigio del coraggio e dello spregio della
morte consigliava indulgenza agli stessi esecutori della legge; e più spesso,
non potendosi infrangerne il dettato, se un duello avveniva a dritta,
l'autorità, come vedemmo, guardava a sinistra.
Nè pur in codesto fatto, nei cento anni che sono decorsi,
non si può dire che siasi fatto un progresso. Sussiste ancora il prestigio del
coraggio, sussiste ancora la falsa idea dell'onore. Ed anzi crebbero i sofismi
e le sottigliezze e i sotterfugi della mente nel cercare i modi di salvare
l'onore senza nemmeno fare appello al coraggio. Son noti i molti duelli a' dì
nostri, dovuti indire ed accettare, per far pago il rispettabile pubblico che
chiama vile chi non discende sul terreno, foss'anco per un nonnulla; duelli
così ben preparati dai pietosi padrini, che la vita de' duellanti fu tanto al
sicuro sul terreno della battaglia, quanto sull'origliere dei placidi riposi;
onde contemporaneamente alla misura delle pistole e all'assaggio della polvere,
e al giuoco de' bussolotti onde si facean scomparire le palle micidiali, il più
celebre ristoratore della città stava ammannendo il più lauto asciolvere, e
apprestando sulla mensa lieta lo spumante sciampagna. E ciò tuttavia fu
decretato potesse bastare per l'onore. Però, stando così le cose, ed essendovi
nell'umanità malattie del cervello croniche e incurabili, si può ben profetare
un completo fallimento alle società che in Francia, in Germania, in Inghilterra
s'instituirono contro il duello; a meno che non vi si consocii l'autorità
costituita fondando i tribunali d'onore, onde provvedano a riparare coi loro
placiti a quelle ingiurie speciali che fin qui non si credettero vendicabili
che dal duello.
Ma comunque fosse e comunque sia di codesta faccenda, Angelo
Emo lo propose e il conte V... lo accettò, senza darsi un pensiero al mondo di
quel che se ne giudicava e diceva e scriveva dai loro dotti e onesti
contemporanei. Anzi, se non il giovane Emo, che era istruttissimo, è probabile
che il conte V... non sapesse nulla nè di Scipione Maffei, nè di Rousseau, nè
di tutta la parte teorica relativa all'abolizione del duello e solo avesse
contezza così in digrosso degli editti dei due ultimi Luigi di Francia.
Si recarono dunque in compagnia dei loro padrini al confine
dell'estuario veneto, e là da veri gentiluomini che dovevan ferirsi senza aver
nemmeno nè il bene nè il male di conoscersi, si apprestarono a incrociar le
spade, fermo dagli arbitri che la sfida dovesse essere, secondo la più generale
consuetudine, a primo sangue; il quale, secondo Rousseau, è il modo più assurdo
di duello, più assurdo del medesimo duello all'ultimo sangue. Perchè, diceva
esso in uno di que' suoi impeti di generosa facondia, al primo sangue?... gran
Dio! e che vuoi dunque tu fare di questo sangue? beverlo forse, o bestia
feroce? Ma questo primo sangue eruppe con un lieve zampillo dalla clavicola
sinistra del conte V... a fargli rossa la bianca lattuga che gli usciva dal
panciotto; zampillo lieve di più lieve ferita e che fu giudicata un nonnulla
dal chirurgo ch'era presente.
Ma non può immaginarsi il lettore come riuscisse
profondissima la ferita che ricevette l'orgoglio del conte, e l'ira che provò
contro la fortuna, la quale diede la vittoria al suo giovane avversario, di
gran lunga inferiore a lui nel maneggio della spada. Quell'ira però dovette
chiudersela in petto, perchè le leggi della cavalleria non permettevano che,
compiuta la prova dell'armi, si facesse il viso dell'armi all'avversario, al
quale doveva anzi cordialmente stringersi la mano.
Adempiuto pertanto alle prammatiche posteriori al
combattimento, il conte V... e il giovane Emo e i padrini e il chirurgo
ritornarono tutti a Venezia.
