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Giuseppe Rovani
Cento anni

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  • LIBRO QUINTO
    • VI
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VI

Com'è facile a credere, il pubblico, che, nel caso nostro, era l'aggregato di tutti coloro i quali non aveano parte veruna nella magistratura e molto meno nella giudiziaria, e che senza nessuno studio preparatorio, teorie discusse, procedeva avanti coraggioso nel giudizio delle cose colla sola guida del senso comune, erasi fatto un concetto a modo suo dei fatti che abbiamo raccontati e delle conseguenti tesi criminali; e, cosa strana, il concetto del pubblico riuscì precisamente la camicia del vero. Vogliamo dire che esso opinava per la reità del Galantino, come opinava per la reità del conte F...; anzi, quando mai avesse dovuto essere indulgente con uno dei due, propendeva piuttosto a favore del primo che del secondo; in quanto poi all'accusa che il lacchè avea gettata contro la contessa, mentre e capitano e vicario e attuario e auditori e assessori e senatori, a primo colpo ne furono influenzati al punto da ammetterla, e in conseguenza da trovar necessario il sentir di presenza la contessa in giudizio; il pubblico, vogliamo dire la maggioranza, non credette nulla affatto; chè il senso comune rifiutavasi a vedere tresche amorose dove correva un divario di più che trent'anni d'età, tresche venali dove la ricchezza era pareggiata, tresche turpissime dove, cessa anche la fragilità umana, era però innegabile l'ottima fama della contessa, l'ottima fama del casato cospicuo a cui apparteneva, l'educazione avuta, la specialità sublime degli studj fatti. Però quelle ragioni medesime per cui il pubblico non avea sospettato mai che Amorevoli si fosse trovato nel giardino per lei, tornarono a ricomparire, quasi indignate della prima sconfitta, a ricomparire per difendere fervorosamente la sventurata contessa, e per isparlare con iracondia del procedere della giustizia.

E c'è di più, che al pubblico si confederò per la prima volta, nel desiderio di difendere la contessa, indovinate chi? tutte le donne più o meno cattive, più o meno giovani, più o meno belle del ceto patrizio e anche del ceto solamente ricco, che un tempo erano sempre state le naturali nemiche della superba contessa. Fu una specie di diserzione inattesa, un cambiar repentino di propositi e d'opinioni, un mettersi tutti da un lato a protestare in favor suo, e in modo di far salire in orgoglio coloro che hanno buon concetto dell'indole femminina.

Donna Paola che, nel tempo dell'assenza della contessa, mediatore il giovane Parini, era andata a visitare la madre di lei, partiti che furono per Venezia il conte V... e il conte fratello, credette bene, qualche ora dopo l'arrivo di donna Clelia, di rinnovar la visita alla contessa madre, e d'invitarla a venire ad abbracciar la figlia per confortarla. Molte dame trovavansi per caso colà... e tutte furono intorno alla contessa madre, la quale, nei della fuga e dell'assenza di donna Clelia, avea protestato di non voler mai più riconoscerla per sua figlia; tutte adunque le furono intorno per supplicarla a cedere alle preghiere di donna Paola. Che più!.... talune espressero persino un desiderio vivissimo d'andare a far visita alla fuggitiva ripatriata.

In quel giorno adunque madre e figlia si riabbracciarono; in quel giorno la contessa del Grillo andò a far visita a donna Clelia, e le rasciugò il pianto e la consolò riferendole quel che si diceva di lei per la città, e come avesse mille difensori, ed esortandola a star lieta. E donna Clelia infatti, se non lieta, almeno placida, dormì la notte; e soltanto quando si risvegliò fu percossa acerbissimamente dal pensiero che in quel giorno doveva comparire innanzi al Capitano di giustizia.

È un pregiudizio e un errore della mente, ma i luoghi dove si amministra la giustizia criminale incutono un vago sgomento anche nelle persone più intemerate, se per caso son esse chiamate a presentarsi ai giudici, sia pure per una semplice testimonianza, per un'informazione di poco conto, fin anco pel proprio vantaggio. Se dunque la contessa Clelia non potea sopportare il pensiero di doversi presentare al Capitano di giustizia per un'accusa e una presunzione gravissima, quantunque ella si sentisse innocente, la cosa è ragionevole. Confortata però dal reintegrato amore della contessa madre, sostenuta da donna Paola, si ricompose, e pensò ad assumere quel contegno che dovesse comandare alla sua volta un gran rispetto ai giudici medesimi.

Verso mezzodì la contessa madre le mandò un carrozzone di casa. Di concerto coll'illustrissimo marchese Recalcati, erasi stabilito che donna Paola avrebbe accompagnata la contessa, e l'avrebbe assistita di presenza anche nella sala degli interrogatorj. Partirono dunque di casa e l'una e l'altra poco dopo il mezzogiorno, e presto il carrozzone entrò nel cortile del Palazzo di Giustizia. La livrea pavonazza coi galloni gialli del cocchiere e dei due servitori, fece tosto conoscere a quanti trovavansi colà ch'era la carrozza di casa A..., chè la stessa donna Paola avea consigliata quella specie di pubblicità fastosa, perchè in simile circostanza doveva riuscire assai significante.