Il conte entrava nella laguna che facevano le tre ore di
notte. Torbido com'era, e pur non avendo nessun proposito bene deliberato in
testa, discese all'albergo, e, ripartito, andò alla casa Salomon dove aveva in
animo di recarsi fin dalla prima sera, ed erasi indugiato, assalito, come il
lettore sa, da cento pensieri in battaglia. Nè cosa volesse fare, ei lo sapeva
nemmeno, dopo ventiquattr'ore; bensì, per determinarsi, quando fu là, percosse
due o tre volte col martello la porta che rispondeva alla parte di terra.
Le imposte si spalancarono, e si mostrò il guardaportone.
- Non è in casa nessuno, diss'egli, senz'attendere che il
nuovo venuto parlasse.
- Nessuno?
- L'ho già detto.
- Allora aspetterò fin che venga qualcuno.
- Quando non c'è nessuno in casa, ho l'ordine di non lasciar
entrar anima viva, signore.
- Non c'è nemmeno l'illustrissima contessa V... di Milano?
- Nemmeno. Ma anche allora ch'ella è in palazzo, gli è come
se non ci fosse; e non riceve nessuno, nessuno affatto.
- Ciò va bene. Ma io sono il conte suo marito, venuto
espressamente da Milano, e devo e voglio e ho il diritto d'entrare.
- V. S. illustrissima mi perdoni, ma debbo tenere gli
ordini. Io poi non so che V. S. illustrissima sia davvero...
- E credi tu ch'io voglia vendermi per quello che non sono?
Va là in malora e lasciami entrare, ch'io stesso parlerà a' tuoi padroni e alla
contessa. E così dicendo sforzò, a così dire, l'ingresso; ed entrò in quel
lungo androne che, nelle case di Venezia, mette in comunicazione la parte di
terra con quella del rio.
- Signore, questa è una violenza di cui il padrone, che è
senatore...
- Taci, e bada a te, che nemmeno il diavolo basterebbe a
farmi uscire di qui, non che un senatore; e ho nelle valigie il tuo padrone e
la tua Repubblica e il Senato e il doge e il corno.
Così dicendo, calcato in testa il cappello a tre punte
filettato in oro, abbottonatosi il soprabito turchino da viaggio, ch'era lungo
fino agli orli degli stivali e aveva il bavaro pur filettato in oro che copriva
le spalle, misurava a gran passi quell'androne colla grande e grossa figura;
spingendosi di tanto in tanto fin sul primo gradino della scalea verso il rio a
guardare a dritta, a sinistra, a porger l'orecchio, a stare in ascolto se mai venisse
qualcuno; poi tornava a passeggiare innanzi e indietro, facendo risuonare sotto
la vôlta lo sgarbato scricchiolio de' suoi stivali forti.
Ed or lasciamolo passeggiare a sua posta, chè noi dobbiamo
ritornare al palazzo Pisani fra i gondolieri schiamazzanti, a piedi delle
scalee, nei cortili interni, ad assistere al passaggio delle belle veneziane, e
a dare il braccio alla contessa Clelia per ajutarla ad entrare in gondola e ad
adagiarsi sotto il felze.
Scendevano dunque tutte a quell'ora dallo scalone di casa
Pisani le ultime e più cospicue beltà patrizie convenute all'accademia. E
precisamente s'eran trattenute le ultime per un tacito accordo della loro
ambizione e della loro civetteria ad accrescer l'ansia de' giovani cavalieri,
aspettanti in due schiere sotto l'atrio che esse facessero loro la carità di
qualche occhiata. Discendeva la contessa A..., quella che possedeva gli occhi
più grandi e più glauchi in tutto l'estuario veneto. Beltà calcolatrice e
perfida, che si compiaceva della interminabil schiera delle sue vittime, e che
bisognava ostentar di sprezzarla, per farle spuntare in cuore, se non l'amore,
almeno qualche velleità di simpatia. Discendeva la M..., bruna beltà
capricciosa, dalla pelle di raso, e dall'occhio andaluso, lucente e tremulo come
l'astro di Venere, e che precisamente, pari alla dea che imprestò questo nome a
Lucifero, trattava lo sposo come Vulcano, quantunque non fosse zoppo, e lo
sagrificava a Marte, anzi a un drappello di semidei
più o meno guerrieri che si movevano in evoluzione in faccia a lei, e ch'ella
cangiava e sprecava come i guanti e le pantofole. Discendeva la B..., bellezza
epigrammatica e mordace, che già navigava cogli anni verso l'equatore della
vita femminile, e copriva di nèi le incipienti rughe, che un suo amante
corbellato e tradito chiamava i solchi del peccato. Discendeva la S..., beltà
perfetta, ma più carnale che spirituale, dall'occhio di capra, dal collo della
Diana efesia, dalle membra in cui trionfava la linea curva; sparpagliante a
tutti sorrisi ed occhiate, e che era la delizia dei giovinotti in pensione,
che, varcati i trentacinque, galoppavano verso i quarant'anni.
Discesero altre più o meno desiderate, più o meno belle, più
o meno alte, più o meno grasse; sebbene il guardinfante dal cinto in giù le
facesse tutte d'una circonferenza... e tra l'ultime discese la contessa Clelia,
che Alvise Pisani e il procurator Foscarini accompagnarono alla scalea, presso
alla quale, sotto l'atrio, successe come un ingorgo d'uomini e donne, mentre al
di fuori era una confusione inestricabile di gondole e di gondolieri, i quali
rispondevano, Vengo, Son qua, al servo colla torcia che gridava i nomi dei
signori che si presentavano per andar via: Casa Mocenigo, conte Erizzo, senator
Barbaro, Polcastro, Caotorta, Zen, contessa Rezzonico, contessa V..., e questa,
dopo un quarto d'ora d'aspettazione, sentì la voce del gondoliere Bianchi,
ch'era scivolato tra gondola e gondola fin lì. Il conte Pisani diede il braccio
alla contessa, che discese finalmente i gradini, e si adagiò sotto il felze.
Intanto da più di mezz'ora Amorevoli stava nella sua gondola
ferma in Canal grande, importunando di continuo il gondoliere:
- Ma bada che non ti sfugga.
- La se fida de mi...
- Ma sai tu ch'è già passata un'ora...
- Gnanca mezz'ora, sior.
- In tante gondole, come vuoi tu conoscere?...
- La lassa far a mi. Nu altri semo
come bracchi... se ghe ze el salvadego... nol scapa... La se meta intanto a
dormir.
- Ho già visto a passare più di trenta e di quaranta
gondole.
- De zento che ghe ne ze... la fazza conto, patron, che semo
indrio... Ma la guarda che la ze là... ch'el se consola, sior. E spingendo la
gondola codiò dalla lunga quella della contessa per qualche tempo, poi, quando
gli parve seconda l'occasione, le si portò ai fianchi.
- Buon dì... compare, disse il gondoliere al Bianchi.
La finestra del felze d'Amorevoli era a due dita dalla
finestra del felze della contessa.
- Donna Clelia, egli disse...
Ella trasalì a quella voce, e non rispose; Amorevoli seguì a
dire altre parole, ma la contessa non parlò.
Allora il gondoliere Bianchi che, stando in poppa, s'accorse
del silenzio della contessa, sospettando ch'ella fosse in un malo impaccio...
diede due o tre colpi di remi... e si portò innanzi di tutto lo spazio che
misura appunto una gondola, e disse anche qualche mala parola al gondoliere di
Amorevoli; e siccome era di tanto più robusto di colui... lo sopravanzò di sì
lungo tratto che l'altro indarno s'attentava di raggiungerlo; mentre come un
fuoco d'artifizio Amorevoli sagrava al lento gondoliere. Infine, la gondola
della contessa svoltò nel rio San Polo. Amorevoli dice al gondoliere: - Va là e
t'affretta che la raggiungeremo. Ma il Bianchi era già pervenuto alla casa
della contessa, che Amorevoli procedeva ancora discosto. Se non che, in quel
punto, ode la voce della contessa, anzi un grido, poi una voce d'uomo, e un
rumore di parapiglia. È vicino alla scalea della casa. È presso alla gondola
della contessa; vede il gondoliere Bianchi che appoggia un colpo di remo sul
cappello a tre punte di un uomo d'alta statura, ch'ei ravvisa pel conte marito.
Il cappello a tre punte, inconscio di tutto, fa tre giri grotteschi come un
paléo, e cade in laguna. Il conte sfodera la spada e si fa addosso al
gondoliere, e l'uno e l'altro cadono a fascio nella gondola, intanto che la
contessa piega come in deliquio sulla prora... Tutto questo avvenne in men
tempo che noi abbiamo impiegato a dirlo... e Amorevoli, inspirato non si sa da
che, ma pronto come una molla che scatti, prende la contessa e, ajutato dal gondoliere,
la porta di peso nella propria gondola... mentre dice: - Or t'affretta e non
farmi il poltrone.