Il capitano marchese Recalcati, che stava in aspettazione di esse, quando sentì il loro arrivo, credette bene di uscire insieme col vicario e cogli assessori a riceverle in capo allo scalone. Era una degnazione insolita, ma che all'ottimo Recalcati era stata suggerita dalla specialità del caso, e, dopo i discorsi tenuti con donna Paola e le pubbliche dicerie pervenutegli all'orecchio, dalla persuasione che la contessa meritava il suo rispetto più che la sua severità. Dopo que' primi atti di ricevimento, ai quali però non fu straniero un certo sussiego di cerimoniale tutt'altro che adatto a mettere altri di buon umore, le signore furono fatte entrare in una sala, nella quale comparvero poco dopo il capitano, il vicario, un attuario, due auditori e due assessori, ponendosi a sedere presso una gran tavola coperta dal tappeto verde e su cui stava una croce d'ebano col Cristo d'avorio. I due assessori, pregando la contessa ad accostarsi, essi medesimi le portarono il seggiolone a bracciuoli.

Donna Clelia era vestita con austera semplicità, per quanto poteva esser permesso dalle foggie del tempo. Quand'ella si mosse tenendo dietro agli assessori che le portavano il seggiolone, la severissima regolarità del suo volto, fatta allora più grave dalla condizione dell'animo, la fronte che, per l'azione dell'orgoglio offeso, le si aggrondava in quel punto, raccostandole i neri sopraccigli al vertice del suo naso romano, i labbri e il mento che, modificati dai muscoli in soprassalto, parvero assumere fuggitivamente il disegno della bocca e del mento del giovane Bonaparte cogitabondo e cupo; tutto ciò, anzi che farla credere una donna chiamata a rispondere in tribunale, le avea comunicato l'aspetto della istessa dea Temide convenzionale, persuadente col severo simulacro l'inesorabile giustizia.

Quando la contessa fu seduta, l'attuario, dopo avere scorse alcune carte e guardato con significazione in faccia all'illustrissimo signor capitano, quasi a dire, siamo a tempo? incominciò l'interrogatorio dal consueto punto di partenza, domandando cioè alla contessa se ella sapeva la cagione per cui era stata citata in giudizio.

- La cagione, rispose donna Clelia, l'ho saputa ieri dalla venerabil donna Paola qui presente, ed è tale che mai non avrebbe potuto esser materia di una congettura a chiunque non sia offeso nella mente.

(Dal costituto che abbiam sott'occhio crediamo bene trascrivere le precise parole pronunciate dalla contessa, le quali, per una nota apposta in calce dall'attuaro signor Bignami, siamo avvertiti essersi voluto trasportarle e conservarle per intero nel processo verbale.)

Dopo quell'esordio, rivoltasi la contessa al signor capitano:

- Or io domando a vostra signoria illustrissima, soggiunse, se mi licenza di parlare con libertà.

Il capitano con atto benevolo accennò che dicesse. Allora la contessa incominciò; e un auditore, intinta la penna nel calamajo, si mise a scrivere come sotto dettatura.

- Più vo pensando al fatto per cui sono qui, disse la contessa, meno so farmi capace delle cagioni che possono avere spinto questo tribunale a credere, anche per un momento, alle deposizioni infondate di un costituito notoriamente malvagio, già più volte venuto nelle mani della giustizia e più volte, credo, punito.

L'illustrissimo signor capitano interruppe a tal punto la contessa. dimostrando come la deposizione a cui essa alludeva non aveva già ottenuta fede, ma bensì aveva costretta la giustizia a non trascurare nemmeno quel filo, per quanto potesse parere assurdo, trattandosi di una causa della più grande e delicata importanza.

- Di nuovo mi trovo costretta, replicò allora la contessa, a domandare se mi si licenza di continuare a parlar con libertà.

E di nuovo accennatole dal capitano affermativamente:

- Io non mi lagno, continuò la contessa, che la giustizia abbia fatto quel che doveva fare; mi lamento bensì che nell'intento di rintracciare il capo di quel filo assurdo che venne messo fuori dal costituito Suardi, siasi incominciato di dove, al peggio, avrebbesi dovuto finire. Comprendo assai bene quanto possano parere e siano ardite e, ciò che più monta, intempestive e dannose le parole di chi, invitato a difendersi in giudizio, vuol farsi censore dell'autorità; ma ci sono tali ingiurie, che, da qualunque parte vengano, non è permesso non respingerle con coraggio. La colpa di che obliquamente mi si vuole imputare, e che in uomini gravissimi e sapienti come voi potè pure prendere stanza, è di tale natura che ogni prudenza si ribella; e l'onestà, crudamente offesa, si rivolta iraconda non solo contro l'accusatore, ma anche contro chi ha potuto credere all'accusa, e così procedere di conformità... Questa è forse la prima volta che da chi sta al mio posto è tenuto un linguaggio di tal natura a chi sta al vostro, ma io confido che l'illustrissimo capitano vorrà tener conto della specialissima condizione in cui mi trovo.