Nè il conte, nè il gondoliere Bianchi che stavano a fascio
nella gondola, non feriti per fortuna, ma bensì martellandosi senza distinzione
di rango, poterono veder quel ch'era avvenuto; nè il guardaportone accorso,
intento al parapiglia; onde il gondoliere d'Amorevoli si partì senz'impicci...
e dopo cinque minuti era già in Canal grande.
Quando furono colà, Amorevoli respirò; ma non era ancora
tranquillo, sicchè fece intendere al gondoliere che vogasse più al largo... e
il gondoliere si spinse infatti verso il canal de' Marani. Intanto la contessa
fu scossa dagli aliti freschissimi della notte e tanto quanto si riebbe; e
vedendosi faccia a faccia con Amorevoli, raccolse gli sparsi pensieri e, fatto
alla meglio il riepilogo di tutto, gli strinse la mano. Certo che non avrebbe
fatto nemmeno quest'atto, per sè al tutto innocente, se fosse stata pienamente
in sè stessa; ma dal recente turbinìo dei sensi, la ragione non essendosi
ancora tutta quanta sviluppata, l'istinto teneva il suo posto; e l'istinto, il
men che potè fare, fu di permettere che la sua mano stringesse quella
d'Amorevoli, in segno di gratitudine.
E dopo quella stretta di mano, che lasciò un'impressione
indefinibile sulla mano di Amorevoli, vennero le parole tronche, breviloquenti,
infuocate, che non ripetiamo perchè per noi non avrebbero senso, tanto ne
avevano per quei due! parole che, nell'enfasi erotica, per quelli che le
profferiscono hanno un significato che non è inteso da chi le ascolta nella
calma di un cuore senza passione. Bensì nella pienezza luminosa di quella gioja
istantanea, sapean pur penetrare colla loro acutissima fitta i pensieri del
passato e del futuro, e i laceranti rimorsi.
Ma vi sono momenti della vita in cui, al cospetto di un bene
presente insperato e supremo, non possono prevalere tutti gli altri pensieri e
tutti gli altri dolori. Momenti in cui persino il colmo della sciagura, che pur
troppo si presagisce dover essere duratura, comunica al piacere fuggitivo
un'esaltazione senza pari.
E qui ci vorrebbero le essenze di rosa, di mirra e belgioino
distillate già nella fabbrica di Tomaso Moore di Londra, e passate poi in
Italia nella casa figliale di Prati; qui ci vorrebbero le flebili eleganze di
Aleardi, di Maffei, di Gazzoletti, per cantare il cantante Amorevoli che muto e
pensoso, stava contemplando l'inclita donna pensosa e muta; qui ci vorrebbe
qualche svolazzo degli altri poeti minori, che appartengono alla famiglia dei pettirossi,
dei canarj e dei capineri, perchè aliassero e gorgheggiassero e pipilassero in
segno di festa intorno a costoro, che usufruttano un quarto d'ora di gioja
ineffabile, a dispetto della loro falsa posizione.
Notte, cielo stellato, chiaro di luna, Venezia, canal
Orfano, canti lontani smorenti nell'aria, gondolieri colle sventure d'Erminia
in bocca. Due esseri nell'infelicità felici, un marito terribile lasciato sotto
il pugno e il remo d'un gondoliere poeta, eccitabile e fantastico; un passato
con de' rimorsi, un avvenire tenebroso: ecco, o signori, consommé di poesia e
di romanticismo.
Or qui venite, o giovani fantasiosi e teneri, e voi tutti,
che se foste fiori, non potreste esser altro che l'erba sensitiva, venite e
volteggiate a vostra posta e in tutti i modi in codesta azzurra sfera che vi
appartiene in diritto. Quanto a noi, non abbiamo a far altro; chè il nostro
cuore è ruvido oggimai come la pelle di un postiglione.
Ma dove eran diretti que' due felici infelici?... Ma in che ora
il gondoliere rivolse il ferro dentato verso la città?
La risposta a queste domande il lettore potrà averla
assistendo in seguito a strane cose che avverranno nella città di Milano
nell'anno 1766. Per ora,
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse,
nè più vi possiam leggere innanzi.
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