- Vi ho lasciato parlare, contessa, prese a dire allora il capitano, perchè ve ne avevo dato licenza, e perchè è a tener conto della condizion vostra appunto. Ma la giustizia non può avere de' speciali riguardi per nessuno, nemmeno per l'innocenza, fosse pur veduta con certezza, quando da circostanze eccezionali è tratta a comparire come rea convenuta innanzi alla legge. Però la signoria vostra or si compiaccia di rispondere alle domande che le farà l'attuaro, per rispondere alle quali era necessario, illustrissima contessa, la vostra presenza; onde l'autorità non poteva operare diversamente da quel che ha fatto. Del resto, sia un attestato codesto della buona stima che si ha di voi, illustrissima contessa, se l'autorità medesima si degna di venire alla giustificazione de' proprj atti.

La contessa si rimise in calma, e:

- Vi ringrazio, disse, eccellentissimo signor capitano, di questa degnazione.

Qui ci fu un po' di pausa.... indi l'attuaro continuò:

- L'illustrissima signora contessa ha conosciuto il defunto marchese F...?

- L'ho conosciuto ... ma, quasi potrei dire, soltanto di nome e di vista... dico quasi, perchè a una festa in casa Borromeo, tre anni fa, esso mi rivolse la parola, ed io di conformità gli risposi... e d'allora in poi, se l'ho visto spesse volte e spesse volte ho risposto al suo saluto stando in carrozza al corso della strada Marina, non gli ho parlato mai più, mi sono trovata mai con lui tanto poco punto.

L'auditore allora chiese alla contessa: quale a suo giudizio, doveva essere la cagione per la quale il costituito Suardi fu tentato di scaricare su di essa la colpa ond'egli era imputato.

- Nella lettera che scrissi alla venerabile donna Paola qui presente, e che so essere stata deposta nelle mani delle signorie vostre, mi pare risulti evidente la cagione per cui il costituito Suardi ha messo innanzi il mio nome. È questa una cagione di vendetta e di rappresaglia, come suol dirsi. La sua cattura essendo avvenuta subito dopo la visita ch'egli venne a farmi, per indurmi con impudenza inaudita quasi a rendermi complice dell'insidia in cui egli stava per trarre una inesperta fanciulla veneziana di casato patrizio, ch'io per avventura potei giungere in tempo a salvare dalle scellerate sue mani; dovette necessariamente fargli credere che l'accusa potesse essere venuta da me, essendosi egli smarrito contro la natura sua, e avendo perduto la sfrontatezza e l'audacia quand'io, con sua sorpresa, gli toccai del sospetto che si aveva di lui pel fatto del defunto marchese. Chiunque avesse osservata la faccia di quel ribaldo, quando io lo colpii all'impensata, non potrebbe oggi dubitare nemmen per ombra della sua reità... Per tutte le quali cose persuaso il costituito Suardi che da me gli sia venuto il colpo, ha voluto vendicarsi e, ingegnosissimo qual è e astutissimo, ha saputo sì ben fare e sì ben dire, ch'è riuscito a trarre in inganno anche voi. Del rimanente, quand'io scrissi quella lettera alla venerabile donna Paola, la pregai di non farne motto con veruno, perch'io non intendevo di farmi accusatrice di nessuno al mondo, nemmen de' ribaldi; ma ella, che ha più sapienza di me, ha pensato che, quando l'indulgenza verso i tristi torna a danno, e a gravissimo danno di sventurati innocenti, tosto si converte in colpa; e però di quella mia lettera fece un atto d'accusa.... accusa che oggi maturatamente io rinnovo, supplicando l'alta giustizia di questo tribunale a non intralasciare indagine nessuna, a non fermarsi alle ingannevoli apparenze, a inseguire il vero con insistenza, perchè trattasi di un povero fanciullo derelitto, trattasi di una sventuratissima donna lasciata nella miseria a macerarsi della colpa altrui. Il testamento fu dettato dal notajo Macchi, e scritto dal defunto, e deposto fra le sue carte più preziose; jeri la contessa del Grillo mi assicurava di ciò, avendone parlato collo stesso notajo. De' riguardi troppo giusti alla fama di famiglie cospicue possono far peritosa la giustizia nel frugare colà dove precisamente dev'essersi appiattata la colpa... Ma testè, con sapienza, l'illustrissimo signor capitano dicevami che nemmen l'innocenza può lasciarsi in riposo quando da fatti eccezionali è chiamata siccome rea convenuta innanzi alla legge: tant'è vero ch'io sono qui... Per tutte le quali cose codesto tribunale voglia provvedere, nell'alta sua saviezza, perchè la giustizia abbia l'intero suo corso. Al qual fine io sono qui sempre disposta a dar ragione d'ogni mio fatto... Dirò di più, tanto sono persuasa di poter essere utile a degli sventurati, che io sono disposta, giacchè ho superato il primo ribrezzo di venire a questi scanni, a sopportare la vista del costituito lacchè... Io porto opinione che la mia presenza e le mie parole e la ricordanza de' fatti avvenuti gli faranno smarrire l'audacia, e la verità balzerà fuori.

E la contessa tacque in mezzo al silenzio de' giudici.

 




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